I Me Mine

Precious Things

—– Original Message —–

From: <lxx.sxx@sonybmg.com>
To: <me>
Sent: Friday, July 01, 2005 11:37 AM
Subject: R: intervista tori amos 3 luglio

Ciao Francesco,
ti confermo l’intervista con Tori Amos, domenica 3 luglio alle ore 16:00 presso il Music Village – Parco Novi Sad (Modena). Quando entri (troverai 2 pass stampa a tuo nome) chiedi di Keith, il tour manager: 0044-xxx-xxx.xxx.
Poi fammi sapere com’è andata…
Buon week end
L.

Il tempo degli occhiali (verdi)

Mi sono deciso a cambiare gli occhiali, dopo tanto tempo. E, incredibilmente, ho anche le idee chiare su come li voglio. Verdi. Possibilmente non grandi quanto un campo da polo. Possibilmente di plastica (cellulosa) non di metallo. Pronti? Via.
Vado dal primo ottico, completamente a caso.
“Salve, vorrei una montatura per…”
“Primo piano ascensore”, dice la commessa. Poi sorride.
Il primo piano è completamente deserto. Di occhiali verdi non c’è traccia. Ce ne sono di tutti i tipi: grandi, piccoli, da bambini, tondi, quadrati, esagonali, di metallo, carta riciclata, blu, neri, gialli, rossi. Ma verdi no. Scoprirò solo dopo perché.
Secondo ottico. Commessa bionda e stronzissima, ma molto affabile. Sorride anche lei, ma probabilmente per una forma di paresi. Le chiedo degli occhiali verdi. Me ne mostra due. E, sempre sorridendo, dice: “C’è un’offerta: ogni montatura ha lo sconto di quaranta euro.” E qui faccio il primo errore, non facendo un triplo salto mortale e donandole la mia carta di credito urlando “E’ fichissimo!”. Semplicemente, dico “Ah, bene”. E questo mi segna definitivamente agli occhi gelidi della rigida commessa. Che inizia a mostrarmi altri occhiali, ma di altri colori, in maniera graduale. Parte da un grigio verde, continua con un modello grigio, poi si gioca il tutto per tutto e mi mostra una montatura blu. Quando le faccio notare l’incoerenza cromatica, mi rivela il segreto: gli occhiali verdi escono tutti a settembre. E mi immagino piantagioni di occhiali, e la festa del raccolto, il ballo della diottria, scene bucoliche e oftalmiche, un oculista che dice “Abbiamo avuto un buon raccolto” e, come l’uomo del Monte, dice sì. A quel punto decido di cambiare strategia, e chiedo un preventivo delle lenti: che costano abbastanza da cancellare completamente il vantaggio dello sconto incredibile sulla montatura. Mi fa quindi il preventivo, io ancora non dimostro entusiasmo, e lei mi ripete, con varie formule, che ci sono quaranta euro di sconto sulle montature. Poco convinto del preventivo dico che vedrò, ripasserò, e lei mi congeda con un lapidario “Non so se li ritroverà, sa, con questo sconto…” Me ne vado, e immagino la commessa che, finalmente, si scioglie in lacrime urlando che, in realtà, il suo sogno è sempre stato fare la telefonista.
Terzo ottico. Un’altra donna, che mi confessa subito che di occhiali verdi non ne ha. Anche lei me ne mostra di tutti i colori, tirando fuori una decina di cassetti pieni i occhiali, continuando a ripetere che gli occhiali verdi escono a settembre-ottobre. “Tornerò”, dico. “Buona estate”, fa lei.
L’ultimo ottico ha un negozio scalcagnatissimo. In tutto credo abbia due o tre modelli di montatura. Ovviamente me li mostra. Nessuno di loro è verde, ma quest’ultimo negoziante non conosce il mistero della crescita ottica e non mi parla di raccolti settembrini. Già che ci sono gli chiedo quanto mi costerebbero le lenti: quaranta euro in meno di quanto le avrei pagate dalla commessa col rigor mortis. “Moh shenta”, dice lui quando gli rivelo della differenza di costo, “lei può benishimo comprare là la montatura e venir da me a fare le lenti. Oh, shono optometrishta, io, miszuro vishte e fazzo lenti ogni zorno.”
Mi immagino di tornare dalla donna dagli occhi di ghiaccio e di comprare solo la montatura. Mi sento già come se l’avessi uccisa. “Ripasserò a settembre”, dico all’optometrishta, “in tempo per il nuovo raccolto.”

