l’amico v.

The Ikea Experience: I don't like Mondays (but they do)

Sono passati otto mesi da quando ho scritto l’ultima volta dell’Ikea. Ci sono tornato una volta, all’inizio dell’estate. E ieri. Tra l’altro con V., che faceva parte della truppa del primo capitolo (G. detto Peppino, se mai ve lo stiate chiedendo, sta bene e lo vedrò domani a cena, anche se è a dieta: riso in bianco per tutti). Missione: liberare gli ultimi libri dagli scatoloni, grazie all’acquisto e successiva costruzione di libreria Ivar (sì, proprio come la prima volta, preciso).

V. ha scoperto che l’Ikea ieri sarebbe rimasta aperta fino alle 23. “Ci sono i saldi, è vero, ma avremo tempo.”
Siamo partiti verso le sette e mezzo. Siamo arrivati alle otto meno dieci in prossimità dell’Ikea. Ho visto i primi cadaveri alle otto meno cinque. Alle otto e cinque, ormai dentro all’enorme scatolone svedese, ho pensato che avrei dovuto fare testamento, o lasciare almeno un messaggio diverso da “scongela”, sul tavolino, per ricordarmi di tirare fuori delle cose dal frigo.
II punto è che ieri all’Ikea iniziavano i saldi e, udite udite, in quel giorno (e sono quello) sarebbe stato applicato un ulteriore sconto del 20% sulla merce già in offerta. Quando l’abbiamo scoperto, io e V. ci siamo guardati in faccia e, senza dirci niente, ci siamo chiesti: “Perché?”. Troppo tardi. Mi sono rassegnato. “Intanto che aspetto l’arrivo dei caschi blu”, mi sono detto, “tanto vale provare a comprare.”

Incastrati tra carrelli, passeggini, donneincinte, tamarri e matitine appena temperate (dalla punta aguzza e dolorosa), abbiamo proceduto a passo d’uomo per i primi trenta metri. Poi un impiegato di banca è crollato e siamo riusciti a muoverci più speditamente: su di lui. È stato subito riciclato come oggetto d’arredo in un salotto ricolmo di libri di cartone e cd vuoti. “Comodo da morire, quel divano”, ha commentato uno accanto a me, segnando il numero di scaffale sull’apposito foglio-note.
D’un tratto, una voce.
“Ehi, ciao, sono Matteo! E oggi ci sono un sacco di occasioni all’Ikea! Giovanna, dove sei?”
“Ehi, ciao Matteo! Sono Giovanna! Ma lo sai che oggi al ristorante Ikea potete mangiare con soli 70 centesimi?”
Come le scimmie di 2001 davanti al monolite, le persone intorno a noi hanno iniziato a saltare, indecise se mangiare al ristorante svedese o comprare dei mobili. In quel momento sono iniziati i primi scontri, con sedie “Ossen” brandite come armi. Io e V. ci siamo rifugiati là vicino.
“Ehi, viviamo in una casa di 30 metri quadri!” recitava un cartellone che indicava una soluzione-Ikea (cheiddiomiperdoni) per una famiglia costretta in quello spazio. E lì ho capito perché l’Ikea è una delle poche cose che ha vinto sul pur resistente costume italico: perché nessuno ha scritto “Cazzi vostri” sotto il cartellone, neanche con le apposite matitine.

Placatisi gli scontri, siamo usciti, e ci siamo diretti verso la zona-librerie.
“Ci siamo”, ho detto a V., schivando un set di posate.
Ho visto da lontano la libreria che cercavo.
Ho tirato fuori il foglio-note facendo il passo del giaguaro.
Mi sono avvicinato alla libreria.
Ho guardato meglio un cartellino appeso al montante.
“Momentaneamente non disponibile”

“Ehi!”, mi ha detto Matteo di Radio-Ikea. “Gentile cliente Ikea, oggi ci sono i saldi! E al ristorante-Ikea vi tirano la roba addosso! Che meraviglia i cibi svedesi. Però io non so pronunciarne i nomi! E tu, Giovanna?”
“Li pronuncio di brutto! E col 20% di sconto, ma solo per oggi! Anzi, da adesso in poi, sai cosa faccio, Matteo? Pronuncio tutto con il 20% in meno! E al rist sved lo sform di truciolat si montda sol!”
“Ehi, Giovanna! Sembra proprio che parli svedese! Tutti al ristorante!”

