recensione

Dagli archivi: Inventions – Maze of Woods

Inventions – Maze of Woods (Bella Union)

7,5

“I wanted to do something that I don’t know how to do”, si sente nella traccia d’apertura del nuovo disco degli Inventions: ma Mark T. Smith (Explosions in the Sky) e Matthew Cooper (meglio conosciuto come Eluvium) sanno il fatto loro, tanto da produrre un lavoro più riuscito dell’esordio di poco meno di un anno fa. Il duo prefigura strade nuove, prendendo spunto da ciò che ha consolidato (il singolo “Springworlds” è in linea con il self-titled), senza paura di continuare a sperimentare con i beat (“Escapers”) o di esprimere in maniera più definita i propri caratteri timbrici peculiari. Ecco quindi scorrere l’una nell’altra parti più basate sul rumore e il piano di Eluvium (“Moanmusic”) e altre in cui le chitarre spaziali di Smith prendono il comando.

Ma la vera novità del disco è la presenza dell’elemento vocale in quasi tutte le tracce: la voce-strumento (spesso sotto forma di campionamenti e loop) è usata in maniera estremamente versatile e si limita a fare da punteggiatura, diventa aria d’opera o si tramuta in un dolce ululato (“Wolfkids”). Maze of Woods documenta in maniera affascinante la ricerca sonora di due musicisti che continuano a dimostrare una coesione e un affiatamento invidiabili, anche e soprattutto quando gli intrecci che creano formano labirinti sonori verso i quali l’ascoltatore è irrimediabilmente attratto e nei quali si perde piacevolmente.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Matthew E. White – Fresh Blood

Matthew E. White – Fresh Blood (Domino)

8

Altri ascolti raccomandati
Matthew E. White – Big Inner
Dusty Springfield – Dusty in Memphis
AA VV – Atlantic Rhythm & Blues 1947-1974

Tre anni dopo Big Inner, Matthew E. White ci regala un altro bel disco: Fresh Blood è più pensato del debutto, ogni brano è lavorato finemente e arrangiato con gusto. Ciononostante il nuovo lavoro del musicista di Richmond non suona laccato o falso: rischi che poteva correre ognuna di queste dieci tracce che si muovono tra americana, soul e r’n’b, con pochissima elettricità e senza un briciolo di elettronica. In fondo, ogni disco che mostra chiaramente quali siano i suoi antenati (l’albero di famiglia è ben rappresentato in dieci ore dalla splendida raccolta Atlantic Rhythm & Blues) può risultare una goffa imitazione del passato. White e i suoi musicisti (la house band dell’etichetta, Trey Pollard, Cameron Ralston e Pinson Chanselle) invece ci credono davvero, dimostrano la maturità raggiunta insieme e usano sapientemente ogni singolo elemento di ogni canzone, dalle dinamiche alle partiture per archi, dai raddoppi delle voci alle linee di basso, per creare una narrazione fluida e coesa.

Dall’apertura con “Take Care My Baby”, in cui la voce di White mormora incerta parallelamente al lento entrare degli strumenti (archi e fiati, oltre a piano, basso, chitarra e batteria: gli ingredienti sono questi), fino alla chiusura con il rhythm and blues classico e gentile di “Love Is Deep”, l’album regala momenti più divertenti (il singolo “Rock and Roll Is Cold”), altri più scuri (“Holy Moly”), sposando un soul orchestrale che si concede precise punte di elettricità, come in “Tranquillity”, uno dei pezzi chiave del disco. Sembra di esplorare le stanze di una casa, che, com’era accaduto nell’esordio, ci ricorda quella che sembra dischiudersi all’ascoltatore di What’s Going On di Marvin Gaye: una casa che odora di legno e polvere, tra le cui solide pareti si parla più d’amore che di politica. I tempi sono cambiati, del resto, ma il presente, se ci offre dischi del genere, non è poi così male.

Dagli archivi: Cannibal Ox – Blade of the Ronin

Cannibal Ox – Blade of the Ronin (IGC Records)

5,5

Basta confrontare la prima traccia del debutto del duo di Harlem con la intro di questo nuovo disco per capire che i 14 anni intercorsi tra lo splendido The Cold Vein e il fiacco Blade of the Ronin hanno decisamente cambiato le cose per Vordul Mega e Vast Aire (qui decisamente in primo piano rispetto al partner). Ciò che manca, soprattutto, è la ricerca dei suoni: nel 2001 i due raccontavano la loro NYC con distorsioni, squittii elettronici e bordoni inquietanti.

