Archivi mensili: Settembre 2003

Lib(e)ri

Uno dei momenti più belli e normali della mia vita è quando finisco un libro e mi appresto a leggerne uno nuovo. Momento bello, importante ed emozionante. Insomma, si esce da un mondo e si entra in un altro mondo. Ma, per quanto i mondi possano essere avvolgenti, siamo comunque noi-in-un-dato-momento a leggere. Quindi la nostra vita, in senso lato, si mischia, è influenzata ed influenza la lettura. Inoltre, per quanto uno possa sapere di un libro prima di averlo letto, è difficile sapere tutto e sapere come la lettura influenzerà lo stato d’animo. Un’ulteriore premessa. Difficilmente leggo più di un libro alla volta e difficilmente non finisco un libro.

Adesso, giochiamo.

Due tra i libri più belli letti in quest’anno sono stati Appuntamenti al buio di Cornell Woolrich e Norwegian Wood, Tokyo Blues di Haruki Murakami. La tristezza di quest’ultimo è cosa nota, altro che. E anche la sua bellezza. Tant’è che quando dicevo che lo stavo leggendo, tutti mi guardavano con due occhi così. Non solo perché il libro era triste, ma perché in quel momento stavo vivendo uno dei dolori sentimentali più grandi della mia vita. E ovviamente il libro parla, tra le altre cose, di amori impossibili (avevo scritto “umori”, ecco) e sofferenze assortite.

Anche mia madre l’ha letto, quel libro. “Ma qui si ubriacano tutti e si suicidano”, mi dice. La guardo con lo sguardo-pieno-di-vita. Per fortuna non sa niente del cellulare.

Insomma, con il libro di Murakami ho vissuto il mio dolore riflesso, come le pagine se ne fossero preso un po’. Forse il mio dolore era tanto che sono stato io ad intristire il libro, non viceversa.

Appuntamenti al buio (Stile Libero Einaudi, 2000), finito di leggere ieri, è un noir scritto da Woolrich, un tipo strano, legatissimo in maniera morbosa alla madre, incapace di avere a che fare con altre donne. Scrive in maniera molto efficace ed avvincente. Solo che anche questo libro… È la storia di un ragazzo che ha solo la sua ragazza al mondo. Viene uccisa in maniera bizzarra mentre passa un piccolo aereo nel cielo e lui decide di fare provare a tutte le persone a bordo di quell’aereo ciò che ha provato lui, cioè la perdita della donna che amano di più al mondo. Il libro, ogni tanto, presenta frasi come queste:

“Lei si chiamava Dorothy, ed era deliziosa; non era facile descriverla, ma non per la stessa ragione: non si può descrivere la luce. Si può dire dove è, non che cos’è. Ci saranno state ragazze più belle, ma non più adorabili. Era una qualità che veniva da fuori e dentro di lei, un minuscolo particolare. Era il primo amore di ogni uomo, l’amore di cui ci si rende conto solo quando lo si è perduto e si guarda indietro a riflettere. Era la promessa fatta al principio e che non può essere mantenuta oltre un certo punto – e infatti non lo è mai” (p. 5)

“Mi piace vedere una coppia che si diverte, finché può. Poi ci sarà tutto il tempo per soffrire” (p. 141)

E adesso mi trovo davanti alla libreria, guardo i dorsi dei libri, pensando a cosa mi potranno nascondere. Chiudo gli occhi e scelgo.

Il dugongo sepolto

Qualche giorno fa, un’amica che vive a Londra da qualche anno mi diceva di quanto fosse buffo che certe parole che rimangono chiuse e sepolte per anni nella memoria, a volte, di colpo, tendano a rimergere.

Ieri sera io e qualcun altro abbiamo giocato a Trivial (lo so, ultimamente me ne sto in casa di sera, ma, a differenza di Marcel, non me ne vado a letto presto: quindi invitatemi ad uscire, anche tardi). Insomma, ad un certo punto capita una domanda: “Che animale dell’antichità era spesso scambiato per una sirena?”. Io e la mia squadra abbiamo risposto “il delfino”. Invece la risposta corretta era “il dugongo”. Non so se abbiate idea di che animale sia un dugongo. Lo vedete lassù. È un mammifero acquatico, anche piuttosto brutto, un incrocio tra un delfino e una foca. Come cacchio avrà fatto a ricordare una sirena agli antichi… A me Daryl Hannah ricorda una sirena… Ma il punto non è questo. Il punto è che quando ero piccolo avevo un amichetto piuttosto grosso e sua madre lo chiamava scherzosamente dugongo. Io non sapevo cosa fosse il dugongo, ma ero un grande appassionato di animali, quindi lo cercai in uno dei miei libri. Mi vedo in questa stanza, in quella che non so se chiamare casa mia o casa dei miei (no, non sono a Bologna, provengo da altri lidi e ogni tanto torno a salutare mamma e papà, eh insomma), una stanza che era sistemata diversamente, sulla poltrona intento a sfogliare un librone di animali e a guardare una foto o un disegno del dugongo. Che è rimasto sepolto nei miei pensieri fino a ieri.

