Francesco Locane

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Dagli archivi: Simian Mobile Disco – Whorl

Simian Mobile Disco – Whorl (Anti-)

7

Il deserto, due synth modulari, due sequencer, un mixer: ecco gli ingredienti di Whorl, registrato nella zona del Joshua Tree in tre giornate dello scorso aprile. Le dodici tracce derivano da due solitarie session live sotto il sole californiano e dal successivo concerto tenuto davanti a novecento persone accorse a uno sperduto locale country&western proprio per sentire in anteprima il nuovo lavoro dei Simian Mobile Disco. Pur continuando a indugiare nei territori ombrosi che battono da un po’, James Ford e Jas Shaw (che hanno abbandonato la Wichita per la Anti-) superano Unpatterns.

Dall’inizio al decimo minuto dominano i synth, che paiono inquadrare lentamente il luogo dove poi si svolgerà l’azione; la cassa entra solo al terzo pezzo, “Sun Dogs”. Tuttavia la volontà del duo, ormai da anni, non è “rifare ‘Hustler’”, bensì esplorare nuovi luoghi, magari alla luce del giorno, fuori dai club.

Le costrizioni alla Dogma 95 che questa volta si sono dati i britannici, in fondo, hanno funzionato: pensare il disco “all’aperto” e come qualcosa da suonare ogni volta e tutto dal vivo ha dato forza alla scaletta, che scorre bene tra momenti più danzerecci (non sempre originali) e altri più introspettivi, fino alla bella conclusione di “Casiopeia”, un lento movimento di macchina uguale e contrario a quello d’apertura. Diligente, ma piacevole.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Death from Above 1979 – The Physical World

Death from Above 1979 – The Physical World (Last Gang Record / Fiction / Caroline)

5

“Se la stampa dice che non è quello che si aspettava, be’, l’avete chiesto voi”, ha dichiarato all’NME Sebastien Grainger riferendosi al secondo album dei Death from Above 1979, The Physical World. Ammesso e non concesso di avere domandato a gran voce il ritorno del duo canadese (insieme a Grainger alla batteria e voce c’è Jesse F. Keeler ai synth e basso), dieci anni dopo il debutto You’re a Woman, I’m a Machine: ci meritavamo un disco così? Questa seconda uscita, infatti, ha un problema basilare e non da poco: suona vecchia e stanca, sia considerata nel contesto del panorama odierno, che (soprattutto) messa a confronto col tiro della band di dieci anni fa.

Qui ogni brano pare essere il tentativo di riproporre quel suono con pigre variazioni sul tema e richiami sparsi: oltre a tutto l’alt-rock degli anni ’90, ci si rivolge ai punk-rock in “Right On Frankenstein” (c’è anche la rima “ramonesiana” con “cemetery”), al punk-funk (con campanaccio!) nell’apertura “Cheap Talk” e in “Crystal Ball”, che tocca pericolosissimi territori nu-metal. Doom e stoner affiorano in “Nothin Left”, “Virgins” e nella title-track, mentre la filigrana di “Gemini” mostra tracce di hardcore melodico. Una vaga eco della potenza “live” e grezza delle canzoni del 2004 c’è solo in “Government Trash”. Mi sa che noi-della-stampa non chiederemo un terzo disco.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Orlando Julius and the Heliocentrics – Jaiyede Afro

Orlando Julius & the Heliocentrics – Jaiyeide Afro (Strut)

7,5

Dopo le collaborazioni con Lloyd Miller e Melvin Van Peebles, splendidi viaggi tra l’Oriente e lo spazio, gli Heliocentrics tornano all’Africa. Qualche anno fa hanno lavorato con Mulatu Astakte, questa volta la trasferta a Londra, negli studi rigorosamente analogici di Malcolm Catto e soci, tocca al grande sassofonista e cantante Orlando Julius (uno dei padri riconosciuti dell’afrobeat), che per Jaiyeide Afro rimette mano ad alcune delle sue prime composizioni, mai registrate prima.

