Francesco Locane

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Dagli archivi: La Batteria – ST

La Batteria – ST (Penny Records)

6

la batteriaEmanuele Bultrini, Paolo Pecorelli, Stefano Vicarelli e David Nerattini sono musicisti romani con un bel curriculum alle spalle: i primi tre suonano anche ne La Fonderia che, come questa neonata band, è principalmente strumentale. La Batteria si rifà alla musica italiana da film e da library prodotta tra la fine dei ’60 e i primi anni ’80: un periodo ultimamente più che sfruttato, a cui i musicisti guardano con fin troppo rispetto. Strumentazione d’epoca, progressioni armoniche filologicamente corrette e, tutto sommato, poche sorprese. Colpiscono “Chimera”, traccia iniziale con echi folk, e “Formula”, che si apre e si chiude con un synth quasi carpenteriano. Speriamo che le influenze più variegate di cui parla il comunicato stampa erompano con più coraggio in una seconda prova.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di febbraio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Dodos – Individ

The Dodos – Individ (Morr Music)

7

Al sesto disco i Dodos aumentano la posta: le percussioni di Logan Kroeber sono più variegate, massicce e incalzanti, le chitarre di Meric Long passano sovente attraverso pedali, si riproducono in loop, costruiscono strati spessi e densi. Alcuni brani del precedente Carrier avevano questa caratteristica, ma erano immersi in una generale leggerezza che abbiamo amato sin dal secondo disco del duo di San Francisco, quel Visiter che rimane tuttora la loro prova migliore. In Individ le proporzioni sono rovesciate a partire dalla lunga canzone che apre il lavoro, “Precipitation”: giochi sul pedale del volume, linee di chitarra una sull’altra, la voce di Long che raddoppia, poi un’acustica, in un crescendo lungo e sentito fino a un deciso cambio di tempo.

Si prosegue in maniera quasi marziale fino al quarto brano in scaletta. “Competition”, che insieme a “Goodbye & Endings” ha avuto il compito di anticipare l’album, è il trait d’union con il suono tipico dei Dodos: il ritmo rallenta un po’ a metà album, i suoni si semplificano. Il resto (recita il comunicato) “suona come essere all’interno di un tornado”, proprio quello che si allontanava dall’uomo raffigurato nella copertina del lavoro precedente. Qui la copertina è stracolma di colori e linee (e il tratto ricorda curiosamente quello di Fellini). Insomma, un buon disco, per quanto un lavoro di cesello avrebbe permesso risultati ancora migliori.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Zun Zun Egui – Shackles’ Gift e intervista a Kushal Gaya

Zun Zun Egui – Shackles’ Gift (Bella Union)

7

Altri ascolti raccomandati
Zun Zun Egui – Katang
Melt Yourself Down – S/T
Talking Heads – Fear of Music

Anche nel secondo disco gli Zun Zun Egui spostano il baricentro della loro musica lontano dall’Europa, pur non dimenticandosi della terra britannica che li ha fatti incontrare. Kushal Gaya (voce e chitarra), Matthew Jones (batteria e percussioni), Yoshino Shigihara (tastiere), e i nuovi acquisti Adam Newton (basso) e Stephen Kerrison (chitarra) riversano nelle nove tracce dell’album tantissime suggestioni, come era accaduto nel primo disco, ma con maggiore maturità e consapevolezza. Da un lato c’è un passo avanti rispetto a Katang (Bella Union, 2011), dall’altro Shackles’ Gift soffre di alcuni momenti di pesantezza.

