Referrers – Gente che cerca altro – 14
Dagli stessi produttori di Neighbours, in associazione con Google, Virgilio, Yahoo! e Shinystat
14. al concerto ho mostrato le mie tette
“L’italiano è una lingua di perifrasi.” Questo fu il suo primo pensiero compiuto di quella mattina, pensiero che faceva fatica a farsi sentire, sommerso dal fischio continuo che le rimbombava nelle orecchie. “Non esiste un equivalente italiano di hangover. Una parola sola, cioè. Lingua meravigliosa, l’inglese.” Poi sentì una fitta allo stomaco, pensò che forse doveva mangiare, le venne da vomitare. Si riprese e si mise a sedere sul letto. Respirò. E iniziò il processo di recupero nella memoria, per rispondere ad una semplice domanda: “Che cosa ho fatto ieri sera?”, domanda che aveva diversi corollari, corrispondenti, più o meno, alle cinque “W” del giornalista. “Who, what, when, where e…” Non si ricordava l’ultima, la più importante. “Why. Perché?”
La sua memoria sbuffò, crepitò e regalò una sensazione al suo cervello: aria sul petto.
Andò in bagno, si chinò sulla tazza, ebbe un déjà-vu poco prima di vomitare le ultime cose che aveva nello stomaco. Liquidi, per lo più. Alcolici.
Aveva abbracciato il cesso anche appena era tornata a casa, quella notte. Il fischio nelle orecchie non diminuì. Qualcuno la stava pensando? No. Era stata ad un concerto.
Ecco, sì. Un concerto. Tentò di focalizzare su quel brandello di ricordo, togliendo tutto ciò che poteva peggiorare il suo stato di post-ubriacatura, concisamente detto “hangover”. Eliminò le luci violente del palco, la calca della gente, il fiato caldo di qualcuno dietro di lei. Si passò una mano sul collo, era sudata. Anche la notte prima era sudata, faceva caldo, ondeggiava la testa, forse anche senza muoverla. Si ricordò di un barista, della sua mano raffreddata dalla birra nel bicchiere di plastica, di una sua amica che le diceva “ancora?”, di lei ipnotizzata dai movimenti del batterista, di lei che sentiva caldo e rideva.
Aveva sollevato la maglietta, mostrando il seno al gruppo.
E anche a qualcuno al suo fianco.
Poi aveva riabbassato la maglietta.
Rivomitò. Evidentemente c’era ancora qualcosa nello stomaco.
Ebbe un’altro flash, di un flash. Cioè rivide proprio il lampo di una macchina fotografica negli occhi. E se qualcuno le avesse fotografato le tette? “Oddio”, pensò. Stavolta la lingua italiana era vantaggiosamente sintetica almeno quanto l’inglese.
Tornò nella sua camera e vide il computer acceso. Aveva scritto un post sul concerto, su tutto. Si affrettò a cancellarlo, senza neanche rileggerlo. Tutto era chiaro, adesso, e anche il fischio nelle orecchie stava diminuendo. Tutto tranne una cosa.
“Why?” La domanda era stampata nella sua mente, e la risposta “ero ubriaca marcia” non la soddisfaceva. E se qualche motore di ricerca avesse memorizzato già quel post?
Digitò in fretta alcune parole e cliccò sul pulsante dei risultati.
Altri blog, altri concerti, altre tette. E si sentì per la prima volta parte di una comunità.




Quanti Losers. Quando iniziano gli accordazzi slide, penso che, allora, la fa. La canzone che l’ha fatto conoscere nel mondo intiero è accompagnata da una foto dell’epoca di Mellow Gold (e non è che il signor Hansen sia cambiato molto, poi). Ovviamente tutto il pubblico canta a squarciagola il ritornello. O, sigh, qualcos’altro…
Heart. Beck ama la chitarra acustica, e tocca la vetta più alta del concerto quando riprende la sua cover di “Everybody’s gotta learn sometimes”, in maniera ancora più intima che nella colonna sonora di Eternal Sunshine. E io ho già gli occhi lucidi. Niente in confronto ad uno al mio fianco che, quando si passa al pezzo successivo, e poi a “The Golden Age”, scoppia in lacrime. Appena però gli altri componenti del gruppo, seduti ad una tavola apparecchiata, iniziano ad usare piatti, bicchieri e posate per accompagnare il brano, urla tra le lacrime “Stronzi” e si copre il viso con le mani. Mah. Secondo me è uno che è stato traumatizzato dal
All Tomorrow’s Parties. Alla fine del concerto, salgono una ventina di persone del pubblico e, finalmente, mentre tutti ballano intorno a me, e sul palco, e tutti suonano qualcosa o percuotono qualcos’altro, capisco di essere ad una delle feste più divertenti della mia vita. Uscendo, effettivamente, nessuno usa la parola “concerto” e nessuno si preoccupa di avere fatto casino a casa Beck. Non vedo l’ora che mi inviti di nuovo. Magnifico.


Sabato scorso sono stato, per la prima volta in vita mia, al
Attenzione, non crediate che guardi tutto dall’alto, eh no. Perché come molte persone di mia conoscenza, più o meno coetanee, il mio primo approccio con la musica è stato proprio con l’heavy metal. Ma non sto parlando delle prime canzoni ascoltate (altrimenti Cristina D’Avena andrebbe in rovina, e sarebbe in piazza Verdi a mendicare una birra), bensì della prima passione musicale. Per me, un nome: gli Iron Maiden, headliner della prima giornata del festival. Per una serie di motivi, quindi, ho visto gli Iron Maiden quasi quindici anni dopo avere sentito le loro prime cose, e, diciamo, quattro anni dopo avere smesso di sentirli.
per non parlare (talvolta) dei testi, tutto passa e va, basta crederci almeno per un po’. Ma gli assoli, cristo, gli assoli no. Perché esiste l’assolo heavy metal, che a volte
Eh, già, ho sorriso, perché la terza considerazione è che, a differenza di discotecari mascellati, indierocker attenti a non spettinarsi la frangetta, emoboys che si tingono la chioma di nero, b-boys che, alla fine, soffrono della scomodità di pantaloni troppo larghi, i metallari si divertono e sono veramente felici. E, soprattutto, se ne sbattono delle mode e della ricerca spasmodica e spesso insensata del nuovo-a-tutti-i-costi: le decine di migliaia di persone che erano sabato a cantare con Bruce Dickinson ne sono la prova. Anzi: la fottuta prova.



Fondamentalmente una capanna e un tavolino deserti, molto simili come atmosfera al campeggio “Crystal Lake” di Venerdì 13. “Ma perché ‘Regina del bosco’?” ha chiesto un malcapitato. L’abbiamo capito subito. Il nome derivava dalla specie dominante dell’area, la zanzara tigre. Siamo stati immediatamente attaccati da decine di insetti, che hanno tentato di pungerci ovunque, infilandosi sotto i pantaloni e sbattendosene allegramente della Convenzione di Ginevra. “Ripieghiamo”, ha ordinato la nostra guida tenendo alta la sua Luger e facendo dietro front.