Si va dall’ossessivo tema della traccia di apertura, “Buje Buje”, che ricorda le commistioni con la black music americana, marchio di fabbrica di Julius, fino ad episodi più classici come la title-track, il tradizionale “Omo Oba Blues” e “Love Thy Neighbour”, piena di fiati e di organi. Il motore propulsivo del disco è dato dalla micidiale combinazione di basso e percussioni, intersecata dalle chitarre e l’elettronica della band britannica.

Il punto di forza di Jaiyeide Afro è proprio nel modo in cui i due mondi si incontrano, traendo forza l’uno dall’altro, ma senza negare l’identità dell’album, che è e rimane un bellissimo e solido esempio di afrobeat: il genere rimane un centro di gravità intorno al quale gli Heliocentrics ruotano, creando dinamiche e movimenti affascinanti e sorprendenti. E, al momento giusto, arrivano gli assoli di Julius che tracciano scie luminose nel cielo e lasciano a bocca aperta.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Enzo Baldoni – Cartoline da Baghdad

Nell’agosto 2004 avevo appena preso il tesserino da pubblicista e a Radio Città del Capo di Bologna, dove lavoravo, mi occupavo per lo più di cinema, musica e ambiente. Conoscevo virtualmente da qualche anno Enzo G. Baldoni, una figura atipica. Pubblicitario, giornalista e traduttore di professione, blogger e volontario della Croce Rossa, era spinto da una disponibilità e da una curiosità nei confronti del mondo e delle persone che poche volte ho trovato in un essere umano.

Ogni tanto ci mandavamo qualche email, eravamo entrambi iscritti alla Zonkerlist, una mailing list da lui creata legata a Doonesbury e al mensile Linus, e seguivo i suoi blog, dove raccontava dei suoi viaggi per il mondo. Enzo viaggiava per capire meglio cosa stava succedendo in quel posto o in quell’altro. Era stato a Timor Est, in Messico, a Cuba e in Colombia e, proprio nell’agosto di vent’anni fa, si preparava per andare in Iraq.

L’Iraq di vent’anni fa era un casino: era appena finita la seconda guerra del Golfo, il Paese era frammentato, diviso e pericoloso. Soprattutto, allora come oggi, in Iraq c’era tantissima sofferenza umana, dovuta a decenni di regimi, guerre e conflitti di ogni genere.

Gli scrissi un’email, chiedendogli se gli andava di mandarci qualche testimonianza da laggiù. Rispose con entusiasmo e così, il 9 agosto, registrammo la prima delle Cartoline da Baghdad, così avevamo deciso di chiamarle.

In quei giorni Enzo Baldoni teneva contatti con la sua famiglia, con il giornalista (anch’esso in Iraq) Pino Scaccia, con la redazione di Diario, per cui scriveva, con la blogger Daniela Ceglie, me e pochi altri. L’ultima volta che l’ho sentito, chiamandolo da casa, era il 16 o 17 agosto del 2004. Ero preoccupato perché si era lussato una clavicola, ma mi aveva rassicurato. Stava bene e sarebbe partito per Najaf, che era appena caduta, insieme a una missione della Croce Rossa.

Il 21 agosto del 2004 Enzo Baldoni venne rapito da un’organizzazione affiliata ad al-Qaeda, l’Esercito islamico dell’Iraq e il 26 agosto venne ucciso dagli stessi terroristi. In occasione del ventennale della sua scomparsa, ho deciso di rendere disponibile l’ascolto delle Cartoline da Baghdad anche qua, dato che il sito di Radio Città del Capo non è più online.

9 agosto 2004
Com’è oggi la vita in Iraq? Cosa succede nelle strade e tra la gente? Da oggi vi proponiamo una serie di cartoline da Baghdad, raccontate per noi da Enzo Baldoni, giornalista freelance, che ha scritto per Repubblica, Diario e Linus. Baldoni è giunto da qualche giorno nella capitale irachena e gli abbiamo chiesto che situazione ha trovato al suo arrivo.