Le chitarre sono in primo piano: spesso tendono al noise, con corde tiratissime e suoni distorti appoggiati su ritmiche massicce e serrate, che vagano tra sapori tropicali, quadrature rock e fantasie venate di dub e “irregolarità” africaneggianti. Si sente la mano del produttore Andrew Hung dei Fuck Buttons nell’uso dei tempi e, chiaramente, quando compare l’elettronica (vedi il finale di “The Sweetest Part of Life”). Tuttavia il vero motore della band è il dotatissimo leader Gaya, in prima linea anche nei Melt Yourself Down. Il musicista, nato e cresciuto in Madagascar, ha fatto tesoro della prospettiva unica che si acquista tornando nei luoghi della formazione dopo avere vissuto altrove per diversi anni, nel suo caso tra Londra e Bristol (vedi intervista a pag. XX). La distanza ha permesso di scoprire nuove storie del suo popolo e nuove musiche, prontamente incluse nell’album.

“Soul Scratch” è una canzone seggae, un neonato genere musicale dell’arcipelago tra Africa e Asia che mette insieme la sega (musica popolare mauriziana) e il reggae. “Late Bloomer” è uno degli episodi più trascinanti del disco, dove la matrice tropicale è in primo piano. Tuttavia ci sono episodi decisamente più “occidentali”, come “Ruby” o il secondo singolo “African Tree”, dove, a dispetto del titolo, tornano momenti quasi stoner che facevano parte anche del ricettario dell’esordio.


Il debutto degli Zun Zun Egui, Katang(Bella Union, 2011), è stato uno dei dischi più interessanti usciti di recente. Inclassificabile dal punto dei vista dei generi, mischiava rock, dub, afro, indie con risultati sorprendentemente omogenei e personali: la band portava l’ascoltatore in lande riconosciute e riconoscibili solo in apparenza. Le canzoni erano il risultato di ingredienti noti, ma mischiati in maniera sapiente al fine di dare risultati inediti e freschi. Ecco un aggettivo ambitissimo che la band, originariamente di base a Bristol, può fare suo senza discussioni: un obiettivo raggiunto in maniera assai poco scontata, considerando che la pratica del crossover è ormai comune da tempo nella musica in toto. Eppure gli Zun Zun Egui sono riusciti a mescolare in maniera convincente la musica ascoltata e vissuta dai singoli componenti del gruppo, cosmopolita come non mai. La pratica è stata mantenuta nel nuovo album con qualche abilità in più dettata sicuramente dalla produzione di Andrew Young, metà dei Fuck Buttons, così come dall’esperienza che i musicisti hanno fatto tanto insieme, quanto lavorando ad altri progetti musicali: in particolare il cantante, Kushal Gaya, fa anche parte dei Melt Yourself Down, un altro prodotto musicale di Sua Maestà Elisabetta II, ma che sa di isole britanniche così come di altre terre che i sudditi della Regina hanno raggiunto per mare, visitato e, talvolta, conquistato e soggiogato. Abbiamo parlato del nuovo disco degli Zun Zun Egui proprio con Gaya, nato e cresciuto alle Mauritius, un arcipelago di confine sperduto nell’Oceano, tra Africa e Asia, che, lo vedremo, ha influenzato molto Shackles’ Gift.

Cosa avete fatto tra la fine della promozione di Katang e la registrazione di Shackles’ Gift?
La band ha cambiato parte della formazione e ci è voluto del tempo per scegliere i nuovi membri: volevamo che il gruppo prendesse forma in maniera appropriata. Alla fine abbiamo voluto Adam Newton al basso e Stephen Kerrison alla chitarra. Ora sono membri a tutti gli effetti e scriviamo i pezzi insieme. Siamo persino andati a suonare in Vietnam e alle Mauritius, posti poco comuni per un tour, ma queste esperienze hanno davvero contribuito a plasmare il nuovo disco. Infine, per quanto mi riguarda, sono stato impegnato con i Melt Yourself Down e altri progetti.

