viaggio

San Coupon

 Come molti, sono anche io iscritto a quei servizi di offerte commerciali via mail che permettono (tramite coupon) di avere sconti su una gamma ormai vastissima di beni e servizi. Dalla pulizia della caldaia al PAP test, dalla cena alla tuta da ginnastica, tutto è in offerta. Chiaramente spesso ci sono anche delle offerte di viaggi, in una forma che mescola il “last minute” alla gita fuori porta, ecco. Come il “soggiorno di coppia di due notti con colazione e ingresso al museo delle cere di S. Giovanni Rotondo”.
L’offerta per questo imperdibile fine settimana (accidenti, non sfruttabile durante le vacanze di Natale…) mi è arrivata qualche giorno fa: la prima cosa che mi ha colpito è stata l’apprendere che a S. Giovanni Rotondo esiste anche un museo delle cere, come se l’orrore diffuso in quel paesino non fosse sufficiente. Guardando però in maniera più approfondita il comunicato ho notato l’astuta strategia che la ditta G. ha escogitato per acchiappare tutto il pubblico possibile e tentare di interessarlo a questa due giorni: un colpo al cerchio (il credente) e un colpo alla botte (il non credente), il tutto mischiato con lessico da viaggio, con risultati comici che, se fossero volontari, mi farebbero pensare al talento sprecato dello schiavo (o schiava) che verga probabilmente per pochissimi euro questi testi. Eccone due estratti.

In posti dall’anima sacra, come a San Giovanni Rotondo, al tradizionale bagaglio a mano si aggiunge quel bagaglio interiore fatto di richieste, preghiere e speranze da realizzare.

La prossima volta che volo con una compagnia low cost dovrò dimenticarmi tutto: sai mai che scoprano che ho un bagaglio interiore pesante… Ma andiamo avanti, perché qua c’è il vero genio.

I motivi spirituali per cui si va in visita nella città di Padre Pio sono tanti, ma a questi si aggiunge di certo un po’ di sana curiosità e la voglia di sapere di più di quei fenomeni collettivi che colpiscono da sempre l’immaginario della gente.

Della serie: non te ne frega una mazza di Padre Pio? Ma vieni lo stesso a vedere questi pazzi fanatici allo stato brado, fotografali, toccali e, se hai coraggio (o un bagaglio interiore rilevante) parla con loro. Un approccio “mondo movie” a un luogo di pellegrinaggio è, forse, l’unico possibile. Tant’è che questo geniale paragrafo mi avrebbe quasi convinto a prenotare il viaggio, armato di cinepresa e cappello da safari, se solo ci fosse stato nel pacchetto (oltre al pernottamento, il cocktail di benvenuto e i due biglietti per il museo) una bella scorta di Maalox.

Une semaine dans la vie: appunti sparsi e trascritti di una settimana a Parigi

29 aprile 2004. Italia vs Resto del mondo
Io e V. arriviamo da Bologna a Milano alle 1415. La partenza del TGV per Parigi è due ore dopo. “Il tempo è relativo”, dice V., citando Einstein. “Sì, ma che palle”, dico o senza bisogno di riferimenti dotti.
Accanto a noi una ragazza straniera sfoglia dei cartoncini su cui c’è scritta da un lato una parola in italiano e dall’altro il corrispondente in inglese. Un modo comodo per imparare le lingue, basta avere una borsa apposita per i cartoncini. Ad un tratto si gira verso delle altre ragazze e mostra loro un cartoncino. “Ghio-ca-rii?”, chiede. “Giocare”, rispondono le mie giovani compatriote. Dopo un po’ la ragazza tira fuori un ramo di una pianta avvolto nel cellophane. Io e V. ci chiediamo se avvolgere le cose nella plastica possa servire ad apprendere le lingue. Dopo il metodo Shenker, il metodo Domopak?
Finalmente arriva il TGV, e saliamo. I passeggeri sono per lo più francesi e italiani. I francesi stanno seduti, parlottano tra loro, facendo facce buffe, esplodendo ogni tanto in un “bof” ed emettendo quelle mezze pernacchiette per cui sono famosi nel mondo. Gli italiani urlano, si spingono, rimangono incastrati tra i sedili con i bagagli.
Poco prima che parta il treno passa un ragazzo che lascia ad ognuno dei biglietti così fatti: a destra l’alfabeto dei sordomuti, decorato, chissà perché da un disegno di un personaggio di Dragonball. A sinistra una scritta in quattro lingue, che più o meno dice: “Buongiorno, sono sordomuto. Prendete questo alfabeto internazionale dei segni per sordomuti e lasciatemi un’offerta. Grazie.” Questo è quello che c’è scritto in italiano, perché in francese, inglese e tedesco non si dice solo di leggere l’alfabeto, ma anche di studiarlo.
Non prendo il cartoncino. Quando il ragazzo passa per ritirarlo e vede che non gli do dei soldi, mi guarda con aria interrogativa. Io a gesti gli dico che non ho soldi spiccioli, ma anche se li avessi non li darei a lui, preferisco sostenere enti e associazioni che conosco bene, di cui mi fido. Posso essere molto comunicativo a gesti, a volte. Lui insiste, io ribadisco la mia posizione. Alla fine mormora a bassa voce “Un’offerta?”.
Ci guardiamo ancora per un secondo, poi se ne va.
Nel TGV io e V. ci innamoriamo di una ragazza bellissima che si va a sedere qualche fila davanti alla nostra. Dopo qualche minuto ne entra un’altra identica: meglio, così non litighiamo. Ma poi notiamo che tra i suoi bagagli c’è un bongo. Non ci piace più, e ci guardiamo in cagnesco per tutto il viaggio.

