recensione

Dagli archivi: A Winged Victory for the Sullen – Atomos

A Winged Victory for the Sullen – Atomos (Erased Tapes)

7,5

Dustin O’Halloran e Adam Witzie hanno scritto la musica, poi diventata il secondo LP a nome A Winged Victory for the Sullen, per una coreografia del Royal Ballet di Londra, andata in scena un anno fa. Tuttavia Atomos è godibilissimo anche di per sé: undici tracce (da “Atomos I” a “Atomos XII”: sì, manca un numero e nell’interno del cd, ironicamente, si scrive “Whatever Happened to IV”) costruite per lo più su violini, viola, violoncelli, pianoforte e synth modulare, suonato da Francesco Donadello, responsabile anche dell’efficace mixing del disco e di parte delle registrazioni.

I territori sono quelli dell’ambient e della neoclassica, non mancano inserti rumoristici, di elettronica e field recording; le percussioni compaiono (poco) solo in “VII”, già nell’ep omonimo uscito a aprile: una caratteristica rilevante, considerando la finalità performativa dell’opera. La musica è sospesa, per quanto ci siano meno vuoti e ripetizioni rispetto all’esordio del duo; si gioca su crescendo trascinanti, su quinte ripetute dagli archi combinate con solenni ribattute al piano, come in “VI”: il brano è uno dei vertici del disco, insieme a “X”, dove le linee dei violini ricordano Arvo Pärt. Capita che il dialogo tra piano e archi sia un po’ meccanico, ma ci sono delle eccezioni notevoli: la penultima traccia, ad esempio, porta a fusione perfetta le due anime di questo album più che interessante.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Peter Selway – Weatherhouse

Philip Selway – Weatherhouse (Bella Union)

6,5

Weatherhouse, a differenza di Familial, è stato concepito con una band, per quanto ridotta: Adem (Ilhan) e Katherine Mann (meglio nota come Quinta) sono i due polistrumentisti che hanno suonato dal vivo con Selway e che hanno contribuito molto alla produzione e agli arrangiamenti della seconda prova solista del batterista dei Radiohead.

Proprio il lavoro di scrittura e produzione stacca il disco dal suo predecessore, praticamente tutto voce e chitarra: qui archi e piano sono preminenti e usati bene, insieme a una miriade di altri strumenti. Buon esempio è l’apertura “Coming Up for Air”, il pezzo migliore del disco: la giusta combinazione di elettrico, elettronico e acustico e un ritmo massiccio e quasi marziale, cadenzato, che ritorna in molti brani.

La voce di Selway ricorda nella strofa Brendan Perry dei Dead Can Dance, mentre nel ritornello si sentono echi delle sperimentazioni britanniche di fine ’80. Il fantasma dei Radiohead fa capolino in “Ghosts” (ehm) e “Around Again”, ma è comprensibile. Sorprende, in questi pezzi, il lavoro fatto sulla batteria, quasi assente in Familial, come se Selway si fosse riconciliato con il suo lavoro full-time. Purtroppo, però, la seconda parte dell’album cade nei difetti di qualche anno fa: linee melodiche piatte e testi scontati fanno tornare il disco su livelli banali, lo sviluppo delle tracce diventa prevedibile e l’entusiasmo iniziale tende a evaporare. Peccato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: alt-J – This Is All Yours

alt-J – This Is All Yours (Infectious)

7

Il secondo disco è sempre difficile: se il primo vince premi ovunque e i suoi brani vengono usati nei promo della BBC; se arriva (dopo l’acclamazione) l’ovvio boomerang critico mentre supera il milione di copie vendute, e se (poco prima dell’inizio del lavoro sulle nuove canzoni) uno dei membri fondatori esce dalla band, ecco che il secondo disco può diventare più che difficile. Eppure gli alt-J rimangono quasi all’altezza del debutto, apertamente richiamato da This Is All Yours.