Perché avete scelto Andrew Hung dei Fuck Buttons ? Com’è andata?
Tutto è stato abbastanza diretto, naturale. Conosco Andrew di persona, amo la sua musica e andiamo molto d’accordo. Sono stato a un concerto a Brixton, credo che tra gli altri suonasse Luke Abbott, e ho visto Andy: lo conoscevo perché eravamo di spalla ai Fuck Buttons in un tour britannico nel 2009. Abbiamo cominciato a chiacchierare prima del concerto e ci siamo raccontati i piani che avevamo per quell’anno. Ho accennato al fatto che stavamo cercando qualcuno che ci aiutasse a produrre il disco e lui ha immediatamente replicato: “Ci penso io”. Non sapevo neanche che fosse un produttore, ma per qualche ragione mi piaceva tantissimo l’idea che supervisionasse le registrazioni. La sua presenza è davvero bella: è discreto, ma può essere molto diretto in ciò che pensa. Quindi ci siamo incontrati un po’ di volte e questa sensazione positiva si è fatta ancora più forte: alla fine ci siamo detti “Sì, prenotiamo qualche sessione in studio”.

Con quali basi di partenza avete iniziato a lavorare al nuovo disco?
Eravamo alle Mauritius per i concerti a cui ho accennato e, in un giorno libero, ho incontrato questo vecchio pescatore, col quale ho cominciato a parlare della musica del posto. Mi ha raccontato una storia meravigliosa, spiegandomi che una parte della nostra musica locale era stata creata dai lavoratori delle piantagioni ascoltando il rumore che facevano le canne da zucchero nello zuccherificio quando venivano spezzate, e usando il ritmo della fabbrica per una nuova forma di musica. Per me era incredibile: ho vissuto per tanto tempo là, ma non avevo mai saputo nulla di ciò. Ho pensato quindi che si trattasse di una delle più antiche forme di musica industriale… Questo mi ha molto influenzato per dare forma al suono del nuovo disco. Volevamo anche che il disco avesse delle controparti dub e che il tutto fosse molto ritmato. Il nostro scopo era che gli oggetti suonassero come macchine e noi, invece, che apparissimo molto umani. Ci ha aiutato notevolmente in questo un tipo di motore, il Fairbanks Morse Diesel [un motore a due pistoni sviluppato negli anni ’30 e nei decenni immediatamente successivi, montato su sottomarini elettrici e nucleari statunitensi, NdR]. Inoltre, scrivere i testi e avere per le canzoni un punto di partenza diverso da un riff di chitarra sono state sfide sulle quali ho voluto mettermi alla prova. Volevo essere più concentrato e preciso in quello che stavo facendo, e questo processo è ancora in corso: non vedo l’ora di scrivere nuove canzoni!

Il disco suona molto più “British” del precedente: è una scelta conscia?
Davvero? Oh, be’, non so se si tratti di una scelta precisa, non ho mai pensato “Devi suonare più britannico…”. Ormai è tredici anni che vivo nel Regno Unito, quindi penso di avere raccolto, strada facendo, elementi che hanno un suono “British”… Sicuramente da un punto di vista vocale e dei testi. Tre componenti della band sono britannici, quindi era destino che il disco suonasse così. Ma, in fondo, in cosa consiste quest’identità? C’è un tale flusso e movimento nel Paese e specialmente a Londra, dove vivo da due anni e, a essere sincero, la società mista è il pane quotidiano, una cosa bellissima. Non sarei sorpreso se nel futuro il Primo Ministro britannico fosse cinese o indiano: il suonare britannici è qualcosa che si definisce e ridefinisce tutto il tempo, è un processo di improvvisazione infinito.

Ho notato un maggior peso delle chitarre nella composizione delle canzoni, con suoni che talvolta si avvicinano al noise. Cos’è cambiato nei nuovi pezzi da questo punto di vista?
Con Stephen [Kerrison, nuovo acquisto della band, NdR] ci siamo divertiti a lavorare con le chitarre e a fare esperimenti con suoni e grane. Il suo stile è unico e si mescola molto bene con il mio: abbiamo prima pensato di lasciare una chitarra e togliere l’altra, poi di toglierle entrambe, infine di creare più dinamiche e più momenti noise. In questo disco mi sono dedicato meno alle chitarre e più al canto.