P.S. La parola a cui si riferiva la mia amica, invece, era “blog”.

Di |2003-09-12T00:32:00+02:0012 Settembre 2003|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |7 Commenti

11 settembre ***3

Sono sicuro che, per quello che riguarda ciò che è successo due anni fa, basterà la televisione per ricordarcelo e farci tornare alla mente lo shock. Sono meno sicuro che oggi venga dedicat0o abbastanza spazio a ciò che successe trent’anni fa. Delle Twin Towers abbiamo immagini, immagini, immagini, immagini. Del palazzo della Moneda la nostra generazione ha ricordi di brani di libri di storia (se li ha ancora, questi ricordi) e poco altro. Dal palazzo della Moneda ecco le parole di un uomo che più essere-umano non si può. Leggetele qui.

Work in progress

Sono andato nel negozio di alimentari sotto casa, per comprare del latte e un po’ di pane. Come la maggior parte di negozi di alimentari a Bologna, è gestito da pakistani. Ogni tanto faccio due chiacchiere col proprietario, come va, come non va. Oggi c’è stato questo dialogo.

– Ma dimmi, sei laureato? – mi chiede.
– Eh, sì, da quasi un anno – rispondo. E prego non mi faccia la domanda successiva, la maledetta domanda. Ovviamente me la fa.
– E il lavoro?

(Cristo).

– Eh, lo attendo.
– Vieni a lavorare qua.

È la prima proposta di lavoro diretta che ricevo. Ma non ce la potrei fare. Tutto il giorno a contatto col cliente, che per definizione è stressante. Spesso. “Magari”, penso, “è una battuta”. Quindi dico sorridendo che non sono fatto per un lavoro del genere.

– Ma in mezz’ora si impara – dice lui serissimo. E aggiunge: -Lo può fare anche un dottore.

Mi sono guardato intorno nel negozio per vedere se ci fosse un posto per appendere il certificato di laurea.

Di |2003-09-10T13:56:00+02:0010 Settembre 2003|Categorie: We Can Work It Out|Tag: , , , |14 Commenti

Una serata secondo i programmi

Lunedì, ore 1945.
Sono pronto, come neanche Fantozzi quando deve vedere Italia-Inghilterra.
Cena con amico alle ore 20 in punto, poi concerto di Bowie alla radio, in diretta, da Londra. Il mio amico dovrebbe portare qualcosa da bere o altro, chissà. Comunque mangeremo, ci sentiremo il concerto alla radio, chiacchierando e cantando pezzi di canzoni e scoprendone di nuove. E poi avrò il ricordo del concerto, lo registro.

E come?

Corro alla Virgin, che è aperto fino alle ore venti. Entro e, ovviamente, sono l’unico cliente. Di solito alla Virgin la musica è varia, ma comunque orecchiabile–>gradevole–>acquistabile. Invece c’era sparato a palla un gruppo metal urlatissimo. Compro due cassette da novanta ed esco, pensando “mitico, ce l’ho fatta”. Piove tantissimo, ma il mio amico ha trovato un passaggio in macchina. Arriverà.