“Momentaneamente non disponibile”
La missione è cambiata: il nome in codice è “Uscirne vivi”. Un uomo tenta di azzopparmi con un carrello: solo quando straccio il foglio-note davanti a lui capisce che non sto scherzando, che io non c’entro nulla con questa brutta storia. Vedo V. alle prese con una cassettiera: è una trappola. Da dentro il modello “Tombal” sbuca una mamma rifatta e tenta di strangolare il povero V. Tramortisco la donna con un sacchetto di viti e scappiamo verso l’uscita, non degnando neanche di uno sguardo le offerte del settore bagno: solo prendiamo due assi da cesso e le usiamo come scudi, fino a che siamo all’aria aperta.
Mentre saliamo in macchina, sentiamo ancora provenire da dentro il magazzino il vociare di Radio-Ikea, ma non capiamo se Giovanna stia facendo un ulteriore sconto a se stessa o se qualche cliente sia salito in postazione e la stia strangolando con un metro di carta.

Come volevasi dimostrare…

Lunedì scorso, tornato da un fine settimana nel profondo nordest, sono stato preso a parolacce da B. “Hijo de puta”, mi ha detto. “Ho letto tuo blog.”
La scena me l’ha raccontata V., ed è stata geniale. Dunque.
Sabato scorso, V. e B. sono andati ad una festa a CasaLogic. Il giorno dopo V. ha mostrato a B. il blog di CasaLogic, pensando di trovarci le foto della festa. A quel punto, B., lasciato alla stato brado, ha iniziato a spulciare i link del loro blog, e si è trovato davanti un post che parlava di un basco appassionato di ciclismo. Strabuzzando gli occhi (presumo), ha chiamato V. e gli ha chiesto delucidazioni.

Risultato? Ovviamente anche B., adesso, ha un blog. Sapete dove mandare le vostre ragacce.

Di |2004-12-03T15:30:00+01:003 Dicembre 2004|Categorie: I Am The Walrus|Tag: , , , , , |5 Commenti

Une semaine dans la vie: appunti sparsi e trascritti di una settimana a Parigi

29 aprile 2004. Italia vs Resto del mondo
Io e V. arriviamo da Bologna a Milano alle 1415. La partenza del TGV per Parigi è due ore dopo. “Il tempo è relativo”, dice V., citando Einstein. “Sì, ma che palle”, dico o senza bisogno di riferimenti dotti.
Accanto a noi una ragazza straniera sfoglia dei cartoncini su cui c’è scritta da un lato una parola in italiano e dall’altro il corrispondente in inglese. Un modo comodo per imparare le lingue, basta avere una borsa apposita per i cartoncini. Ad un tratto si gira verso delle altre ragazze e mostra loro un cartoncino. “Ghio-ca-rii?”, chiede. “Giocare”, rispondono le mie giovani compatriote. Dopo un po’ la ragazza tira fuori un ramo di una pianta avvolto nel cellophane. Io e V. ci chiediamo se avvolgere le cose nella plastica possa servire ad apprendere le lingue. Dopo il metodo Shenker, il metodo Domopak?
Finalmente arriva il TGV, e saliamo. I passeggeri sono per lo più francesi e italiani. I francesi stanno seduti, parlottano tra loro, facendo facce buffe, esplodendo ogni tanto in un “bof” ed emettendo quelle mezze pernacchiette per cui sono famosi nel mondo. Gli italiani urlano, si spingono, rimangono incastrati tra i sedili con i bagagli.
Poco prima che parta il treno passa un ragazzo che lascia ad ognuno dei biglietti così fatti: a destra l’alfabeto dei sordomuti, decorato, chissà perché da un disegno di un personaggio di Dragonball. A sinistra una scritta in quattro lingue, che più o meno dice: “Buongiorno, sono sordomuto. Prendete questo alfabeto internazionale dei segni per sordomuti e lasciatemi un’offerta. Grazie.” Questo è quello che c’è scritto in italiano, perché in francese, inglese e tedesco non si dice solo di leggere l’alfabeto, ma anche di studiarlo.
Non prendo il cartoncino. Quando il ragazzo passa per ritirarlo e vede che non gli do dei soldi, mi guarda con aria interrogativa. Io a gesti gli dico che non ho soldi spiccioli, ma anche se li avessi non li darei a lui, preferisco sostenere enti e associazioni che conosco bene, di cui mi fido. Posso essere molto comunicativo a gesti, a volte. Lui insiste, io ribadisco la mia posizione. Alla fine mormora a bassa voce “Un’offerta?”.
Ci guardiamo ancora per un secondo, poi se ne va.
Nel TGV io e V. ci innamoriamo di una ragazza bellissima che si va a sedere qualche fila davanti alla nostra. Dopo qualche minuto ne entra un’altra identica: meglio, così non litighiamo. Ma poi notiamo che tra i suoi bagagli c’è un bongo. Non ci piace più, e ci guardiamo in cagnesco per tutto il viaggio.

