Archivi mensili: Marzo 2011

Back to the USA

Considerando che non posso permettermi un nuovo viaggio negli Stati Uniti, mi riferisco al fatto che Maps, la trasmissione che conduco dal 2007, è di nuovo sbarcata in America, con l’intervista a Mark Stewart di cui ho parlato anche in questo blog. Il ringraziamento va ovviamente a J. (ora in tour proprio colà) e a P. che è stato al mio fianco, camera in mano, a sopportare tutto quanto.

Viva V.E.R.D.I.

Sabato sera fuori da un locale iniziano a chiacchierare con me due signori sulla cinquantina. Mi hanno riconosciuto dalla voce, una cosa che mi è capitata tre volte in dieci anni di radio, e sono desiderosi di raccontarmi “l’episodio rinascimentale” avvenuto la sera stessa al Teatro Comunale. Io già m’immagino l’inizio di Senso di Visconti, apprestandomi ad ascoltarli.

La mattina dopo, in onda, riprendo per sommi capi l’episodio, invitando chi tra il pubblico fosse eventualmente presente al Teatro a raccontarmi in diretta ciò che era successo. Una giornalista de L’Informazione all’ascolto (e al lavoro) mi manda un’e-mail perché anche lei vuole saperne di più. Poco dopo chiama un’ascoltatrice e racconta ciò che era successo.
Prima del concerto ha preso la parola una corista che ha denunciato lo stato delle cose nel mondo della musica (e in quello culturale in genere) leggendo un breve comunicato che si è concluso con le seguenti parole (che copio dall’Informazione): «La tristezza è lo stato d’animo con cui l’orchestra e il coro del Teatro Comunale si rivolgono stasera, con le maestranze tutte, al gentile pubblico. Governanti stolti, insensibili e sordi alla musica, all’arte e alla cultura continuano ad accanirsi con ulteriori tagli al Fondo Unico per lo Spettacolo condannando di fatto tutti i teatri alla chiusura entro pochi mesi. “Io vi consolerò”, intona il coro con il soprano nel Deutsches Requiem. La musica, questa sera, è e resta per tutti noi l’ultima consolazione, l’unica dimora a noi congeniale, che ci protegga e ci difenda dalla barbarie dilagante nel nostro amato paese».
E pare che sia scoppiato un mezzo putiferio, con sostenitori e detrattori dello spirito del comunicato che lottavano a colpi di applausi e fischi. Sulle cifre che componevano le parti c’è dissenso.
Ma il punto è che ormai siamo arrivati a uno scenario che è una specie di imitazione della guerra civile: il Paese mi pare diviso, su tutto, con gli uni che stanno arrivando a odiare gli altri. C’è tensione nell’aria, anche in quella del Teatro Comunale di Bologna, e questo me l’hanno confermato di persona e al telefono.
Non so se sperare che questa cosa scoppi, finalmente, a guisa di bubbone, o se infine prevarrà il nostro spirito patrio buffone e da Commedia dell’arte (il nostro vero “testo” generativo) e che quindi da quest’imitazione di guerra civile ne discenda una parodia e, poi, tutto (come ormai accade spesso) si dissolva nel nulla.

Daghe, amore e stregoneria

Era un po’ che non andavo a un concerto metal, ma non mi aspettavo che lo fosse quello degli Electric Wizard visto qualche ora fa. Probabilmente perché il concerto era ospitato al caro Locomotiv Club, che di solito non ha in programmazione live di questo tipo. Eppure, sarà che gli Electric Wizard hanno come ispirazione i Black Sabbath, producono suoni pesanti e sepolcrali, parlino di stregoneria, orrore e messe nere e suonino metal, ma insomma il Locomotiv era pieno di metallari, ieri.
Un panorama spiazzante solo all’inizio, considerando che c’è tutt’altra popolazione che frequenta solitamente il circolo. Comunque, è bastato guardarmi intorno, carpire alcuni discorsi, vedere la ressa ai banchetti di dischi,e delle piccole distribuzioni, e sentirmi dire “scusa” perché una persona mi aveva urtato per sbaglio per confermare, ancora una volta, quello che scrissi anni fa: il popolo dell’heavy metal è il migliore di tutti. Tutti gentili, tranquilli, fieri in maniera sincera delle loro giacche e toppe con teschi e spade (ne ho ancora un bel po’ anche io, da qualche parte).
E curiosando in rete, scopro Metalheads Against Racism. Quasi quasi formo una band solo per comparire nel chilometrico elenco delle adesioni: le magliette giuste, del resto, le ho già.