Un’altra cosa interessante è l’uso dei pieni e dei vuoti nel disco: si va dalla ricchezza di tanti arrangiamenti al minimalismo del finale. Come avete lavorato in questo senso?
Abbiamo deciso scientemente di creare spazi nel disco, non volevamo un album sempre pieno come il precedente. Penso che questo faccia parte del processo di miglioramento del nostro lavoro e della prospettiva che abbiamo adottato rispetto all’esordio. Molto è stato fatto al momento del missaggio: è lì che ci siamo resi conto che c’era un sacco di roba. Quindi ce ne siamo sbarazzati, sai, semplicemente premendo il tasto “mute” su alcune tracce per vedere come suonavano. Eli Crews, che ha mixato il disco, è stato eccezionale. Gli abbiamo anche dato carta bianca nello sperimentare con i delay tipici del dub e con alcuni effetti: cose che desideravamo da subito! Liberarsi di alcuni elementi e andare all’essenziale è stata una delle esperienze più esaltanti che abbia fatto in vita mia.

Ci sono dei temi che legano i testi del disco?
Sì, l’esplorazione della propria natura e il darle piena voce. Probabilmente il tema ricorrente è il conoscersi. Penso che il disco parli del rivolgere al meglio situazioni nelle quali pensi di essere spacciato. Ha a che fare con la sopravvivenza e con il mantenimento di un lato selvaggio in tutto e tutti. E… c’è anche una canzone d’amore! [ride]

Ancora una volta il disco è anche un bellissimo viaggio tra i generi: ce n’è stato uno su cui Shackles’ Gift si è appoggiato più di altri?
Nella band facciamo tutti rock e, l’hai notato anche tu prima, ci sono un sacco di chitarre pesanti e rumorose. Tuttavia, per quanto mi riguarda, la maloya e la sega, le musiche delle Mauritius, La Réunion, Rodrigues e del Madagascar hanno inciso per sempre la mia pelle e la mia anima, al punto che affiorano comunque, in qualunque cosa sia coinvolto da un punto di vista musicale. C’è anche molto ritmo e un’attitudine dance nei pezzi.

I componenti della band vengono dai quattro angoli del mondo, ma gli Zun Zun Egui nascono a Bristol, una città molto importante, musicalmente parlando, per le commistioni che ha visto nascere. Quanto dovete alla scena musicale cittadina?
Abbiamo tutti deciso di vivere a Bristol, quindi immagino che ognuno di noi le debba qualcosa… Inoltre abbiamo avuto molto sostegno e aiuto dal pubblico e dai promoter della città, dalla Qu Junktions [agenzia musicale di Bristol. NdR], da Fat Paul dell’Exchange e prima ancora da The Croft [locali di musica dal vivo della città, NdR]. Vivendo là, inoltre, sono stato esposto moltissimo alla dance e al dub. Sebbene non siano esattamente i generi che suoniamo, andare a concerti davvero illuminanti e che ci hanno divertito sono stati fattori che ci hanno spinto a decidere di fare la nostra musica. Questo è sicuramente un modo in cui siamo stati aiutati dalla scena musicale di Bristol: se qualcosa ti spinge a creare, a suonare la chitarra e scrivere canzoni, be’, è un aiuto esterno enorme.

Parlando l’anno scorso a Londra con Peter Wareham, prima del live dell’agosto 2013 dei “tuoi” Melt Yourself Down, mi raccontò che lo stimolo per il disco d’esordio era stato l’ascolto di un cd della Rough Trade di world music. Cosa pensi del recente nuovo interesse da parte di musicisti britannici ed europei della musica che arriva da quel continente?
Mi sa che si stanno rendendo conto che c’è qualcosa di diverso al mondo, oltre alla cassa in quattro… Sebbene anche io ami la techno e la musica elettronica, per me è diverso: io guardo alla musica europea da una prospettiva “afro-asiatica”. Ho avuto un rinnovato interesse per la musica europea. Europa e America dominano il mondo, nei termini di prodotti culturali e della loro distribuzione, ma penso che in futuro si sentiranno sempre di più stili musicali europei visti attraverso prismi africani o asiatici. Non solo: penso che presto europei e americani sperimenteranno un cambio nei ritmi e nelle melodie, ma non attraverso qualche orrida fusione. E infine: credo che la musica sia qualcosa di universale e unificante; queste definizioni non fanno altro che cercare di spiegare la naturale evoluzione che il pianeta vive oggi.