30 aprile 2004. La nouvelle cuisine e i problemi di lingua
Dopo avere visto il Museo Picasso, io e V. decidiamo di mangiare qualcosa, ma tutto costa troppo. Compriamo quindi qualcosa in un supermercato. V. adocchia uno strano barattolo. “Cos’è?”, gli chiedo. Lui me lo spiega con un lungo giro di parole, ma io intuisco che nel contenitore c’è semplicemente marmellata di porco. Andiamo a mangiare nei giardini del terzo arrondissement. V. apre il coperchio di plastica del barattolo con la marmellata di porco e io vedo un altro coperchio bianco, senza alcuna linguetta per aprirlo. “Cosa facciamo?”, domando preoccupato. “Non è plastica”, dice serafico V. “E’ strutto.” Passa il custode del giardino e ci dice “bon appetit”, sogghignando. Una vecchia nella panchina accanto vede il barattolo di marmellata di porco e le si innalza automaticamente il tasso di colesterolo nel sangue. Se ne va un attimo prima dell’inevitabile collasso. Noi, intanto, pranziamo.
Di sera siamo invitati da un’amica di V., Audrey, ad una festa. Cosa c’è di più fico di andare a Parigi ed essere invitati il giorno dopo ad una festa? Ve lo dico io. Andare ad una festa a Parigi il giorno dopo esserci arrivati e parlare bene il francese.
Io, V. e la mia amica Elena arriviamo alla festa senza aver mangiato nulla. Vediamo subito che oltre alle patatine (ovviamente aromatizzate con gusti improbabili) ci sono anche dei pezzetti di cavolo crudo. Iniziamo malissimo. Mi guardo intorno, però, e noto che non tutto è perduto. Ci sono delle confezioni di pizza precotta e c’è tantissima roba da bere. E poi la festa è piena di belle ragazze. Una, in particolare, mulatta, è bellissima. Ma proprio bella. Com’è come non è, capita che mi siedo vicino a lei. Mi chiede da accendere, in francese e le do da accendere. Le chiedo se parla inglese. Mi dice di no, e inizia a parlare con me in francese. Io chiamo a raccolta le mie 100 parole di francese e spero che il discorso rimanga ai livelli linguistici di una puntata dei Teletubbies. Invece, complice il livello alcoolico, vengono toccati i seguenti argomenti: situazione dei sans papier in Francia; ruolo della polizia nella politica italiana; grandi chiese a Roma e Parigi, con accenni ai principali aspetti dell’architettura romanica e gotica. Infine: dolci tipici italiani e francesi e loro preparazione. Ora, chiunque sarebbe crollato dopo il terzo argomento. Ma quegli occhi neri e tutto il resto mi hanno dato la forza, anche e soprattutto quando sentivo frasi come “Roma est très romantique”.
Alla fine delle festa si prende il mio numero di telefono (a forza, ovviamente: io mica volevo darglielo) e se ne va. Io, per la disperazione – e per la fame – sto per addentare un pezzo di cavolo crudo, ma V. mi salva all’ultimo momento, passandomi una fetta di nazionalissima e assai autarchica pizza. Carbonizzata.