10 agosto 2004
Siamo al secondo appuntamento con le cartoline da Baghdad. Direttamente dalla capitale irachena sentiamo Enzo Baldoni, giornalista freelance, che ci dà una testimonianza di una città sempre molto tesa ma in cui si cerca comunque di trovare della normalità. Quando l’abbiamo chiamato si trovava
in macchina, appena fuori da Baghdad.


11 agosto 2004
Il nostro appuntamento di oggi con le cartoline da Baghdad è un po’ diverso dal solito. Enzo Baldoni, il giornalista freelance che sentiamo quotidianamente dall’Iraq, è andato infatti a Falluja, cittadina ad ovest della capitale. Sentiamo cosa ci ha raccontato questa mattina, quando l’abbiamo raggiunto telefonicamente, sulla strada di ritorno verso Baghdad.


12 agosto 2004
Anche oggi vi proponiamo una cartolina da Baghdad. Enzo Baldoni è tornato dalla sua breve visita a Falluja, ed è andato a visitare l’ospedale della croce rossa italiana a Baghdad.

Dagli archivi: Cymbals Eat Guitars – LOSE

Cymbals Eat Guitars – LOSE (Barsuk)

7,5

L’inizio del terzo album della band di Staten Island ci riporta al bell’esordio del 2009 Why There Are Mountains: “Jackson”, infatti, ricorda molto “… And the Hazy Sea”, per la sua lunghezza, per come gioca con dinamiche e cambi armonici, per l’epicità diffusa.

Ma in questo nuovo LOSE i Cymbals Eat Guitars semplificano le cose senza diminuire di potenza, e trovano un equilibrio tra strutture classiche e pezzi più articolati; “Chambers” ne è la prova, combinando un incipit molto radiofonico (basso pulsante inquadrato sulla batteria, sui quali si adagiano accordi di chitarra), con uno svolgimento assai poco banale e con dei testi intensi e centrati sul tema ricorrente del disco: la perdita della giovinezza.

Che ce ne parli un venticinquenne potrebbe sembrare quanto meno bizzarro, ma Joseph D’Agostino racconta dell’adolescenza nel New Jersey, di amici scomparsi, di bulli puniti dal fato, del seppellimento di animali domestici e di violenze familiari con una naturalezza e un’intensità lodevoli.

Se in “XR” compare una fisarmonica alla Dylan, i riferimenti musicali ricorrenti sono Pavement, Modest Mouse, Shins, Elliott Smith e Death Cab for Cutie, nomi che, dopo l’ascolto di LOSE, appaiono ancora più “classici” di quanto già non siano: i Cymbals Eat Guitars ci ricordano che, per quanto poco utili siano le etichette, può avere ancora senso parlare di un “canone” dell’indie-rock-statunitense.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cold Specks – Neuroplasticity

Cold Specks – Neuroplasticity (Mute)

6,5

Sulla carta i Cold Specks sono la band dove milita Al Spx, una canadese ventiseienne che vive a Londra: in realtà i Cold Specks sono (almeno, in buona parte) la voce di Al Spx, scelta da Moby per il primo singolo di Innocents e da Michael Gira per “Bring the Sun”, che compare nell’ultimo To Be Kind degli Swans. E come dare loro torto?

Già dal primo disco I Predict a Graceful Expulsion ci eravamo accorti dello splendore del suo timbro, vibrante, sensuale, ma non stucchevole: rispetto al debutto voce e atmosfere si fanno più cupe, più doom che soul, per riprendere una definizione spacciata dalla stessa Al Spx, alla quale si potrebbe accostare il neologismo (un po’ cacofonico, a dire il vero) gothpel.