Le musiche del nuovo album, invece, sono un impasto troppo pacificato e poco convinto tra il tentativo di ricreare beat e basi del passato (che però allora erano, perdonateci il gioco di parole, all’avanguardia) e di tendere un orecchio ai suoni d’oggi. Il tutto sotto la produzione di Bill Cosmiq che, non ce ne voglia, fa il suo, ma non è l’El-P a cui The Cold Vein deve molto. Diciannove tracce che si srotolano lungo un’ora di disco, che avrebbe guadagnato molto da una sfoltitura, anche della guest-list: tra i featuring di Double A.B., Kenyattah Black, The Artifacts, U-God, eLZhi, Swave Sevah, Space, Elohem Star, IRealz, forse solo quello di MF Doom in “Iron Rose” si fa ricordare in qualche modo. Ma quella canzone, che vorrebbe riprendere la prima traccia con cui abbiamo conosciuto i Cannibal Ox, “Iron Galaxy”, ne è una pallidissima parente. Insomma, speravamo qualcosa di più.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: La Batteria – ST

La Batteria – ST (Penny Records)

6

la batteriaEmanuele Bultrini, Paolo Pecorelli, Stefano Vicarelli e David Nerattini sono musicisti romani con un bel curriculum alle spalle: i primi tre suonano anche ne La Fonderia che, come questa neonata band, è principalmente strumentale. La Batteria si rifà alla musica italiana da film e da library prodotta tra la fine dei ’60 e i primi anni ’80: un periodo ultimamente più che sfruttato, a cui i musicisti guardano con fin troppo rispetto. Strumentazione d’epoca, progressioni armoniche filologicamente corrette e, tutto sommato, poche sorprese. Colpiscono “Chimera”, traccia iniziale con echi folk, e “Formula”, che si apre e si chiude con un synth quasi carpenteriano. Speriamo che le influenze più variegate di cui parla il comunicato stampa erompano con più coraggio in una seconda prova.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di febbraio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Dodos – Individ

The Dodos – Individ (Morr Music)

7

Al sesto disco i Dodos aumentano la posta: le percussioni di Logan Kroeber sono più variegate, massicce e incalzanti, le chitarre di Meric Long passano sovente attraverso pedali, si riproducono in loop, costruiscono strati spessi e densi. Alcuni brani del precedente Carrier avevano questa caratteristica, ma erano immersi in una generale leggerezza che abbiamo amato sin dal secondo disco del duo di San Francisco, quel Visiter che rimane tuttora la loro prova migliore. In Individ le proporzioni sono rovesciate a partire dalla lunga canzone che apre il lavoro, “Precipitation”: giochi sul pedale del volume, linee di chitarra una sull’altra, la voce di Long che raddoppia, poi un’acustica, in un crescendo lungo e sentito fino a un deciso cambio di tempo.

Si prosegue in maniera quasi marziale fino al quarto brano in scaletta. “Competition”, che insieme a “Goodbye & Endings” ha avuto il compito di anticipare l’album, è il trait d’union con il suono tipico dei Dodos: il ritmo rallenta un po’ a metà album, i suoni si semplificano. Il resto (recita il comunicato) “suona come essere all’interno di un tornado”, proprio quello che si allontanava dall’uomo raffigurato nella copertina del lavoro precedente. Qui la copertina è stracolma di colori e linee (e il tratto ricorda curiosamente quello di Fellini). Insomma, un buon disco, per quanto un lavoro di cesello avrebbe permesso risultati ancora migliori.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Liam Hayes – Slurrup

Liam Hayes – Slurrup (Fat Possum)

6,5

Liam Hayes - SlurrupDa vent’anni Liam Hayes sperimenta con il pop e la forma canzone, talvolta aderendo ai suoi canoni, altre volte cercando delle rotture totali con i modelli di riferimento. Lo status di culto ottenuto con il nome d’arte Plush lo ha portato davanti alle macchina da presa (Alta fedeltà) e, recentemente, a scrivere la colonna sonora dell’ultimo film di Roman Coppola.

Il musicista di Chicago torna ora con un quinto disco in studio in cui una prima parte più garage (che comprende “One Way Out” e “Fokus”, i due pezzi di anticipazione dell’album) cede il posto a momenti più languidi (“Greenfield” e “August Fourteen”). Qua e là (come è frequente in Hayes) rumorismi, registrazioni di chiacchiere in studio, collage sonori che punteggiano un divertissement ben congegnato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di febbraio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Einstürzende Neubauten – LAMENT. Teatro Manzoni, Bologna, 28 novembre 2014

Più che un live, una rappresentazione musicale, che non ha paura di essere teatro e di rivolgersi al cinema dell’epoca intorno alla Prima Guerra Mondiale. Gli Einstürzende Neubauten raccontano il conflitto di un secolo fa con senso della narrazione e capacità tecnica stupefacenti. Oltre alle tracce finite in LAMENT (il disco), due bis “a tema”: “Let’s Do It a Da Da” e “Ich Gehe Jetz”.