1 maggio 2004. Mughetti e mugugni
La giornata della festa del lavoro inizia con un sms di mia madre. “Allora, com’è il primo maggio coi mughetti?”. Sulle prime penso che mia madre stia organizzando un movimento clandestino di resistenza e decido di rispondere con un messaggio del tipo: “Il nonno ha bruciato la torta”. Poi mi informo e scopro che il fiore ufficiale del primo maggio in Francia è il mughetto. Scrivo quindi a mia madre: “Ho mangiato una baguette con in testa una corona di mughetti sotto la torre Eiffel. Buon primo maggio”. Così è contenta.
Di sera andiamo alla Flèche d’or, una specie di centro sociale. Ci dovrebbe essere un concerto ska: la cosa non mi entusiasma, ma tant’è. Scopro invece con orrore che il gruppo principale è un incrocio tra Punkreas, Nomadi e Modena City Ramblers. E cantano in spagnolo. Le mie palle girano a mulinello e producono un rumore coperto appena dal vociare della folla, entusiasta nel sentire canzoni su “marijuana y libertad”. Mon Dieu.

2 maggio 2004. Tout le monde est (à) Montmartre
Nel pomeriggio incontriamo di nuovo Audrey, che, diciamolo, piace a V. Il punto di ritrovo è vicino a Montmartre. Mentre l’aspettiamo dico al mio amico: “Senti, oggi è domenica, è una bella giornata, siamo a Montmartre e quindi è pieno di turisti. Ti prego, non saliamo al Sacro Cuore, visto che abbiamo già scarpinato per tutta la mattina.” Arriva Audrey, bella come il sole, e dopo un paio di minuti, ovviamente, stiamo salendo, facendoci largo a manate tra i turisti, verso la chiesa del Sacro Cuore.
In una stradina laterale vedo un posto curioso: un pub irlandese, con dentro suonatori francesi di musica simil-celtica. A Montmartre. Ovviamente il piatto del giorno del pub è pollo taandori.

3 maggio 2004. Io, reietto del Louvre
Fanculo a te che mi hai messo nella stessa sala di quella troia di Monna Lisa. Gioconda un cazzo. Io sono molto più grande di te. Ti scattano centinaia di foto e poi vanno a comprare le cartoline; si fanno ritrarre con te alle spalle; ti hanno fatto i baffi, messo sui poster, colorata.
E io, a pochi metri da te, niente. Sono senza speranza.
Gioconda, un’ultima cosa: altro che misteriosa, affascinante ed enigmatica. Secondo me sei proprio un cesso.

4 maggio 2004. X grazia ricevuta
La chiesa di Saint Germain-des-Prés è bellissima e molto antica. Ma quando vado a visitarla, stranamente, non ci sono molti turisti. Invece ci sono diversi fedeli che pregano. Qualcosa di bianco attaccato ad una colonna vicino ad una statua di un santo attira la mia attenzione. È un grande foglio pieno zeppo di richieste e ringraziamenti a S. Antonio. Sono stato un bel po’ a leggerli: scritte di giovani e adulti, a penna nera, blu o anche violetta, soprattutto in francese, ma anche in spagnolo e portoghese, e italiano. Una di queste recita: “S. Antonio, proteggi il mio papy e tutte le xsone a me care”.
Che ci crediate o no, mi sono un po’ intenerito e commosso.

5 maggio 2004. A brain apart
Scoppia il panico a casa di Elena, Ilaria e Andrea, i miei ospiti. Arriva, totalmente inaspettata, un’amica di un’ex-amica di Ilaria. Così, senza praticamente avvisare. Il problema non è la mancanza di posto, visto che V. se n’è andato il giorno prima, ma il modo in cui questa ragazza si presenta a casa di persone a lei sconosciute. Inoltre gira una strana voce sul suo conto: che lei sia deficiente. Io appoggio i tre nella loro incazzatura, ma dentro di me spero che la persona con la quale dovrò condividere la stanza per una notte sia tipo Marylin in Quando la moglie è in vacanza.
La frase con la quale la ragazza si presenta, con pesante accento romano, è: “Scusame Ila, me sento ‘na mmerda, ma nun zo proprio dove annà”. Da quel momento nei suoi discorsi è tutto un tripudio di confronti tra Parigi e Trastevere, un punteggiare continuo dei nostri discorsi con domande come “Chi è?”, “Che è?”, “‘Ndo sta?”. E inoltre: no, la ragazza non è decisamente come Marylin.
Quando ci stiamo per addormentare, inizia a chiedermi quanti anni ho, di che segno zodiacale sono, e cose così. Poi continua: “A Francè, ma qui a Pariggi gli studenti ‘ndo stanno?”
“Parigi è grande”, dico io mezzo addormentato.
“Stanno alla Sorbona?”
“Eh, anche”, dico io, evitando di rivelarle che, proprio come a Roma, a Parigi ci sono molte università.
“Senti ‘n po’, ma domani ce la faccio a vvedè tutto er Louvre?”
“Ci vogliono due giorni per vedere tutto il Louvre”
“Ma se vado svelta?”
E mi immagino la scena di Band à part di Godard, in cui i tre protagonisti fanno il Louvre di corsa, scena ripresa da The Dreamers (che, per inciso, alla ragazza è piaciuto ‘na cifra). Sovrappongo questa scena ad una fantasia personale: la ragazza che corre, cozza violentemente contro la Venere di Milo che cade in mille pezzi. “Tanto già era rotta”, si giustifica lei.
La conversazione continua ancora per un po’, fino al “buonanotte” più liberatorio che mai mi sia stato augurato.