Mother Francesca comes to me…

Quando, tre anni fa, ci fu il via libera all’uso negli spot delle canzoni dei Beatles, ipotizzai delle applicazioni turpi delle stesse, a seconda del prodotto da commercializzare. Ma la pubblicità (firmata da Sam Mendes) della Telecom non ha nell’uso di una pessima cover di “Hello, Goodbye” il suo difetto peggiore.

Che noja (con la “j”) mortale: come si fa a creare uno spot da 50″ in cui dal primo istante sai di cosa parlerà, come lo farà e come andrà a finire?

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Di |2011-03-08T08:00:00+01:008 Marzo 2011|Categorie: Glass Onion|Tag: , , , , , |4 Commenti

Words disobey me

Intorno alla metà del 2010 siamo venuti a conoscenza che il Pop Group era tornato e che avrebbe suonato una delle pochissime date di un mini-tour a Bologna. Con la redazione di Maps ci siamo, ovviamente, messi a caccia di Mark Stewart, uno dei personaggi più bizzarri e potenzialmente controversi della musica degli ultimi trent’anni.
Eravamo davvero emozionati dalla possibiità di vedere la band dal vivo e di realizzare una delle prime interviste con Stewart di nuovo alle prese con il Pop Group, una band che ha realmente avuto un effetto devastante sulla musica cosiddetta “post punk” relativamente ai due soli album prodotti, nel 1979 e 1980.

Settembre 2010: è il giorno prima del concerto e abbiamo appuntamento al Locomotiv, il club che ospiterà il live. L’appuntamento per l’intervista (richiesta e ottenuta come intervista video) salta. Panico. Arriva la telefonata da uno degli organizzatori: “Tra dieci minuti va bene?”. No, non ce la possiamo fare fisicamente. Chiediamo un posticipo e lo otteniamo. Ma l’incontro è da tenersi in una lavanderia a gettone. “Eh?”, dico io. “Eh”, dicono dall’altra parte e mi danno l’indirizzo del posto.
Arriva il fido P. e saltiamo in macchina, diretti al Locomotiv, quando arriva un’altra telefonata: Mark Stewart è ancora nel locale che fa le prove. Lo intervistiamo là. Il Pop Group è sul palco, ma mi costringo a non prestare troppa attenzione a quel che sento, perché non voglio rovinarmi la sorpresa della sera.
Mark Stewart è enorme: non come statura artistica, ma fisica. Sapevo che fosse imponente, ma non credevo lo fosse a tal punto. Un omone, che scende dal palco, non saluta nessuno, vede P. che fa prove di esposizione con la macchina digitale e gli dice molto bruscamente che non vuole scatti. P. dice che non sta facendo una foto, ma Stewart lo interrompe ancora e se ne va.
Arriva il fonico del concerto, un amico: “Simpatico, eh? Lo stavo mandando a quel paese, prima, per come mi ha risposto.”
Benissimo: questo primo approccio non è buono, per usare un eufemismo.
Gi organizzatori ci dicono che l’intervista si svolgerà fuori dal locale. Noi ci sediamo a un tavolino, aspettando Mark Stewart, che non si sa dove sia. Finalmente arriva, ordina un tè, sempre senza degnare nessuno di uno sguardo, capisce che l’intervista è video e dice di non poterla fare, perché non ha magliette pulite. Noi cerchiamo di ribattere, ma lui dice che lo possiamo portare in una lavanderia (quella del primo appuntamento, ecco perché!) e fare l’intervista là. Ci alziamo quando il povero organizzatore esce dal bar vicino al club con un vassoio e un tè. Stewart riesce a dire al tour manager “Pagalo” e poi ci guarda, come per ordinarci di affrettare il passo.
In macchina Stewart mi chiede di anticipargli delle domande. Sono domande normali, a mio avviso: mi sentivo preparato, poi, che c’entra, sono il giornalista che sono. Comunque: l’omone, seduto sul sedile posteriore, mi costringe a torsioni del collo per comunicargli le domande. Dopo la prima, mi dice “Rubbish”. Monnezza. Non risponde neanche. “Passa alla seconda”, dice, con aria di sufficienza.
Ma anche quella non gli va bene. Al terzo rifiuto, mi altero io. “Scusi”, gli chiedo, “ha intenzione di essere collaborativo o no? Perché quest’intervista non è obbligatoria.” Per la prima volta Stewart si ammorbidisce un po’, e, in pratica, mi spiega perché secondo lui le mie domande erano monnezza.
Il mio errore era stato usare termini a sproposito che identificavano la mia visione del mondo (sbagliata) come assai lontana dalla sua (giusta). In quel momento, sentendolo mentre esponeva le sue visioni, ho pensato ad alcuni articoli di “Lotta Comunista”: in confronto alle parole di Stewart mi sembravano pericolosamente riformisti. Mentre ci fa il bignami del pensiero leninista, Marx Stewart ci dice anche che percorso (stradale, oltre che politico) fare, scocciato perché secondo lui avevamo sbagliato strada. Io vivo a Bologna da quasi quindici anni e P., alla guida, la conosce in lungo e in largo, perché è nato poco fuori. Ma con noi c’era Maps Stewart: lui sapeva dove andare.
Arrivati nei pressi della lavanderia, ci ha chiesto di farlo scendere e di portargli un caffè, una volta che avessimo trovato parcheggio.
Quando è uscito dalla macchina, abbiamo pensato sinceramente di andarcene, di piantarlo lì. Tanto sarebbe tornato facilmente, no? E inoltre la voglia di assistere al concerto si era molto affievolita.
Invece abbiamo deciso di raggiungerlo in lavanderia (senza portagli il caffè) e, una volta accesa la camera digitale l’omone è diventato un altro: uno showman capace, tosto di carattere, a suo modo quasi affascinante. E il concerto è stato bellissimo.
Pubblichiamo oggi su Maps e SentireAscoltare la prima intervista mondiale sul nuovo corso del Pop Group. Lo dice lui alla fine del filmato, non io, che è la prima. Fatemi sapere se ne è valsa la pena. E soprattutto se sono irrimediabilmente diventato un lurido borghese conservatore anch’io.