Ci sono canzoni più acustiche e semplici (alcune gradevoli, come “Choices Kingdom”, altre meno, come “Garden of England”) e pezzi più corposi (un singolo riuscitissimo, “Every Other Freckle”, e uno evitabile come “Left Hand Free”; il terzo, “Hunger of the Pine”, sta nel mezzo). A una “Intro” davvero notevole, giocata su strati di voci, segue un dittico legato a Nara, città sacra del Giappone nota anche per i cervi che liberamente vi pascolano: “To Be a Deer in Nara”, cantano gli alt-J, suggerendoci un’immagine interessante.

La visione di un cervo a Nara, infatti, è una stupefacente normalità come la loro musica. Tra indie, folk ed elettronica, i brani della band di Leeds sembrano “normali” eppure non lo sono del tutto. L’uso intelligente delle parole (spesso sensuali, corporee, terrene) e certi arrangiamenti e suoni spostano la forma pop in un altrove ancora in via di definizione. Noi abbiamo fiducia: nel frattempo godiamo di quello che ci offrono.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Allah-Las – Worship the Sun

Allah-Las – Worship the Sun (Innovative Leisure)

7

Diciamolo subito: se vi siete crogiolati sull’esordio self-titled di Matthew Correia (batteria), Spencer Dunham (basso), Miles Michaud (voce e chitarra) e Pedrum Siadatian (chitarra), godrete anche dei quaranta minuti di Worship the Sun. Altrimenti, passate oltre: perché la formula è sempre composta da psichedelia 60’s, surf e garage, mischiati a quel suono indolente e rilassato tipico delle band che provengono dalle lande soleggiate della West Coast.

In questo secondo album troverete riverberi di chitarra che paiono vibrare insieme a quelli del sole all’orizzonte, un pizzico di malinconia, ricordi di tour, qualche tocco esotico (“Yemeni Jade”), cori che inneggiano all’amore e a ciò che ci piace pensare gli Allah-Las vedano ogni giorno: il cielo blu, i canyon (come il leggendario Topanga, dove la band ha registrato le quattordici tracce del disco), l’oceano, le ragazze-della-California.

Ci sono tre buoni strumentali che permettono ai losangelini di sperimentare con slide, percussioni e vibrafoni, una title-track semplice e efficace giocata su quattro accordi quattro, ma anche una deriva quasi-country inaspettata (“Better than Mine”). Una riproposizione di suoni del passato da parte di musicisti (ex impiegati di Amoeba) appassionati di musica dei decenni passati: operazione forse non originalissima, ma sincera e ben suonata.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: This Will Destroy You – Another Language

This Will Destroy You – Another Language (Suicide Squeeze Records)

7,5

Chissà qual è l’“altro linguaggio” che dà il titolo al terzo album in studio del quartetto texano: ad ascoltare le otto tracce di Another Language si potrebbe immaginare che quell’“another” non indichi un’alternativa, ma piuttosto un’aggiunta. I This Will Destroy You, infatti, arricchiscono sonorità e ritmiche dell’ultimo Tunnel Blanket pur rimanendo nell’ambito di un post-rock d’atmosfera che gioca moltissimo con le dinamiche (per descrivere certi passaggi si dovrebbero usare i ppp e i fff della musica classica) e accentuano ancora di più le componenti malinconiche e inquietanti dei lavori precedenti.

Ascoltando l’album si viene travolti dall’aumento degli strati di suono e dal crescere della potenza della band, che pare non accontentarsi mai, all’insegna di un’innalzamento continuo del pathos e del volume: ad esempio nel singolo “Dustism” quello che credevamo fosse il picco (a metà pezzo) viene poi ampiamente superato nel finale. Tuttavia ci sono anche momenti più calmi, vedi il “dittico” “The Puritan” / “Mother Opiate”, tutto giocato su una linea di pianoforte che si rincorre da un brano all’altro, e sperimentazioni interessanti, come il silenzio a cui arriva “Serpent Mound” (presagio della successiva esplosione), o il gioco di eco sui piatti in “Memory Loss”. Nel suo genere un disco interessante, vario, coinvolgente e sincero.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Simian Mobile Disco – Whorl

Simian Mobile Disco – Whorl (Anti-)