Remèrciements: Ilaria, Andrea, Elena, V., Audrey, la splendida ragazza mulatta (Sèverine), Francis Bacon, il centinaio di ragazze di cui mi sono innamorato in questi sette giorni per almeno cinque minuti, l’inventore della baguette, il mio blocco note, le mia Gauloises portate da casa, il Pastis Ricard, Oui Radio, la RATP, la mia Rollei, i Pixies, i Pavement, Damien Rice, i Depeche Mode e voi pochi superstiti che siete arrivati alla fine di questo post.

Una giornata niente male: la nuda cronaca di uno di quei giorni in cui è meglio rimanere nel letto. Di chiunque.

Io ci credo. Continuo a perseguire il mio programma, o almeno tento di farlo. Quindi: sveglia alle nove, una sana colazione e iniziamo con un po’ di studio. Poi mi ricordo: devo telefonare alla nota università con le scale mobili, perché devo capire cosa è successo con il mio contratto. Una parentesi esplicativa è necessaria. Infatti, qualche giorno fa, è arrivata, all’indirizzo al quale ufficialmente risiedo, a 300 e passa chilometri da Bologna, una missiva dalla suddetta università, che mi diceva di recarmi presso l’altra sede dell’università, ai piedi delle Dolomiti, per firmare il contratto.

Dopo infiniti tentativi di entrare in contatto con la magica università, allietati dal tema di “Momenti di gloria” (e se mai dovessi beccare Vangelis…), finalmente, con un paio di rapidi passaggi di persona, riesco a parlare con chi-mi-serve.
“Ma no, si tratta di un errore!”
“Ah, bene”, faccio io, “quindi posso passare a Milano per firmare il contratto…”
“Eh sì, però venga quanto prima. Prima firma, prima le paghiamo la prima tranche del suo compenso”
“Quindi quando dovrei venire?”
Silenzio. Dopo una lunghissima pausa la donna dice: “Vediamo, che ore sono…?”
Sospiro e dico: “Fa niente, magari vengo il ventotto, quando devo fare esami, posso firmare quel giorno, no?”
“Sì, poi però la paghiamo il aisfgaisfebbraio”
“Il venti febbraio?”
“Il ventisette febbraio”, precisa la solerte addetta all’amministrazione.
E io penso che, anche se avesse detto “il ventinove febbraio”, mi sarebbe andata di culo, ché tanto il 2004 è bisestile.

Pomeriggio. Devo andare al cinema per questo simpatico programmino, in particolare mi tocca andare a vedere un filmaccio per una rubrica significativamente chiamata “Il duro mestiere del critico”. La morte di cui devo morire si chiama Mona Lisa Smile. Ne parlerò sull’apposito blog, ma potete farvi un’idea dei miei sentimenti d’amore per Tori Amos messi alla dura prova, esattamente come i suoi.
Esco dal cinema. Devo ritirare i soldi dell’affitto (che ammonta a 300 euro per una stanza, così, ve lo dico). Prima di ritirare i soldi, però, chiedo al Bancomat l’estratto conto.

“Sicuro?” fa lui.
“Dammi lo scontrino”, dico io.
“A Fra’, guarda che poi ci rimani male, e ti rovina la giornata”
“A parte che sono le sei di sera, e la giornata va già male… fa’ il tuo dovere, dammi lo scontrino con su scritto quanto mi rimane, e non chiamarmi ‘a Fra’”
“Sicuro sicuro?”
“Dammelo, stampalo.”
Stampa dello scontrino in corso.
“Fallo uscire, maledetto.”
“Beccate questo”, dice il Bancomat.