Le canzoni sono spesso interessanti, anche grazie ai contributi di Gira alla voce (in “A Season of Doubt” e “Exit Plan”) e del trombettista Ambrose Akinmusire (che aveva chiamato Al Spx per il suo The Imagined Savior is Far Easier to Paint), che contribuisce a spargere inquietudine e mistero. È forse il disco nel suo complesso che, alla lunga, può stancare: la noia faceva capolino anche nel lavoro precedente, ma per quanto l’attenzione dell’ascoltatore si mantenga più alta e costante, i cambi di tempo, gli arrangiamenti spesso non banali e gli ospiti illustri non bastano per fare di Neuroplasticity il grande album che poteva essere.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Willis Earl Beal – Experiments in Time

Willis Earl Beal – Experiments in Time (CD Baby)

5,5

La parabola di Willis Earl Beal è una delle tante variazioni del Grande Romanzo Americano. Qualche mese nell’esercito, il ritorno nella natia Chicago, il trasferimento ad Albuquerque, che il nostro riempie di bigliettini con un numero di telefono: chi lo chiama sente alla cornetta una delle canzoni del già nutrito repertorio del musicista.

Dopo una prima raccolta per il leggendario Found Magazine, la XL, tramite la sussidiaria Hot Charity, pubblica Acousmatic Sorcery nel 2012: un debutto lo-fi che manda in solluchero molti. Il passo successivo è un buon disco “ripulito”, Nobody Knows, con featuring di Cat Power. L’inizio di una carriera “normale”? No, perché Beal, dopo un paio di ep e altrettante cancellazioni di tour, molla la XL e fa uscire questo disco che, dice lui, “potete anche ascoltare a cena senza che vi disturbi”.

E in effetti, be’, non disturba affatto. I dodici pezzi, basati per lo più su voce e synth, formano una sorta di nebbiosa e ininterrotta confessione, tra il crooning, il blues e il soul: il bel timbro di Beal e qualche passaggio più riuscito, però, non sono sufficienti a respingere noia e distrazione che affiorano spesso durante l’ascolto del disco. Peccato, perché Beal ha talento e il minimalismo gli si addice: come da titolo, prendiamo questo album come un esperimento non riuscito e attendiamo il prossimo lavoro.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di ottobre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: John Garcia – ST

John Garcia – John Garcia (Napalm Records), 25 luglio 2014

7

Ho ascoltato John Garcia nell’ora più afosa di una delle giornate più infuocate di giugno, amplificando l’effetto del disco stesso. Fin dalla traccia di apertura “My Mind”, infatti, l’inconfondibile voce dell’ex-Kyuss (ma anche Unida, Hermano, Slo Burn, fino all’ultima incarnazione Vista Chino) mette addosso il caldo soffocante, massiccio e allo stesso tempo rassicurante del deserto statunitense. Luoghi che, a dire il vero, non ho mai visto, ma che ormai associo a certi suoni di chitarra e, appunto, al timbro vocale di Garcia sin da quando ho sentito per la prima volta Welcome to Sky Valley, vent’anni fa.

Potrebbe sembrare noioso parlare ancora dei Kyuss, ma per quanto nel disco ci siano tentativi di addentrarsi più decisamente in territori blues (“The Blvd.” e soprattutto “Confusion”, per sola chitarra) e l’inaspettata sei corde pulita di Robby Krieger dei Doors nella conclusiva “Her Bullets Energy”, Garcia e soci (Danko Jones, Tom Brayton, Mark Diamond e, uh!, Nick Oliveri) battono ancora (bene) i sentieri tracciati agli inizi degli anni ’90. Per chi le ha amate, percorrere quelle strade è una piacevolissima e torrida avventura ancora oggi. Chi, invece, non le ha mai potute sopportare, be’, continuerà a lamentarsi del caldo, del sole accecante e della sabbia nelle scarpe, mentre noi faremo su e giù con la testa, felici e sballati.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: To Rococo Rot – Instrument