Melt Yourself Down
Nati esattamente due anni fa, inglesi, di base a Londra. Due sassofoni, basso, batteria, percussioni ed elettronica. Nel curriculum dei membri della band, nomi come Heliocentrics, Zun Zun Egui, Acoustic Ladyland, Polar Bear, Sons of Kemet, Mulatu Astakte, Hello Skinny, Transglobal Underground. Anche solamente passando in rassegna questa scarna carta di identità è chiaro che i Melt Yourself Down fanno della mescolanza una cifra stilistica. L’ha dimostrato benissimo l’esordio del 2013, un fulminante self-titled da poco ristampato con un bonus disc che contiene un concerto, registrato l’anno scorso alla New Empowering Church di Londra. Ed è proprio nella dimensione live che la band raggiunge il suo massimo: i Melt Yourself Down dal vivo sono una forza mostruosa, nel vero senso del termine. Producono uno spettacolo che parte da strumenti, suoni, elementi noti per portare l’ascoltatore alla meraviglia assoluta, allo stupore di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto. In questi tempi di rimasticazione continua, una novità. Così come è inusuale il recupero, da parte del leader Peter Wareham, della musica nubiana, appartenente alla cultura di un popolo che sta scomparendo, ma la cui stirpe regnò in Egitto per secoli. Quel tipo di ritmiche e timbri, allargati alla musica nordafricana in senso ampio, è il “germe” che si trova nella decina di canzoni che finora i Melt Yourself Down hanno prodotto. La band ci ha detto che sta registrando il secondo disco: lo attendiamo con ansia.

 


Contenuti pubblicati originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Liam Hayes – Slurrup

Liam Hayes – Slurrup (Fat Possum)

6,5

Liam Hayes - SlurrupDa vent’anni Liam Hayes sperimenta con il pop e la forma canzone, talvolta aderendo ai suoi canoni, altre volte cercando delle rotture totali con i modelli di riferimento. Lo status di culto ottenuto con il nome d’arte Plush lo ha portato davanti alle macchina da presa (Alta fedeltà) e, recentemente, a scrivere la colonna sonora dell’ultimo film di Roman Coppola.

Il musicista di Chicago torna ora con un quinto disco in studio in cui una prima parte più garage (che comprende “One Way Out” e “Fokus”, i due pezzi di anticipazione dell’album) cede il posto a momenti più languidi (“Greenfield” e “August Fourteen”). Qua e là (come è frequente in Hayes) rumorismi, registrazioni di chiacchiere in studio, collage sonori che punteggiano un divertissement ben congegnato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di febbraio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Einstürzende Neubauten – LAMENT. Teatro Manzoni, Bologna, 28 novembre 2014

Più che un live, una rappresentazione musicale, che non ha paura di essere teatro e di rivolgersi al cinema dell’epoca intorno alla Prima Guerra Mondiale. Gli Einstürzende Neubauten raccontano il conflitto di un secolo fa con senso della narrazione e capacità tecnica stupefacenti. Oltre alle tracce finite in LAMENT (il disco), due bis “a tema”: “Let’s Do It a Da Da” e “Ich Gehe Jetz”.