Aveva ragione lui. Mi allontano tristemente dal Bancomat che sentenzia, come il Puffo Quattrocchi: “Telavevodetto, io”.

Sera. Siccome la trasmissione è domani e devo vedere un altro film, mi tocca cenare presto, anche perché dopo il film devo tornare in radio per il programma notturno di cui qui a sinistra, in basso, scorrete, scorrete. Il film prescelto, per doveri di cronaca, è L’ultimo samurai. E so già che si tratta di una vaccata colossale, ma tocca. Quindi decido di cenare in fretta. “Che mi faccio da mangiare?” penso. “Cappelletti in brodo”. Detta così, pare bellissimo. Ma non fatevi ingannare: allontanate dalla mente donne emiliane che fanno la sfoglia, cucine accoglienti, tramonti splendidi. Sostituite le donne emiliane con un pacchetto di cappelletti già pronti e un dado da brodo, la cucina accogliente con una cucina non poi così accogliente e il tramonto con una luce al neon. Ma tant’è. L’acqua bolle, tento di non pensare a niente, butto i cappelletti. Passa uno dei miei coinquilini, M., che nota una strana macchia verde su uno dei cappelletti. “Dev’essere il ripieno che è uscito”, dico io. “Secondo me è muffa”, dice lui. Ovviamente ha ragione lui. Mi immagino di andare al supermercato incazzato come una iena e protestare perché mi hanno venduto dei cappelletti ammuffiti, ma l’idea scompare, come i cappelletti verdi e il brodo, nel cesso. La mia cena consiste, quindi, di una scatoletta di tonno, due pacchetti di crackers, maionese, variamente combinati tra loro, e un’arancia. Ma poi ho un’illuminazione. Ho della ricotta. Prendo un cucchiaio di cacao amaro, un cucchiaino di zucchero e mescolo il tutto alla ricotta. Me la preparava sempre la mamma, questa merenda-dolce. Ma non ho tempo di commuovermi, devo andare a vedere il secondo probabile-film-di-merda della giornata.

Che, puntualmente, si rivela un film-di-merda. Non mi rimane altro che andare a prendere l’autobus, per andare in radio. Non ho il biglietto, ma tanto l’ATC sta pubblicizzando questa grande trovata di mettere i distributori di biglietti automatici in ogni autobus. Ovviamente l’autobus che devo prendere ha i distributori guasti. Quindi entro in modalità ansiosa, per cui ogni persona che sale che vagamente assomigli ad un controllore mi mette uno stato di agitazione terribile. Non essendoci una tipologia fisiognomica di controllore dell’autobus, qualsiasi persona che salga sull’autobus mi fa sudare freddo. Decido di tirare fuori il libro e di mettermi a leggere, quindi. Solo che la lettura mi prende talmente tanto che non mi accorgo di avere passato la mia fermata. Me ne accorgo, fortunatamente, poco dopo. Scendo e mi trovo in un luogo che per me ha significati profondi. Un luogo legato ad uno degli ultimi momenti di armonia passati con la mia ex-ragazza (che suppongo ormai abbia dato le dimissioni – oltre che da ragazza del sottoscritto – anche dal genere Homo Sapiens). Un luogo magico. Un incrocio nella periferia occidentale di Bologna in cui io, lei e l’ormai mitico V. abbiamo rilevato il passaggio delle macchine, negli ultimi giorni di dicembre del 2002. Abbiamo rischiato il congelamento contando le macchine che passavano in quell’incrocio. Un lavoro di merda, se non si era capito.

La trasmissione in radio va bene, considerando l’orario. Nessuna telefonata in diretta, tre mail dalla stessa persona. Nella prima mi richiede un pezzo. Nella seconda me ne richiede un altro, che però non ho e non trovo. Nella terza mi dice “va bene lo stesso quello che hai messo, buonanotte”. E così mi sembra di fare l’ultima mezz’ora di trasmissione (dall’una e cinquanta alle due e venti) parlando al nulla.