30 aprile 2004. La nouvelle cuisine e i problemi di lingua
Dopo avere visto il Museo Picasso, io e V. decidiamo di mangiare qualcosa, ma tutto costa troppo. Compriamo quindi qualcosa in un supermercato. V. adocchia uno strano barattolo. “Cos’è?”, gli chiedo. Lui me lo spiega con un lungo giro di parole, ma io intuisco che nel contenitore c’è semplicemente marmellata di porco. Andiamo a mangiare nei giardini del terzo arrondissement. V. apre il coperchio di plastica del barattolo con la marmellata di porco e io vedo un altro coperchio bianco, senza alcuna linguetta per aprirlo. “Cosa facciamo?”, domando preoccupato. “Non è plastica”, dice serafico V. “E’ strutto.” Passa il custode del giardino e ci dice “bon appetit”, sogghignando. Una vecchia nella panchina accanto vede il barattolo di marmellata di porco e le si innalza automaticamente il tasso di colesterolo nel sangue. Se ne va un attimo prima dell’inevitabile collasso. Noi, intanto, pranziamo.
Di sera siamo invitati da un’amica di V., Audrey, ad una festa. Cosa c’è di più fico di andare a Parigi ed essere invitati il giorno dopo ad una festa? Ve lo dico io. Andare ad una festa a Parigi il giorno dopo esserci arrivati e parlare bene il francese.
Io, V. e la mia amica Elena arriviamo alla festa senza aver mangiato nulla. Vediamo subito che oltre alle patatine (ovviamente aromatizzate con gusti improbabili) ci sono anche dei pezzetti di cavolo crudo. Iniziamo malissimo. Mi guardo intorno, però, e noto che non tutto è perduto. Ci sono delle confezioni di pizza precotta e c’è tantissima roba da bere. E poi la festa è piena di belle ragazze. Una, in particolare, mulatta, è bellissima. Ma proprio bella. Com’è come non è, capita che mi siedo vicino a lei. Mi chiede da accendere, in francese e le do da accendere. Le chiedo se parla inglese. Mi dice di no, e inizia a parlare con me in francese. Io chiamo a raccolta le mie 100 parole di francese e spero che il discorso rimanga ai livelli linguistici di una puntata dei Teletubbies. Invece, complice il livello alcoolico, vengono toccati i seguenti argomenti: situazione dei sans papier in Francia; ruolo della polizia nella politica italiana; grandi chiese a Roma e Parigi, con accenni ai principali aspetti dell’architettura romanica e gotica. Infine: dolci tipici italiani e francesi e loro preparazione. Ora, chiunque sarebbe crollato dopo il terzo argomento. Ma quegli occhi neri e tutto il resto mi hanno dato la forza, anche e soprattutto quando sentivo frasi come “Roma est très romantique”.
Alla fine delle festa si prende il mio numero di telefono (a forza, ovviamente: io mica volevo darglielo) e se ne va. Io, per la disperazione – e per la fame – sto per addentare un pezzo di cavolo crudo, ma V. mi salva all’ultimo momento, passandomi una fetta di nazionalissima e assai autarchica pizza. Carbonizzata.

1 maggio 2004. Mughetti e mugugni
La giornata della festa del lavoro inizia con un sms di mia madre. “Allora, com’è il primo maggio coi mughetti?”. Sulle prime penso che mia madre stia organizzando un movimento clandestino di resistenza e decido di rispondere con un messaggio del tipo: “Il nonno ha bruciato la torta”. Poi mi informo e scopro che il fiore ufficiale del primo maggio in Francia è il mughetto. Scrivo quindi a mia madre: “Ho mangiato una baguette con in testa una corona di mughetti sotto la torre Eiffel. Buon primo maggio”. Così è contenta.
Di sera andiamo alla Flèche d’or, una specie di centro sociale. Ci dovrebbe essere un concerto ska: la cosa non mi entusiasma, ma tant’è. Scopro invece con orrore che il gruppo principale è un incrocio tra Punkreas, Nomadi e Modena City Ramblers. E cantano in spagnolo. Le mie palle girano a mulinello e producono un rumore coperto appena dal vociare della folla, entusiasta nel sentire canzoni su “marijuana y libertad”. Mon Dieu.