Ore 2005. Mi chiama. “Ritardo una ventina di minuti, i viali sono completamente bloccati, piove tantissimo”. Guardo il sugo per la pasta e gli dico di aspettare. Un po’ borbotta, ma poi si quieta. Penso che mangeremo in ritardo, ma pazienza. La pioggia, intanto, aumenta.
Ore 2035. Il mio amico non si fa vedere. E io non ho una lira sul cellulare per chiedergli dove sia, come stia, e soprattutto quando pensa di arrivare.
Ore 2045. Mi sintonizzo su Radio Due, dove c’è qualcuno che fa dei discorsi assolutamente magniloquenti che elogiano una band nostrana. “Sentiamo”, mi dico, mentre sgranocchio degli animaletti di cristallo per alleviare la tensione: il mio programma sta andando completamente a puttane. La canzone è orrenda. Ovviamente.
Ore 2050. Arriva il mio amico, zuppo e trafelatissimo. Ovviamente, poverino, non è riuscito a portarmi alcun omaggio. “Non importa”, dico io, “sta per iniziare il concerto”. E mi sento un po’ come si dovevano sentire i miei nonni, vicini alla radio per non perdere niente, neanche una parola. Quasi mi commuovo.
Ore 2103. Il concerto non verrà trasmesso. La Sony ha revocato all’ultimo momento la licenza per la diffusione. Tento di fare come Muzio Scevola e sto per immergere la mano destra nel sugo bollente, ma il mio amico mi ferma all’ultimo momento.

La serata si è conclusa con una partita a Trivial, che perdo. Però ho imparato che i ragni hanno otto occhi. Di tutte le cazzate che scorrono in una partita di Trivial Pursuit, in genere se ne ricorda una soltanto, dopo. Il ricordo non permane per più di un paio di giorni. No, questo non l’ho scoperto giocando. Esperienza personale.

Andando a letto ho maledetto la Sony, spegnendo la luce. Poi mi sono alzato di colpo, sono andato vicino allo stereo e ho guardato le cassette comprate per registrare il concerto. Ho tirato un sospiro di sollievo. Almeno erano della TDK.

Neighbours 2

Mi piacerebbe rimandarvi alla prima puntata della saga, ma purtroppo sono una schiappa con la gestione del template e non ho i permalinks.

“Francesco, ma come parli?”. “Ehilà, mamma”. Imbarazzo. “Che hai detto? Templi? Permanente?” “Ma no, parlavo del templeit che è il modello del mio blog, e che non ha dei link sull’ora. Cioè, quando posto qualcosa…”. Mia madre inizia a diventare terrea. “Ti continui a fare le canne?” “Mamma, ma che c’entrano le canne” “Magari ti ubriachi ogni sera, lì, sul templeit”. “Mamma…” “Che è blog? Ma non era ‘Blob’? Ti piaceva tanto!” “Ma lo guardo ancora e mi piace. Sto parlando di blog, una specie di diario…””Se ti fai la permanente, secondo me, stai male”. Mi arrendo. Ma datemi una mano con i permalinks. Io nel frattempo spiego a mia madre di che si tratta.

Nella mia casetta, al piano di sotto, proprio sotto di me, abita un geometra. O meglio, ha lo studio un geometra. Anche se una domenica mattina l’ho sorpreso sulla porta, un po’ assonnato, in maglietta e boxer. “Amore sul tecnigrafo”. Insomma, il geometra ha la finestra di una parte del suo studio proprio sul pozzo luce dove si affaccia la finestra di camera mia. Questo vuol dire che, per esempio, d’estate, quando abbiamo tutti e due le finestre aperte, è meglio che io non tenga la musica troppo alta. All’inizio per dirmi di abbassare fischiava, e io abbaiavo, di conseguenza. Poi ci siamo conosciuti meglio. E adesso prima fischia, poi dice il mio nome. Io abbaio, ma se me lo chiede gli porgo la zampa. Progressi. Questione di addestramento.

Ho conosciuto il geometra del piano di sotto perché lui, anche se non conta niente, era l’amministratore del condominio. Quindi lui sa e può. Ha una specie di carica onoraria, che ne so, come gli ex-presidenti della Repubblica che diventano poi senatori a vita. Avevo una bicicletta. E la mettevo nel cortiletto del palazzo. Lui mi ha detto che non si poteva, citandomi una delibera condominiale. Io un po’ ho insistito. Lui anche. “Che gliene frega?” pensavo. Ma sarebbe come dire che gli frega dell’Italia a… Esempio sbagliato. Scusate. Insomma, l’ho messa fuori, la bici. E me l’hanno rubata. Ce l’ho avuta con lui, per un po’. Ho pensato di tenere la musica a tutto volume quando cavolo mi pareva a me. Per un po’ l’ho fatto, ma lui si ad un certo punto si è rifiutato di darmi l’osso-di-gomma-che-ne-vado-pazzo. Quindi ho smesso.

Il geometra del piano di sotto ha una strana caratteristica. Quando parla al telefono aumenta automaticamente il tono di voce. Ora, il mio squallido tenore di vita fa sì che, quando lui (e il resto del mondo sul fuso di Greenwich+1) inizia a lavorare, io sia in piena fase REM. E lui, una delle prime cose che fa, è telefonare. Quindi io mi sveglio regolarmente con le sue telefonate. Una delle ultime è andata così. Giuro.