Foto di https://ultimavisione.wordpress.com/

Un quartetto d’archi, un tastierista e cinque uomini in nero, qualcuno scalzo: ecco il cast dello spettacolo dal quale è tratto LAMENT, per chi vi scrive uno dei dischi più importanti dell’anno appena concluso. Un disco la cui musica nasce per lo spettacolo, anzi, per la prima del sei novembre scorso a Diksmuide, in Belgio: più che un “semplice” concerto, il live di Blixa Bargeld, N. U. Unruh, Alexander Hacke, Jochen Arbeit, Rudolf Moser, Felix Gebhard e Jan Tillman Schade è una rappresentazione, in cui è fondamentale il ruolo delle musiche tanto quello delle luci, così come la gestione del palco.

Il fondo è un telo bianco, davanti al quale viene messo in scena il racconto tragico e spietato del primo conflitto mondiale. Gli EN, insieme a musicisti scelti di volta in volta nei Paesi in cui il tour ha fatto tappa, ci rendono partecipi della costruzione dello spettacolo: non c’è quasi backstage e quindi i laminati metallici, i tubi, le latte e le catene, da sempre nell’arsenale del gruppo, sono visibili nelle mani dei tecnici che agilmente costruiscono “il Leviatano”.

Foto di https://www.musiculturaonline.it/

È così che Bargeld, in più di un’intervista, ha chiamato l’insieme di metallo percosso, suonato, strofinato, strisciato e sbattuto: è il rumore della guerra, la “Kriegsmachinerie” con cui comincia lo spettacolo, un fragoroso e lancinante crescendo, parallelo all’aumento delle spese belliche che gli Stati approvarono negli anni antecedenti al 1914. LAMENT (tanto il live quanto il disco, ovviamente) rende esplicito il suo carattere narrativo (più che didattico o didascalico): Bargeld introduce diversi pezzi con brevi spiegazioni, spesso venate di nera ironia, talvolta enciclopedicamente precise nel fornire origini e criteri compositivi dei brani.

Il primo è strumentale, ma le parole appaiono su cartelli: in questo caso si tratta di didascalie che ci hanno ricordato, più che i corsivi sotto le foto di un libro di storia, quelle di un film muto. LAMENT è una rappresentazione musicale e teatrale, che talvolta tende al cinema dell’epoca: quando le luci diventano blu o seppia, pare di essere tornati ai viraggi nei film degli anni che si srotolano davanti a noi in un 4/4 a 120 bpm (“Ogni giorno è un battito”, spiega Blixa), ritmati dal filo spinato (percosso e usato come unico accompagnamento in “In De Loopgraaf”), segnati dal ticchettare di stampelle (elettrificate e rese strumenti in “Achterland”), riprodotti su vecchi acetati.

Questo live degli Einstürzende Neubauten, magistrale da ogni punto di vista, è un’esperienza tra le più intense che una band abbia creato negli ultimi tempi.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: AA VV – The Art of McCartney e The New Basement Tapes – Lost on the River

AA VV – The Art of McCartney (Arctic Poppy)

5

The New Basement Tapes – Lost on the River (Harvest)

7

Due tributi diversi, nei modi e nei risultati, per omaggiare due figure mitologiche. Deludente “The Art of McCartney”, prodotto da Ralph Sall, in cui una trentina di musicisti si cimentano con una selezione di successi di Macca, dai Beatles agli anni recenti. La scaletta è scontata, ma maggiormente preoccupante è che due terzi delle canzoni sembrino una sorta di karaoke di lusso, più divertente sulla carta (“Ehi, Alice Cooper canta Eleanor Rigby…”), che nei fatti (“… uguale all’originale”). Compare ogni tanto un barlume di interesse, non tanto negli arrangiamenti, per lo più pedissequamente filologici, quanto nelle interpretazioni vocali: il meglio arriva sul finale con le ruvidezze di Alain Touissant e Dr John, e le tinte black di Dion e B. B. King, a ricordarci quanto certi suoni abbiano educato i quattro di Liverpool. C’è anche Bob Dylan, che rifà (abbastanza svogliatamente) You’ve Got to Hide Your Love Away, pubblicata in origine esattamente un anno dopo il suo primo incontro con i Beatles.