Foto di https://ultimavisione.wordpress.com/

Un quartetto d’archi, un tastierista e cinque uomini in nero, qualcuno scalzo: ecco il cast dello spettacolo dal quale è tratto LAMENT, per chi vi scrive uno dei dischi più importanti dell’anno appena concluso. Un disco la cui musica nasce per lo spettacolo, anzi, per la prima del sei novembre scorso a Diksmuide, in Belgio: più che un “semplice” concerto, il live di Blixa Bargeld, N. U. Unruh, Alexander Hacke, Jochen Arbeit, Rudolf Moser, Felix Gebhard e Jan Tillman Schade è una rappresentazione, in cui è fondamentale il ruolo delle musiche tanto quello delle luci, così come la gestione del palco.

Il fondo è un telo bianco, davanti al quale viene messo in scena il racconto tragico e spietato del primo conflitto mondiale. Gli EN, insieme a musicisti scelti di volta in volta nei Paesi in cui il tour ha fatto tappa, ci rendono partecipi della costruzione dello spettacolo: non c’è quasi backstage e quindi i laminati metallici, i tubi, le latte e le catene, da sempre nell’arsenale del gruppo, sono visibili nelle mani dei tecnici che agilmente costruiscono “il Leviatano”.

Foto di https://www.musiculturaonline.it/

È così che Bargeld, in più di un’intervista, ha chiamato l’insieme di metallo percosso, suonato, strofinato, strisciato e sbattuto: è il rumore della guerra, la “Kriegsmachinerie” con cui comincia lo spettacolo, un fragoroso e lancinante crescendo, parallelo all’aumento delle spese belliche che gli Stati approvarono negli anni antecedenti al 1914. LAMENT (tanto il live quanto il disco, ovviamente) rende esplicito il suo carattere narrativo (più che didattico o didascalico): Bargeld introduce diversi pezzi con brevi spiegazioni, spesso venate di nera ironia, talvolta enciclopedicamente precise nel fornire origini e criteri compositivi dei brani.

Il primo è strumentale, ma le parole appaiono su cartelli: in questo caso si tratta di didascalie che ci hanno ricordato, più che i corsivi sotto le foto di un libro di storia, quelle di un film muto. LAMENT è una rappresentazione musicale e teatrale, che talvolta tende al cinema dell’epoca: quando le luci diventano blu o seppia, pare di essere tornati ai viraggi nei film degli anni che si srotolano davanti a noi in un 4/4 a 120 bpm (“Ogni giorno è un battito”, spiega Blixa), ritmati dal filo spinato (percosso e usato come unico accompagnamento in “In De Loopgraaf”), segnati dal ticchettare di stampelle (elettrificate e rese strumenti in “Achterland”), riprodotti su vecchi acetati.

Questo live degli Einstürzende Neubauten, magistrale da ogni punto di vista, è un’esperienza tra le più intense che una band abbia creato negli ultimi tempi.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: AA VV – The Art of McCartney e The New Basement Tapes – Lost on the River

AA VV – The Art of McCartney (Arctic Poppy)

5

The New Basement Tapes – Lost on the River (Harvest)

7

Due tributi diversi, nei modi e nei risultati, per omaggiare due figure mitologiche. Deludente “The Art of McCartney”, prodotto da Ralph Sall, in cui una trentina di musicisti si cimentano con una selezione di successi di Macca, dai Beatles agli anni recenti. La scaletta è scontata, ma maggiormente preoccupante è che due terzi delle canzoni sembrino una sorta di karaoke di lusso, più divertente sulla carta (“Ehi, Alice Cooper canta Eleanor Rigby…”), che nei fatti (“… uguale all’originale”). Compare ogni tanto un barlume di interesse, non tanto negli arrangiamenti, per lo più pedissequamente filologici, quanto nelle interpretazioni vocali: il meglio arriva sul finale con le ruvidezze di Alain Touissant e Dr John, e le tinte black di Dion e B. B. King, a ricordarci quanto certi suoni abbiano educato i quattro di Liverpool. C’è anche Bob Dylan, che rifà (abbastanza svogliatamente) You’ve Got to Hide Your Love Away, pubblicata in origine esattamente un anno dopo il suo primo incontro con i Beatles.