“Pronto, Sandro, ciao, sono M. Bene, bene, tu? Sei tornato, eh? Anche io. No, bene. Senti, Sandro, mi hai fatto quella richiesta? Come… Ma no, Sandro, te l’avevo detto prima delle vacanze, Sandro. Ma Sandro, come. Ma Sandro, non l’hai fatta. Ma come, non te l’ho dett… Mosocc’ ma non… Sandro. Sì che. Sandro. Sandro. Io. Ma no, figurati se me lo sono dimenticato, Sandro. Ma la rich. Sandro, non mi fare. Sandro te l’ho detto prima delle vacanze, figurati se. Sandro. Sandro. No, mi serve oggi, Sandro, che figura ci faccio, Sandro? Ma stai scherzando? Ma secondo te io. Sandro, sto perdendo la. Cosa? No, facciamo. Sandro. Sandro. Domani? Ma mi serve oggi, soccSandro. Te l’avevo chiesto, mi ricordo benissimo. No, alle dodici. Passo io, Sandro. Va bene Sandro. Ciao.” Socc.

Insomma, sono cose che traumatizzano. Ma poi mi sono riaddormentato. Indovinate che ho sognato? No, non Sandro. Ho sognato Filippa Lagerbach e Tori Amos che litigavano perché erano entrambe innamorate di me. Uno dei miei sogni erotici preferiti.

Bagni (da leggere a stomaco vuoto)

Piccola nota prima di andare a nanna, ché è tardi. Sono andato alla Festa dell’Unità. Ci capito ogni anno, compro delle cassette, ogni tanto vedo dei concerti, bevo qualche birra. Chiacchiero. Non mi entusiasma, ma tant’è. Sono andato nei bagni, ad un certo punto. E, ovviamente, c’era una melma acquitrinosa per terra. Ho iniziato, mentre provvedevo a fare pipì, a chiedermi come mai nei bagni ci sia sempre del liquido per terra. Dico nei bagni dei maschi. Nei bagni delle femmine non so. Non pensate male.
Ora. Noi maschietti siamo tacciati di fare regolarmente la pipì fuori dai bagni. Ma non tutta. Io tento sempre di essere regolare e di farla-dove-va-fatta. Ma quando vedi un bagno completamente allagato, anzi, quando quasi sempre i bagni pubblici che frequenti sono allagati, ti chiedi perché capiti una cosa del genere. Forse la tazza perde? Forse c’è qualche stronzo che decide di farla tutta fuori apposta?

Arrivò davanti alla tazza e si sbottonò la cerniera. Poi ci pensò e disse tra sè e sè: “Ma sai che ti dico?” e fece una mezza giravolta su se stesso.

Preso da questi pensieri sono tornato al tavolo dai miei amici. Le due sedie delle ragazze che erano con noi erano state occupate da due individui.
“Scusate”, dico, “queste sedie sono occupate”. Nessuna risposta. Solo uno sguardo rivolto nella mia direzione. Vitreo. Mi schiarisco la voce. “Ci sono due nostre amiche, qua, sono andate a comprare le sigarette, ma tornano”. Nulla. “Vabbè, quando tornano vi alzate, per favore”. Una reazione. Un sorriso e un cenno del capo. Subito dopo uno schianto. Qualcuno è salito su un tavolino facendolo crollare. Poi arriva un tipo, prende senza dire una parola un pacchetto di sigarette vuoto sul nostro tavolo e ne strappa un pezzettino, probabilmente per farsi un filtro. In un paio di minuti arriva un ragazzo trascinato dal suo cane. Sotto il nostro tavolo, non si sa come, c’erano dei croccantini per cani (o per gatti, non lo so, non me ne intendo e non avevo fame), che ovviamente avevano attirato la bestiola. Il padrone cerca di tirare via il cane, ma il quadrupede insiste. Allora il ragazzo si inginocchia per terra, mette la mano a conchetta e raccoglie i croccantini, mormorando uno “scusate”. Poi un altro schianto. Una ragazza per terra, i suoi amici applaudono e uno ha un pezzo di tavolo in mano e lo brandisce come la scimmia mulina l’osso all’inizio di 2001.

Di colpo ho capito. Quasi tutto.