Società Italiana Anziani Emeriti

La SIAE: se la sola pronunzia di questo nome vi fa venire in mente qualcosa, miei piccoli lettori, si tratterà certamente di un’immagine cupa, foriera di dolore. Perché infrangete il diritto d’autore, perché avete messo dei dischi masterizzati a una festa, perché avete fotocopiato dei libri, perché dovete riscuotere diritti esigui, perché siete stati negli uffici della società e vi è parso di entrare in una scena di Le dodici fatiche di Asterix, perché avete ricevuto una visita di un ispettore della società stessa.
Be’, per chi non lo sapesse: è tutto vero.
Non solo. Chi di voi ha mai compilato un modulo SIAE per la ripartizione dei diritti musicali dei brani messi durante una serata danzante? Be’, sappiate che per ogni voce compilata male, cioè quando il nome dell’autore non è chiaro, o è sbagliato, il contributo relativo fa in un fondo comune. Questi soldi, alla fine dell’anno, sono distribuiti tra gli artisti che hanno più diritti. Quindi, tra quelli che hanno più successo, che vendono ancora dischi, quelli che campano di SIAE. Tipo, che ne so, i Pooh. Ah, toh: nel CdA della SIAE c’è Roby Facchinetti. Sembra una specie di premio di maggioranza. Una norma bizantina?
Del resto la SIAE ha 130 anni di storia e il suo modus operandi non è cambiato di una virgola, a parte quando, nel 1941, è stata approvata la Legge 633 sul Diritto d’autore, che tuttora disciplina la materia, in gran parte. E, soprattutto, i dirigenti della società sono legati all’anno di fondazione, il 1882, visto che sono nati intorno a quella data.
Per questo, forse, dobbiamo salutare con entusiasmo la nomina di Gian Luigi Rondi (su proposta di Bondi e Berlusconi) a commissario straordinario della Società. In fondo ha solo novantadue anni. Avanti così, geriatricamente.

Première

Ho sempre cercato di andare alle anteprime stampa dei film che mi interessano, ma (per questioni di lavoro) era da molto che non riuscivo ad assistere ad una di esse. Ieri, finalmente, ce l’ho fatta. E ho osservato  la varia umanità presente. Ho già parlato di gente da festival, ma l’anteprima cinematografica è un’altra cosa, soprattutto in una città come Bologna, dove proiezioni di questo tipo non sono frequenti come a Milano o Roma. Non c’è una vera routine, per questo motivo. Cionostante, ci sono delle tipologie ben definite di personaggi, spesso orribilmente incrociate tra loro.