To Rococo Rot – Instrument (City Slang), 21 luglio 2014

8,5

Altri ascolti raccomandati
To Rococo Rot – The Amateur View
Arto Lindsay – Encyclopedia of Arto
The Notwist – Neon Golden

La mutua ammirazione tra Arto Lindsay e la band strumentale tedesca nasce qualche anno fa: il musicista rimane colpito dal primo live newyorkese del trio al punto di scrivere, qualche tempo dopo, un elogio dei To Rococo Rot sull’edizione tedesca di Electronic Beats, in occasione della ristampa di Veiculo, The Amateur View e Music is a Hungry Ghost, lodando l’approccio sperimentale del gruppo.

E, quattro anni dopo Speculation, la band chiede a Lindsay di suonare e cantare nel nuovo album: la richiesta è di lavorare insieme esclusivamente in studio, al momento, creando le melodie da zero. Un azzardo, certo, ma è impressionante quanto il contributo di Lindsay si amalgami dolcemente con i luoghi sonori creati da Robert Lippok alla chitarra e elettronica, dal fratello Ronald alla batteria e da Stefan Schneider al basso.

“Many Descriptions”, la traccia di apertura, è sintomatica del proverbiale (e spesso mancato) equilibrio tra riconoscibilità e innovazione, chimera di tanti, sul quale si regge tutto Instrument. Perché è come se la voce e la chitarra di Lindsay fossero una sorta di tassello mancante: qualcosa che dà ancora più forza ai brani, pur preservandone la paternità. Il musicista tuttavia non può essere considerato solo uno special guest: basti pensare a come, nel finale di “Classify”, il suo cantato si spezzetti in sillabe e sussurri diventando un effetto nelle mani di Robert Lippok, o alla conclusiva “Longest Escalator in the World”, dove la sua chitarra porta l’ascoltatore a vette davvero toccanti.

Tuttavia anche quando i tre rimangono “da soli”, Instrument procede benissimo: ci sono momenti più inaspettati e uptempo, come “Pro Model”, che sfrutta piccoli beat e sequenze digitali, e la quadratissima “Spreading the Strings”, costruita su una cadenzata e minimale melodia al pianoforte. “Down in the Traffic” e “Baritone”, dal canto loro, non ci fanno scordare la provenienza germanica del gruppo, che non è mai parso così fresco e innovativo da diversi anni a questa parte.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Acid – Liminal

The Acid – Liminal (Infectious Records), 7 luglio 2014

7

Il segreto è stato svelato dopo l’uscita dell’ep che ha preceduto questo album di debutto: ormai si sa che dietro a The Acid ci sono Ry X (alla voce, spesso sussurrata, tra il confidenziale e l’inquietante, autore di un buon ep, Berlin), Adam Freeland (quello di “We Want Your Soul”) e Steve Nalepa (professore di “music technology” e compositore lui stesso, recentemente definito da LA Weekly come “the professor of party”). Potrebbe sembrare i tre siano stati messi apposta insieme in un’operazione quasi da reality: ma la Infectious non è una major e i tempi di certo non sono adatti a trovate del genere.

Certo, la ricerca dei suoni, dei beat, la commistione à la alt-J (non a caso compagni di etichetta) di elettronica e analogica, il vocoder e l’autotune sdoganati da James Blake che ritornano… Insomma, il sospetto che si tratti di qualcosa costruito a tavolino c’è, ma c’è anche la buona musica del trio, che forse non supererà la prova del decennio, ma che per ora è qualcosa di interessante da ascoltare. La chitarra acustica si scambia con i synth nel ruolo da protagonista di alcuni brani (“RA” e “Basic Instinct”), la voce di Ry X si moltiplica in “Red” e i pezzi (spesso cupi e misteriosi) sono sporcati da rumori e ruvidezze, come in “Ghost”. Un debutto forse per gioco, che magari non avrà seguito, d’accordo: ma intanto perché non goderne?

Recensione pubblicata originariamente sul numero di luglio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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