P.S. I visitatori di questo diario urbano aumentano, e li ringrazio. Mi si cita anche, qua e là. In particolare vorrei ringraziare Il blog della domenica, che però qui dice che io mi credo vittima di una congiura tecnologica. Ma no. E’ solo il caso. Anche se, ogni volta che torno a casa, il mio stereo o il mio videoregistratore si mettono a fischiettare sospetti e si fanno l’occhiolino. E poi dice che non ho i permalink. Con lo stesso tono con cui si potrebbe commentare una cacca in vetrina da Tiffany’s. Gentilmente chiedo aiuto. Voglio anche io i permalink. Attendo spiegazioni.

Di |2003-09-08T03:36:59+02:008 Settembre 2003|Categorie: There's A Place|Tag: , , , , , |0 Commenti

Domenica

Chi mi conosce lo sa (per citare illustri concittadini): io odio le domeniche. Non so perché non le sopporto.
Bologna, di domenica, si trasforma ulteriormente. Famiglie che si tengono per mano (una a una: nessuna catena umana) e vanno a prendere il gelato in centro. Oppure si prende l’autobus e si va dalla periferia verso il centro. E allora si vedono coppie che vanno a pranzo dai genitori o, molto più spesso, signori anziani che vanno a pranzo dai figli. Con, ovviamente, il padre che ha in mano una bottiglia di vino e la moglie un vassoio di paste. Vestiti bene, si chiedono per quanto ancora andranno a trovare i figli. E magari pensano che la nuora, o il genero, proprio non gli è mai piaciuto. Ma non lo dicono, lo pensano.
Bologna, di domenica, è la città dei Giardini Margherita con gente che pattina, gioca a calcio, suona, fuma o va semplicemente a leggere il giornale. E nei prati si trovano le comunità di stranieri: i russi, per esempio. Si siedono per terra, o su qualche panchina e chiacchierano chiacchierano chiacchierano.
A Bologna, di domenica, è quasi tutto chiuso. Rimangono aperti soltanto i negozi dei pakistani, in centro. I clienti sono pochissimi. E finalmente i pakistani possono parlare tra di loro nella loro lingua, e magari smetterla di sorridere (sono sempre sempre gentili e sorridenti: cosa rara negli esercizi commerciali del centro, a parte rari casi) e condividere preoccupazioni, nostalgie, cose buffe successe nei giorni passati.
Fuori dalla stazione, nel piazzale centrale, le cose non cambiano quasi mai. Ma di domenica si ritrovano spesso immigrati dell’est. Stanno lì e chiacchierano. Mi sono sempre chiesto perché si ritrovino davanti alla stazione, con tutti i posti che ci sono a Bologna. A volte penso, in maniera ingenuo-romantica, che queste persone hanno lo spostamento nel sangue. E quindi non c’è luogo più familiare del non-luogo per eccellenza, la stazione.
Non mi piacciono le domeniche. Ma oggi sento che mi fanno tenerezza. Uscirò, forse, per guardarmi in giro. Oppure no, terrò queste mie parole e farò finta che siano quello che c’è fuori.  Buona domenica a tutti voi che mi leggete. Posso ringraziarvi, ancora una volta, per le cose carine che mi scrivete? Grazie.

Di |2003-09-07T14:58:04+02:007 Settembre 2003|Categorie: I Me Mine, There's A Place|Tag: , , , , , , , |1 Commento

La rivolta degli oggetti – parte seconda

Svegliarsi presto. Tipo alle 1245. Pensare di dedicare tutta la giornata a scrivere, a mandare curricula e lettere di presentazione, magari sentendo della musica, cambiare dischi e fare cose piacevoli o automatiche (e un po’ meno piacevoli).

Ovviamente mi si rompe la stampante, non appena finisco di formulare questo pensiero, stamattina (beh, ormai ieri mattina). Inerte. “Stampa”. Nessun segno di vita. Solo un debole lampeggiare di una spia, prima sembrava quasi la fine di HAL in 2001. Dopo un po’ che non viene fuori niente dal cassetto della carta, ti girano le palle e basta. Altro che Kubrick. Smonto, rimonto, disinstallo, riinstallo, pulisco testina e contatti. Le racconto una favola. Le compro un gelato.

Inerte. Bip. Bip.