Il legame tra i due titoli di cui parliamo finisce qua; infatti “Lost on the River” è la messa in musica di alcuni testi scritti da Dylan coevi ai Basement Tapes, al buen retiro tra Woodstock e dintorni del 1967. I manoscritti sono stati consegnati dal loro autore a T-Bone Burnett, che ha preso in mano il progetto come produttore. Insieme a lui, nientepopodimeno che Elvis Costello, Jim James (My Morning Jacket), Marcus Mumford (Mumford & Sons), Rhiannon Giddens (Carolina Chocolate Drops), Taylor Goldsmith (Dawes) e un cameo alla chitarra di Johnny Depp. Il risultato è piacevole, non sorprendente, ma con un pugno di canzoni che colpiscono, soprattutto quando è Costello a cantare i versi (musicalmente efficacissimi) perduti e ritrovati.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Einstürzende Neubauten – LAMENT

Einstürzende Neubauten – LAMENT (BMG)

8

Altri ascolti raccomandati
Einstürzende Neubauten – Faustmusik
Mike Patton – Pranzo Oltranzista
Laibach – Volk

“LAMENT”, ammoniscono le note del disco, è la documentazione di un’installazione-spettacolo legata ai temi della Prima Guerra Mondiale messa in scena in Belgio in questi primi giorni di novembre. Tuttavia, anche “solo” ascoltata, l’ultima pubblicazione dei tedeschi travolge da subito per la potenza espressiva: Kriegsmachinerie, “La macchina della guerra” è un fragore metallico crescente, puro rumorismo Neubauten, sì, ma anche la “corrispondenza sonora” dell’aumento di spesa per gli armamenti dei Paesi poco prima dell’inizio delle carneficine.

E che dire dei tubi in Der 1. Weltkrieg (Percussion version): suonano secondo la rappresentazione matematica dello scorrere quotidiano del primo conflitto mondiale, ritmando la voce di Blixa Bargeld che snocciola nomi e date delle entrate in guerra degli attori dell’epoca. “LAMENT”, però, non è cerebrale, né didascalico: gli Einstürzende Neubauten compongono una narrazione originale, palpitante e visibile, quasi teatrale del conflitto tramite canzoni più canoniche e rielaborando composizioni di altri.

Esempio perfetto è il nucleo centrale dell’album, da cui il lavoro prende il titolo: nella prima parte riduce all’osso il canone del “lamento”, con le due parole “Macht” e “Krieg” che si ripetono ossessivamente, per poi tornare ai rumorismi della “Spirale Discendente” della seconda parte. La conclusione è toccante: una rielaborazione di un mottetto del 16° secolo, sulla quale poggiano registrazioni d’epoca finora inedite di prigionieri di guerra che recitano, ognuno nella sua lingua, la parabola del Figliol Prodigo.

E ci sono bellissime cover di brani pre-jazz di un plotone di soldati afroamericani, del classico folk antibellico Where Are All the Flowers Gone, di un misconosciuto pezzo di cabaret dai toni pseudofuturisti che arriva dalla Lipsia del 1920 (in cui viene nominato per la prima volta “pubblicamente” Hitler)… “LAMENT” è una continua scoperta, un viaggio appassionante, complesso e stratificato; un’opera scura e sardonica che ha la forza e il coraggio di lambire i confini della riflessione storica e filosofica sulla Guerra e, quindi, sull’Uomo.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Mark Kozelek – Sings Christmas Carols

Mark Kozelek – Sings Christmas Carols (Caldo Verde)

Tranquilli, potete ascoltare questo disco con la famiglia riunita intorno all’albero: neanche alla fine, quando un pianoforte accenna a “Jingle Bells”, qualcuno viene mandato a quel paese. Il titolo del disco di Natale di Mark Kozelek (Sings Christmas Carols), è veritiero: si va da “O Christmas Tree” a “Silent Night”, arrangiate quasi tutte per chitarra e voce, con il canto inconfondibile del musicista, ma senza deviazioni sostanziali dagli originali. “Tra tutti i Kozelek del mondo, tu sei il più Kozelek di tutti, Mark”, si sente in una cover tratta da uno speciale natalizio dei Peanuts. Una briciola di ironia, forse l’ultima che il musicista ha da spendere, dopo l’acrimonia sparsa generosamente negli ultimi mesi. A Natale siamo tutti più buoni?