2 maggio 2004. Tout le monde est (à) Montmartre
Nel pomeriggio incontriamo di nuovo Audrey, che, diciamolo, piace a V. Il punto di ritrovo è vicino a Montmartre. Mentre l’aspettiamo dico al mio amico: “Senti, oggi è domenica, è una bella giornata, siamo a Montmartre e quindi è pieno di turisti. Ti prego, non saliamo al Sacro Cuore, visto che abbiamo già scarpinato per tutta la mattina.” Arriva Audrey, bella come il sole, e dopo un paio di minuti, ovviamente, stiamo salendo, facendoci largo a manate tra i turisti, verso la chiesa del Sacro Cuore.
In una stradina laterale vedo un posto curioso: un pub irlandese, con dentro suonatori francesi di musica simil-celtica. A Montmartre. Ovviamente il piatto del giorno del pub è pollo taandori.

3 maggio 2004. Io, reietto del Louvre
Fanculo a te che mi hai messo nella stessa sala di quella troia di Monna Lisa. Gioconda un cazzo. Io sono molto più grande di te. Ti scattano centinaia di foto e poi vanno a comprare le cartoline; si fanno ritrarre con te alle spalle; ti hanno fatto i baffi, messo sui poster, colorata.
E io, a pochi metri da te, niente. Sono senza speranza.
Gioconda, un’ultima cosa: altro che misteriosa, affascinante ed enigmatica. Secondo me sei proprio un cesso.

4 maggio 2004. X grazia ricevuta
La chiesa di Saint Germain-des-Prés è bellissima e molto antica. Ma quando vado a visitarla, stranamente, non ci sono molti turisti. Invece ci sono diversi fedeli che pregano. Qualcosa di bianco attaccato ad una colonna vicino ad una statua di un santo attira la mia attenzione. È un grande foglio pieno zeppo di richieste e ringraziamenti a S. Antonio. Sono stato un bel po’ a leggerli: scritte di giovani e adulti, a penna nera, blu o anche violetta, soprattutto in francese, ma anche in spagnolo e portoghese, e italiano. Una di queste recita: “S. Antonio, proteggi il mio papy e tutte le xsone a me care”.
Che ci crediate o no, mi sono un po’ intenerito e commosso.

5 maggio 2004. A brain apart
Scoppia il panico a casa di Elena, Ilaria e Andrea, i miei ospiti. Arriva, totalmente inaspettata, un’amica di un’ex-amica di Ilaria. Così, senza praticamente avvisare. Il problema non è la mancanza di posto, visto che V. se n’è andato il giorno prima, ma il modo in cui questa ragazza si presenta a casa di persone a lei sconosciute. Inoltre gira una strana voce sul suo conto: che lei sia deficiente. Io appoggio i tre nella loro incazzatura, ma dentro di me spero che la persona con la quale dovrò condividere la stanza per una notte sia tipo Marylin in Quando la moglie è in vacanza.
La frase con la quale la ragazza si presenta, con pesante accento romano, è: “Scusame Ila, me sento ‘na mmerda, ma nun zo proprio dove annà”. Da quel momento nei suoi discorsi è tutto un tripudio di confronti tra Parigi e Trastevere, un punteggiare continuo dei nostri discorsi con domande come “Chi è?”, “Che è?”, “‘Ndo sta?”. E inoltre: no, la ragazza non è decisamente come Marylin.
Quando ci stiamo per addormentare, inizia a chiedermi quanti anni ho, di che segno zodiacale sono, e cose così. Poi continua: “A Francè, ma qui a Pariggi gli studenti ‘ndo stanno?”
“Parigi è grande”, dico io mezzo addormentato.
“Stanno alla Sorbona?”
“Eh, anche”, dico io, evitando di rivelarle che, proprio come a Roma, a Parigi ci sono molte università.
“Senti ‘n po’, ma domani ce la faccio a vvedè tutto er Louvre?”
“Ci vogliono due giorni per vedere tutto il Louvre”
“Ma se vado svelta?”
E mi immagino la scena di Band à part di Godard, in cui i tre protagonisti fanno il Louvre di corsa, scena ripresa da The Dreamers (che, per inciso, alla ragazza è piaciuto ‘na cifra). Sovrappongo questa scena ad una fantasia personale: la ragazza che corre, cozza violentemente contro la Venere di Milo che cade in mille pezzi. “Tanto già era rotta”, si giustifica lei.
La conversazione continua ancora per un po’, fino al “buonanotte” più liberatorio che mai mi sia stato augurato.

Remèrciements: Ilaria, Andrea, Elena, V., Audrey, la splendida ragazza mulatta (Sèverine), Francis Bacon, il centinaio di ragazze di cui mi sono innamorato in questi sette giorni per almeno cinque minuti, l’inventore della baguette, il mio blocco note, le mia Gauloises portate da casa, il Pastis Ricard, Oui Radio, la RATP, la mia Rollei, i Pixies, i Pavement, Damien Rice, i Depeche Mode e voi pochi superstiti che siete arrivati alla fine di questo post.

Torna in cima