Il sistema operativo inizia a stufarsi e a segnare errore. Cerco di farlo stare calmo, risolverò tutto. Rismonto, ririmonto,ridisinstallo, ririnstallo, ripulisco. Niente. Penso. “Col cavolo che ti riracconto. Al massimo ti ricompro”. “Un gelato?” chiede lei (bip). “No, un’altra stampante”. E così faccio. Ormai rassegnato, sto per recarmi al notonegozio di computer, che già mi aveva donato un misto di gioia e idiozia (era il 28 agosto), quando sento un suono provenire dalla mia tasca. Il mio cellulare che mi chiama. “Come va?” “Come, come va? Ma non eri morto?” “Ero morto. Rispondi, ché c’è qualcuno che ti chiama”. Il mio cellulare è tornato a funzionare. Nonostante il Jack Daniels. Ma quando ho chiuso la telefonata ho visto che mancavano 15 euro dal credito. Ha confessato: si è comprato una bottiglia di whisky. Via internet. Io il WAP l’ho sempre odiato.

Negozio di computer, fanciulla alla cassa bellissima. Ma è un’altra. “Incredibile” penso. “Posso fare della cazzate come una settimana fa?” mi chiede il mio cervello. Lo minaccio e si calma.

Insomma, ho comprato un’altra stampante. Forma spaziale, ovviamente. Sembra un’incubatrice del futuro (immagino quanto sia efficace quest’immagine nelle vostre menti). Mi piace, ma è violenta. Ho dato il comando di stampa e non è successo niente. Poi, d’un tratto, s’è incazzata, ha preso il foglio, se l’è ingoiato, l’ha stampato con rabbia e l’ha sputato fuori. Poi mi ha guardato e mi ha detto: “Dammene un altro”. Ho stampato altri fogli fino a che non si è addormentata.

Però un po’ mi mancherà la mia vecchia stampante e i suoi rumori. Ho stampato la tesi, con quella. Sigh. Lo so che anche a te manco, laggiù in cantina, al buio. E dell’inchiostro goccerà dalla tua testina.

Scusate. Si è svegliata la nuova stampante. Troverò dei fogli bianchi per lei, stanotte?

La rivolta degli oggetti

Dopo il mio portatile, che ho tentato di distruggere e in parte ce l’ho fatta, altri oggetti tecnologici mi dichiarano la guerra. Il mio telefonino, per esempio, ha smesso di suonare. E il nostro ligio eroe che fa? Va al Nokia Point (brivido e raccapriccio) vicino a casa sua…

…ma che cacchio, disse un lettore del blog. ma tutto vicino a casa sua? il notolocale, la notagelateria, il notonokiapoint…

… per tre volte. Eh sì. Perché evidentemente ci sono milioni di utenti Nokia a Bologna e nel mondo, fatto sta che il Nokia Point è sempre pieno e dentro c’è una sola persona. O almeno così pare. Se poi nascondono gli altri impiegati nel retrobottega, non lo so. Siccome già mi sentivo scemo ad andare al NP (basta scriverlo per esteso, ché mi viene l’orticaria), quando vedevo pieno me ne andavo. Alla fine ieri ce l’ho fatta.

Il ragazzo che mi serve è gentile, ma di quei tecnici che sembra che aggiungano a qualsiasi cosa essi dicano una specie di riferimento stabile, come se esistesse un catalogo universale dei danni-tipici-del-telefonino. È solo per una loro gentilezza che ti dicono “deve cambiare la batteria”, invece che qualcosa come “A4T56 /bis”. Insomma, do il mio telefonino e dico che non si sente più la suoneria. La prima cosa che fa è smontarlo in due nanosecondi (io ci metto minimo un paio di minuti) e dire “Bisogna riprogrammarlo”. Che mi sa tanto di Philip Dick. Prima che faccia un’altra mossa lo fermo e gli spiego meglio il problema. Allora lui si blocca, smonta ulteriormente il mio telefonino e nel frattempo dice qualcosa, con aria grave, come: “Quando questo cellulare smette di suonare, vuol dire una sola cosa”. Con perfetto tempismo mi apre davanti il cellulare. Dentro c’è una macchia marrone. Un bel marrone chiaro, ambrato, per me inconfondibile.

“È annegato”, dice. Poi odora il cellulare. “Vino o caffè”. Poi, come il più consumato dei sommelier, aggiunge. “Ma direi vino”. Due donne sulla trentina ridacchiano. Io anche.
Ma quello non era vino. Era Jack Daniels.
Solo che non mi andava di dirlo in un Nokia Point.

Di |2003-09-04T10:49:33+02:004 Settembre 2003|Categorie: I'm A Loser|Tag: , , , , , , , |2 Commenti
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