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Twilight Sad – Nobody Wants To Be Here and Nobody Wants To Leave

The Twilight Sad – Nobody Wants to Be Here and Nobody Wants to Leave (Fat Cat)
6

Il quarto LP dei Twilight Sad arriva dopo un anno in cui il cantante e autore dei testi James Graham si è trovato nel tipico momento di riflessione, con annesse domande esistenziali: il “fermarsi per ritrovarsi” si è concretizzato in questo “Nobody Wants to Be Here and Nobody Wants to Leave”, registrato negli studi dei Mogwai. L’idea era quella di rappresentare le anime musicali espresse in dieci anni di carriera su disco e dal vivo: ecco quindi le scelte di autoprodursi, di usare anche in studio il fonico live Andrew Bush e di affidare il missaggio a Peter Katis, come era accaduto per il debutto “Fourteen Autumns & Fifteen Winters”.

Meno metaforici del solito, in particolare nella chiusura Sometimes I Wished I Could Fall Asleep, i versi di Graham parlano di allontanamenti, dolori, amori più o meno strazianti: il tutto cantato con passione (e arrotamento) tutto glasvegiano. L’altro membro fondatore, Andy MacFarlane, mette troppo spesso le chitarre da parte (alla My Bloody Valentine, ma lontane nel mix nella title-track), per lasciare spazio a synth talvolta dozzinali. I richiami ai Cure più grigi e brumosi sono evidenti in It Was Never the Same e i primi estratti del disco (There’s a Girl in the Corner e Last January) sono interessanti; tuttavia la cupezza di brani come In Nowheres non toglie l’impressione che gli scozzesi, questa volta, siano meno efficaci e interessanti del solito.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di novembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: The Experimental Tropic Blues Band – The Belgians

The Experimental Tropic Blues Band – The Belgians (Jauneorange)
6,5

I membri della band disegnati di tre quarti, nello stile iconografico sovietico; intorno, pugni chiusi, raggi di sol dell’avvenir e… l’Atomium, il Manneken-Pis, birra, galli, cozze e patatine fritte. La copertina di The Belgians riassume lo spirito del quarto album del trio di Liegi: Dirty Coq e Boogie Snake (chitarre e voci) e Devil D’Inferno (batteria) costruiscono un disco a tema sul loro popolo: si comincia, come da copione, con l’inno nazionale (“La Brabançonne”) stravolto da elettricità e distorsioni (ma non siamo dalle parti dell’illustre precedente hendrixiano), si finisce con la cupa ed elettronica “Belgians Don’t Cry”. In mezzo canzoni che, tra rock’n’roll, garage e surf, parlano (male) del Paese “grande quanto un coriandolo” (cito dal comunicato stampa) e dei suoi abitanti.

L’Experimental Tropic Blues Band non fa sconti: racconta di uomini soli che si vomitano addosso nel sonno (“Belgian Hero”), del senso di impotenza nazionale (“Belgian Frustration”) e di una diffusa (tossico)dipendenza (“Weird”), fino ad avventurarsi in territori pericolosissimi, come nella ballatona folk “She Could Be My Daughter”. Non sempre focalizzato nei testi e talvolta appesantito da qualche lungaggine, The Belgians rimane un disco per lo più piacevole, che promuoviamo senza dubbio, tant’è che verrebbe la voglia di trovare un volontario che adotti questo approccio per un fantomatico The Italians…

Recensione pubblicata originariamente sul numero di dicembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

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