Il legame tra i due titoli di cui parliamo finisce qua; infatti “Lost on the River” è la messa in musica di alcuni testi scritti da Dylan coevi ai Basement Tapes, al buen retiro tra Woodstock e dintorni del 1967. I manoscritti sono stati consegnati dal loro autore a T-Bone Burnett, che ha preso in mano il progetto come produttore. Insieme a lui, nientepopodimeno che Elvis Costello, Jim James (My Morning Jacket), Marcus Mumford (Mumford & Sons), Rhiannon Giddens (Carolina Chocolate Drops), Taylor Goldsmith (Dawes) e un cameo alla chitarra di Johnny Depp. Il risultato è piacevole, non sorprendente, ma con un pugno di canzoni che colpiscono, soprattutto quando è Costello a cantare i versi (musicalmente efficacissimi) perduti e ritrovati.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Einstürzende Neubauten – LAMENT

Einstürzende Neubauten – LAMENT (BMG)

8

Altri ascolti raccomandati
Einstürzende Neubauten – Faustmusik
Mike Patton – Pranzo Oltranzista
Laibach – Volk

“LAMENT”, ammoniscono le note del disco, è la documentazione di un’installazione-spettacolo legata ai temi della Prima Guerra Mondiale messa in scena in Belgio in questi primi giorni di novembre. Tuttavia, anche “solo” ascoltata, l’ultima pubblicazione dei tedeschi travolge da subito per la potenza espressiva: Kriegsmachinerie, “La macchina della guerra” è un fragore metallico crescente, puro rumorismo Neubauten, sì, ma anche la “corrispondenza sonora” dell’aumento di spesa per gli armamenti dei Paesi poco prima dell’inizio delle carneficine.

E che dire dei tubi in Der 1. Weltkrieg (Percussion version): suonano secondo la rappresentazione matematica dello scorrere quotidiano del primo conflitto mondiale, ritmando la voce di Blixa Bargeld che snocciola nomi e date delle entrate in guerra degli attori dell’epoca. “LAMENT”, però, non è cerebrale, né didascalico: gli Einstürzende Neubauten compongono una narrazione originale, palpitante e visibile, quasi teatrale del conflitto tramite canzoni più canoniche e rielaborando composizioni di altri.

Esempio perfetto è il nucleo centrale dell’album, da cui il lavoro prende il titolo: nella prima parte riduce all’osso il canone del “lamento”, con le due parole “Macht” e “Krieg” che si ripetono ossessivamente, per poi tornare ai rumorismi della “Spirale Discendente” della seconda parte. La conclusione è toccante: una rielaborazione di un mottetto del 16° secolo, sulla quale poggiano registrazioni d’epoca finora inedite di prigionieri di guerra che recitano, ognuno nella sua lingua, la parabola del Figliol Prodigo.

E ci sono bellissime cover di brani pre-jazz di un plotone di soldati afroamericani, del classico folk antibellico Where Are All the Flowers Gone, di un misconosciuto pezzo di cabaret dai toni pseudofuturisti che arriva dalla Lipsia del 1920 (in cui viene nominato per la prima volta “pubblicamente” Hitler)… “LAMENT” è una continua scoperta, un viaggio appassionante, complesso e stratificato; un’opera scura e sardonica che ha la forza e il coraggio di lambire i confini della riflessione storica e filosofica sulla Guerra e, quindi, sull’Uomo.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Mark Kozelek – Sings Christmas Carols

Mark Kozelek – Sings Christmas Carols (Caldo Verde)

Tranquilli, potete ascoltare questo disco con la famiglia riunita intorno all’albero: neanche alla fine, quando un pianoforte accenna a “Jingle Bells”, qualcuno viene mandato a quel paese. Il titolo del disco di Natale di Mark Kozelek (Sings Christmas Carols), è veritiero: si va da “O Christmas Tree” a “Silent Night”, arrangiate quasi tutte per chitarra e voce, con il canto inconfondibile del musicista, ma senza deviazioni sostanziali dagli originali. “Tra tutti i Kozelek del mondo, tu sei il più Kozelek di tutti, Mark”, si sente in una cover tratta da uno speciale natalizio dei Peanuts. Una briciola di ironia, forse l’ultima che il musicista ha da spendere, dopo l’acrimonia sparsa generosamente negli ultimi mesi. A Natale siamo tutti più buoni?

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Torna in cima