Il giornalista generico di cultura contrasta, in effetti, quello che ho detto. Già, perché il GGC, chiamiamolo così, è inserito nella routine quotidiana degli appuntamenti culturali da-non-perdere. Entra in sala mollemente un quarto d’ora dopo l’effettivo orario previsto per la proiezione, ma tutti stanno aspettando lui. Ha quel posto di lavoro da trentacinque anni: può fare ciò che vuole. Scorre sinuoso tra le file delle poltrone salutando tutti, ma facendo cenni di assenso più intimi e misteriosi agli altri GGC che, bah, sono arrivati meno in ritardo di lui. Il GGC non si è ancora seduto e gli altri iniziano a spazientirsi: lui, allora, fa un cenno all’addetta stampa, le ricorda che hanno una partita a burraco in sospeso, e finalmente inizia la proiezione.
Il giovane stagista fiuta l’aria come un cerbiatto in pericolo: e lo è. È una farfalla nella stagione degli amori, oppure una talpa depressa, a seconda di quanto sia distante la fine del contratto (fotodegradabile) che ha firmato rinunciando a ogni diritto umano e civile. È alla proiezione per due motivi: per sbaglio o perché il caporedattore cultura ha avuto un ictus fulminante. Ma è la sua grande occasione: ha letto tutto sul regista, conosce a menadito la filmografia di ogni singolo membro del cast e non dorme da due giorni per l’agitazione. Ha la penna, il bloc-notes e ogni altro mezzo di registrazione immaginabile. È pronto per l’Intervista, ma deve prima guadagnarsi la fiducia (o anche solo una minima attenzione) dell’addetta stampa.
L’addetta stampa è come nei film polizieschi: nel senso che di solito c’è l’addetta stampa buona e quella cattiva. L’addetta stampa buona lo è a tal punto che dà una cartella stampa anche al giovane stagista, pensate un po’. Promette interviste di un’ora e mezzo. Poi passa a rassicurare altri giornalisti. E lascia il campo alla sua gemella cattiva. L’addetta stampa cattiva ha rispetto solo per gli ospiti (attori, regista, o chi per loro) e per il giornalista generico di cultura con il quale, forse, ha anche avuto una storia, o ci sono questioni di soldi di mezzo, o entrambe le cose. Ha un particolare gusto sadico, sfogato ovviamente soprattutto sul giovane stagista. Talvolta, addirittura, lo iscrive alla lista, in fondo, però. Così trova l’intervistato stanco e spossato per la sequela di domande identiche e fuori tema alle quali ha dovuto rispondere: al primo segno evidente di stanchezza o rottura di balle che l’intervistato esprime, l’addetta stampa cattiva irrompe sulla scena e interrompe tutto, anche dopo la prima mezza risposta. Caccia via il giovane stagista, poi si volta verso l’intervistato e sorride, sorride al punto tale che i suoi lineamenti si modificano, accostandosi molto a quelli dell’addetta stampa buona.
Il giornalista-zerbino è la causa dell’unico rumore che si sente durante la proiezione. Come una pentola di zuppa sul fuoco, il giornalista-zerbino gorgoglia apprezzamenti, borbotta consensi e poi esplode in fragorose risate anche laddove d’ironia ve n’era solo una punta, così, tanto per alleggerire una scena violentissima e cruenta. Ma lui coglie il Film come fa la terra secca con l’acqua ed esprime questa comunione non appena può. Ovviamente è suo il primo intervento, quando l’addetta stampa dà il via alle domande. Ma lui non chiede, afferma, scandendo di solito complimenti talmente esagerati e fuori luogo da fare vergognare chiunque: il tutto dà luogo a ipotesi dietrologiche che sbocciano nella sala come gemme, nel tentativo di rispondere alla domanda: “Ma perché si spreca in sperticate lodi? Qual è il vantaggio?”. Nessuno lo sa. Forse il giornalista-zerbino ha sempre voluto intraprendere una carriera nell’ambito della settima arte: si spiega spesso, così, la sua scarsa riuscita nel campo della scrittura.
Quello capitato lì per caso ha due possibilità, a seconda dell’addetta stampa che incontra per prima. Se è quella buona, la sua ingenua domanda “Ma c’è un film gratis?” verrà accolta da un sorriso e da un invito a entrare. Se è quella cattiva, la risposta sarà glaciale al punto tale da lussare una vertebra del capitato lì per caso e, nello stesso tempo, fargli morire le piante del salotto. Talvolta quello capitato lì per caso, però, viene fatto entrare: in fondo è sempre una presenza utile, quando c’è il sentore che l’anteprima stampa possa venire disertata da molti.
Poi ci sono attori, registi, produttori, eccetera. Ma sono persone molto, molto meno divertenti, di solito.

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