Il 61, quando arriva, alle due e quaranta, è popolato da cinque individui, che scendono due fermate dopo quella in cui sono salito io. Faccio il viaggio da solo, leggendo con un occhio il libro, con l’altro stando attento a non scazzare la fermata, ché se scazzi la fermata del notturno rischi di ritrovarti nel centro di Casalecchio alle tre del mattino. E di rimanerci.
Scendo e percorro la solita strada. Sono a pezzi. La vetrina del negozio di Armani di via Farini è cambiata. I manichini sono seduti su delle specie di panchine sospese e hanno l’aria stanca anche loro. Per educazione, quando passo loro davanti, gli auguro la buonanotte.
Sono finalmente a casa. Stanco morto. Umanamente morto (la retorica, eh?).
Ma tanto io nei prossimi giorni mi trasformo in cartone animato.

Everything in its right place

Qualcuno mi ha scritto o mi ha detto che non vedeva l’ora di leggere quanto io sarei stato goffo nel montare i mobili dell’Ikea che mi sono arrivati oggi. Ebbene, mi dispiace deludervi, ma non li ho montati io. Si sono prestati all’opera, infatti, V. e G. detto Peppino (e li ringrazio infinitamente). E si sono divertiti pure. Le persone come me, che sono poco pratiche per la maggior parte delle cose, si incazzano, perdono la pazienza e le viti. Cosa grave, tra l’altro, perdere delle viti dei mobili Ikea, perché ce n’è solo il numero strettamente necessario. Appena l’ho saputo, mi è venuta subito l’ansia. Ci sono altre persone, invece, che ci godono a creare le cose. Io ho avuto successo con il Lego, ma già il Meccano mi faceva incazzare. Tanto per dirvi che persona sono. Io, nel frattempo, preparavo la cena (niente ricetta, solo rigatoni alla salsiccia. Senza panna, ma col pomodoro. E senza semi di finocchio, ahimè, finiti).

Ma il bello è venuto dopo, quando ho dovuto pensare a rimettere a posto libricdcose da me tolti dalla stanza prima, mentre V. e G. detto Peppino giocavano, felici come bambini, con assi, viti, martelli. I cd: facile. Ma i libri? E le riviste? E gli appunti che uso per fare questo e quest’altro? Ad un certo punto ho iniziato a mettere tutto per terra. Poi mi sono seduto sul mio nuovo divanolettofuton, mi sono acceso una sigaretta e ho guardato il mucchio informe di roba. Ho pensato che non ce l’avrei mai fatta, che si sarebbero moltiplicati, gli oggetti, fino a soffocarmi. Poi li ho presi di sorpresa, e, con una certa ripresa (d’animo), li ho sistemati.

Spostare i mobili, fare queste azioni radicali di riordinamento è salutare. Un gesto che a volte serve. Quando invece lo si fa troppo spesso, è sintomo di paranoia schizoide. Sì, conviene chiamare qualcuno. Un dottore, intendo, non un arredatore. Io lo faccio poche volte, pochissime, ma a volte capita di trovare delle persone…

“Ehi, ciao, come va? Che fai?” “Ah, non mi dire. Ho spostato tutti i mobili della stanza” “Ma non l’avevi fatto una settimana fa?” “Sì, ma non mi piaceva la sistemazione. Scusa, hai da accendere?” “Ma non avevi smesso di fumare?” “Sì, vabbè” “E quella bottiglia di gin? Ma che fai, sono le due del pomeriggio…” “Vabbè, se ci siamo visti perché mi facessi la predica, torno a casa. Mi sa che metto un po’ a posto la stanza…”

E ovviamente quando si sistemano le cose, si butta. Via questo, via quello. Ci si rende conto di avere tenuto oggetti e altro che non hanno utilità. E’ liberatorio buttare via. Ma non butto mai  le cose che mi hanno scritto altre persone. Lettere, biglietti… Neanche le parole delle persone che sono passate per caso vanno buttate. Neanche quando una storia finisce malissimo. Non buttatele mai, se vi posso dare un personalissimo consiglio. Piuttosto mettetele in fondo al cassetto. In uno scomparto lontano dai sogni, mi raccomando.