7

Il deserto, due synth modulari, due sequencer, un mixer: ecco gli ingredienti di Whorl, registrato nella zona del Joshua Tree in tre giornate dello scorso aprile. Le dodici tracce derivano da due solitarie session live sotto il sole californiano e dal successivo concerto tenuto davanti a novecento persone accorse a uno sperduto locale country&western proprio per sentire in anteprima il nuovo lavoro dei Simian Mobile Disco. Pur continuando a indugiare nei territori ombrosi che battono da un po’, James Ford e Jas Shaw (che hanno abbandonato la Wichita per la Anti-) superano Unpatterns.

Dall’inizio al decimo minuto dominano i synth, che paiono inquadrare lentamente il luogo dove poi si svolgerà l’azione; la cassa entra solo al terzo pezzo, “Sun Dogs”. Tuttavia la volontà del duo, ormai da anni, non è “rifare ‘Hustler’”, bensì esplorare nuovi luoghi, magari alla luce del giorno, fuori dai club.

Le costrizioni alla Dogma 95 che questa volta si sono dati i britannici, in fondo, hanno funzionato: pensare il disco “all’aperto” e come qualcosa da suonare ogni volta e tutto dal vivo ha dato forza alla scaletta, che scorre bene tra momenti più danzerecci (non sempre originali) e altri più introspettivi, fino alla bella conclusione di “Casiopeia”, un lento movimento di macchina uguale e contrario a quello d’apertura. Diligente, ma piacevole.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Death from Above 1979 – The Physical World

Death from Above 1979 – The Physical World (Last Gang Record / Fiction / Caroline)

5

“Se la stampa dice che non è quello che si aspettava, be’, l’avete chiesto voi”, ha dichiarato all’NME Sebastien Grainger riferendosi al secondo album dei Death from Above 1979, The Physical World. Ammesso e non concesso di avere domandato a gran voce il ritorno del duo canadese (insieme a Grainger alla batteria e voce c’è Jesse F. Keeler ai synth e basso), dieci anni dopo il debutto You’re a Woman, I’m a Machine: ci meritavamo un disco così? Questa seconda uscita, infatti, ha un problema basilare e non da poco: suona vecchia e stanca, sia considerata nel contesto del panorama odierno, che (soprattutto) messa a confronto col tiro della band di dieci anni fa.

Qui ogni brano pare essere il tentativo di riproporre quel suono con pigre variazioni sul tema e richiami sparsi: oltre a tutto l’alt-rock degli anni ’90, ci si rivolge ai punk-rock in “Right On Frankenstein” (c’è anche la rima “ramonesiana” con “cemetery”), al punk-funk (con campanaccio!) nell’apertura “Cheap Talk” e in “Crystal Ball”, che tocca pericolosissimi territori nu-metal. Doom e stoner affiorano in “Nothin Left”, “Virgins” e nella title-track, mentre la filigrana di “Gemini” mostra tracce di hardcore melodico. Una vaga eco della potenza “live” e grezza delle canzoni del 2004 c’è solo in “Government Trash”. Mi sa che noi-della-stampa non chiederemo un terzo disco.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Orlando Julius and the Heliocentrics – Jaiyede Afro

Orlando Julius & the Heliocentrics – Jaiyeide Afro (Strut)

7,5

Dopo le collaborazioni con Lloyd Miller e Melvin Van Peebles, splendidi viaggi tra l’Oriente e lo spazio, gli Heliocentrics tornano all’Africa. Qualche anno fa hanno lavorato con Mulatu Astakte, questa volta la trasferta a Londra, negli studi rigorosamente analogici di Malcolm Catto e soci, tocca al grande sassofonista e cantante Orlando Julius (uno dei padri riconosciuti dell’afrobeat), che per Jaiyeide Afro rimette mano ad alcune delle sue prime composizioni, mai registrate prima.

Si va dall’ossessivo tema della traccia di apertura, “Buje Buje”, che ricorda le commistioni con la black music americana, marchio di fabbrica di Julius, fino ad episodi più classici come la title-track, il tradizionale “Omo Oba Blues” e “Love Thy Neighbour”, piena di fiati e di organi. Il motore propulsivo del disco è dato dalla micidiale combinazione di basso e percussioni, intersecata dalle chitarre e l’elettronica della band britannica.

Il punto di forza di Jaiyeide Afro è proprio nel modo in cui i due mondi si incontrano, traendo forza l’uno dall’altro, ma senza negare l’identità dell’album, che è e rimane un bellissimo e solido esempio di afrobeat: il genere rimane un centro di gravità intorno al quale gli Heliocentrics ruotano, creando dinamiche e movimenti affascinanti e sorprendenti. E, al momento giusto, arrivano gli assoli di Julius che tracciano scie luminose nel cielo e lasciano a bocca aperta.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cymbals Eat Guitars – LOSE

Cymbals Eat Guitars – LOSE (Barsuk)

7,5

L’inizio del terzo album della band di Staten Island ci riporta al bell’esordio del 2009 Why There Are Mountains: “Jackson”, infatti, ricorda molto “… And the Hazy Sea”, per la sua lunghezza, per come gioca con dinamiche e cambi armonici, per l’epicità diffusa.

Ma in questo nuovo LOSE i Cymbals Eat Guitars semplificano le cose senza diminuire di potenza, e trovano un equilibrio tra strutture classiche e pezzi più articolati; “Chambers” ne è la prova, combinando un incipit molto radiofonico (basso pulsante inquadrato sulla batteria, sui quali si adagiano accordi di chitarra), con uno svolgimento assai poco banale e con dei testi intensi e centrati sul tema ricorrente del disco: la perdita della giovinezza.

Che ce ne parli un venticinquenne potrebbe sembrare quanto meno bizzarro, ma Joseph D’Agostino racconta dell’adolescenza nel New Jersey, di amici scomparsi, di bulli puniti dal fato, del seppellimento di animali domestici e di violenze familiari con una naturalezza e un’intensità lodevoli.

Se in “XR” compare una fisarmonica alla Dylan, i riferimenti musicali ricorrenti sono Pavement, Modest Mouse, Shins, Elliott Smith e Death Cab for Cutie, nomi che, dopo l’ascolto di LOSE, appaiono ancora più “classici” di quanto già non siano: i Cymbals Eat Guitars ci ricordano che, per quanto poco utili siano le etichette, può avere ancora senso parlare di un “canone” dell’indie-rock-statunitense.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cold Specks – Neuroplasticity

Cold Specks – Neuroplasticity (Mute)

6,5

Sulla carta i Cold Specks sono la band dove milita Al Spx, una canadese ventiseienne che vive a Londra: in realtà i Cold Specks sono (almeno, in buona parte) la voce di Al Spx, scelta da Moby per il primo singolo di Innocents e da Michael Gira per “Bring the Sun”, che compare nell’ultimo To Be Kind degli Swans. E come dare loro torto?

Già dal primo disco I Predict a Graceful Expulsion ci eravamo accorti dello splendore del suo timbro, vibrante, sensuale, ma non stucchevole: rispetto al debutto voce e atmosfere si fanno più cupe, più doom che soul, per riprendere una definizione spacciata dalla stessa Al Spx, alla quale si potrebbe accostare il neologismo (un po’ cacofonico, a dire il vero) gothpel.

Le canzoni sono spesso interessanti, anche grazie ai contributi di Gira alla voce (in “A Season of Doubt” e “Exit Plan”) e del trombettista Ambrose Akinmusire (che aveva chiamato Al Spx per il suo The Imagined Savior is Far Easier to Paint), che contribuisce a spargere inquietudine e mistero. È forse il disco nel suo complesso che, alla lunga, può stancare: la noia faceva capolino anche nel lavoro precedente, ma per quanto l’attenzione dell’ascoltatore si mantenga più alta e costante, i cambi di tempo, gli arrangiamenti spesso non banali e gli ospiti illustri non bastano per fare di Neuroplasticity il grande album che poteva essere.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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