The Swedish Experience

Care e cari, l’ho fatto. Con due validi accompagnatori, V. e G. (detto Peppino – se scrivevo “detto P.” non aveva senso: mi espongo alla sua querula querela), sono andato all’Ikea. Partenza prevista ore 10 a.m. Partenza effettiva: ore 10.30. Impossibile utilizzare navetta, in quanto il servizio funziona solo nel pomeriggio. Adottiamo la soluzione autobus. Risultato: viaggio lunghissimo. Vorrei farla breve, ma forse anche no.

L’autobus ci scarica non esattamente vicini al luogo magico, ma abbastanza da vedere la scritta gialla e blu troneggiare. Io ho catalogo e appunti, esattamente come viene suggerito.

Preparati.
Fai una lista di tutto quello di cui hai bisogno per la tua casa. Sarai sorpreso dalla varietà dell’offerta dei negozi IKEA. Prendi le misure degli spazi che desideri arredare. C’è abbastanza spazio nella tua macchina? Lo utilizzerai tutto!

Non ho la macchina. Ma sono pronto per l’IkeaExperience. Un solo motto: comprare solo quello che mi serve. Guardo i miei accompagnatori: sappiamo che la missione è dura. Verso le 1145 entriamo.

Dopo quindici secondi V. e G. detto Peppino sono persi a guardare degli oggetti di gomma in una grande cesta: li palpano, mormorano “costa poco” e “che carino”. Li trascino via a forza. “Abbiamo una missione”, dico loro. Permetto loro di prendere la borsa gialla (il carrello no), dei metri di carta, dei blocchetti e delle matite e andiamo avanti verso il primo obiettivo: letto nuovo, modello divano-futon. Nome: Grankulla. Con la “k”. Ma lo sapevo. Vuol dire che ci dormikkierò sopra. Appena arrivato nella zona-divaniletto i miei due accompagnatori si svelano per essere uno pessimista (V.), l’altro più accondiscendente (G. detto Peppino). I due litigano tra di loro e non mi assistono nella difficile scelta e nell’iter di acquisto. Mi rivolgo allora ad una signorina Ikea che mi dice come fare. Sono ancora lì a litigare, quando passo al secondo obiettivo: la libreria.

Ora, la libreria del vero giovane è modulare: compri i pezzi e te l’aggiusti come ti pare. Però devi calcolare prima la composizione. Per questo i gentili svedesi mettono a disposizione dei banchetti con matitine e calcolatrice. Quest’ultima è avvitata al banchetto. Vabbè che sono svedesi, ma noi siamo italiani, no? Una calcolatrice a energia solare fa gola un po’ a tutti. Ma io non ne ho bisogno. Ho già fatto i conti a casa. Quindi controllo che ci siano tutti i pezzi e seguo la stessa procedura per l’acquisto del letto. I pezzi si ritirano alla fine. Nome della scaffalatura: Ivar. Segni particolari: semplice.

Andiamo avanti. Terzo ed ultimo obiettivo: varie ed eventuali. Grucce e biancheria da letto con cuscino. La scelta delle grucce solleva un dibattito politico tra i miei accompagnatori. V. sostiene che siccome io mi sono laureato e non sono più uno studente sono diventato un lussuoso capitalista spendaccione, un gaudente che non si accontenta più delle cose di plastica. La causa di tutto questo è l’acquisto del set di grucce Bumerang con la “u”. Roba da fare impazzire i sociologi e gli economisti di tutto il mondo.
Alla fine riesco anche a comprare le lenzuola che mi servono.

Io arrivo alle casse trionfante. Ho solo preso quello che mi serviva. G. detto Peppino mi ha detto che lo scopo per cui mi accompagnava era di prendere degli asciugamani. È arrivato alle casse con un portacd. Senza asciugamani, ovviamente. Do il bancomat alla cassiera, che me lo restituisce esanime. Il bancomat, non la cassiera.

Passiamo le casse… e cado anche io nel tranello. G. detto Peppino si allontana e torna con del cibo. Tre minuti più tardi addentavo un würstel e bevevo una nota bibita gassata. Ho guardato il würstel. C’era scritto che era stato fabbricato con materiale biodegradabile e che per produrlo non era stato abbattuto neanche un albero.

Ho capito, adesso, cos’è l’IkeaExperience.

Di |2003-09-17T18:44:00+02:0017 Settembre 2003|Categorie: I'm A Loser, There's A Place|Tag: , , , |23 Commenti
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