"Good morning, and in case I don't see ya, good afternoon, good evening, and good night!"

Certe volte sogno ad occhi aperti di essere come Truman nel Truman Show. Immagino che tutte le persone che conosco siano comparse in un mondo del tutto artificiale, che i miei movimenti siano controllati, come il resto delle cose che faccio.
Ultimamente penso, però, che gli ascolti vadano male. Vogliono che io faccia un gesto di disperazione inconsulto, imprevisto, proprio come Truman alla fine del film. No, perché non è possibile che una delle espressioni più usate per parlare di questo referendum sia “buon senso”, che abbiano assoldato decine di comparse per darmi volantini su cui campeggiano feti et similia per non andare a votare, che Giovanni Lindo Ferretti spari delle cazzate colossali del genere.
Fate che lo show continui, datemi speranza di un mondo un po’ migliore, sebbene finto. Andate ai seggi, domani o lunedì e votate quattro sì. Altrimenti mi toccherà andarmene.

Andiamo su pe' i monti

Con il duo Spocchia vado a festeggiare la Repubblica quasi in Sudtirolo. Un gesto coraggioso, lo ammetterete. Ma non voglio lasciarvi senza un regalino, una storia interattiva (così la chiamano) che è una delle cose più belle-da-vedere che abbia notato di recente. Si chiama Hotel.
Ci si rivede domenica.

P.S. Il titolo è l’inizio (rovesciato) della canzone dei nani della Loacker. Non riesco a togliermela dalla testa. Aiuto.

Automatismi

Forse non tutti sanno che© qui a Bologna è entrata in vigore da un po’ un’ordinanza comunale che vieta, solo nel centro storico, la vendita di alcolici per asporto di qualsiasi tipo dopo le nove e il loro consumo all’esterno dei locali. Questo per evitare il degrado, parola che in questa città sta assumendo una valenza ultraterrena, e si sta spiritualizzando giorno dopo giorno. Come funziona la legge? Facciamo due esempi.
Entro in un locale, mi faccio dare una birra, esco con la birra, per stare fuori dal locale, fumarmi una sigaretta, o solo prendere un po’ d’aria. Multa. Compro una birra in un negozio dopo le ventuno. Multa al negoziante.
Ora, considerando che una delle alternative ai costosi locali che questa città offre è lo stare in una piazza a bere una bottiglia di birra, e che siamo un popolo latino, che spesso esce dopo cena, e il “dopo cena” è di solito verso le nove, l’unica soluzione è portarsi le birre da casa, avendole preventivamente comprate prima delle ore ventuno.
Certo, a meno che uno decida di non godere delle bellezze del centro storico (infatti il degrado riguarda solo il centro storico, ché non si è mai sentito parlare di “degrado della periferia”, no?).
Comunque, l’ordinanza è in vigore, ci sono state delle multe, soprattutto agli indiani e pakistani che hanno negozi di alimentari aperti fino a tardi, e delle proteste, ma per ora niente birra in piazza, ecco.

Ieri sera sono andato a farmi una passeggiata verso piazza Santo Stefano, uno dei posti più belli di questa cara città. A una ventina di metri dalla piazza sento su di me lo sguardo di una persona che sta nell’ombra, e aspetta, evidentemente, qualcuno o qualcosa. Quando mi avvicino, sento che mi dice qualcosa. Penso tra me e me che non ci sono mai stati spacciatori in quella zona, e che quest’uomo ha caratteri somatici indiani, non nordafricani.
“Scusi?” gli chiedo.
“Bira fresca. Vuoi bira fresca?”
“No grazie”, dico.
Se ce ne fosse stato il bisogno, ecco la prova che l’ordinanza comunale crei proibizionismo, o sia proibizionista. Una sua causa, come successe negli anni trenta negli Stati Uniti o come succede adesso con le droghe è la creazione di un mercato nero senza controlli. Ed è proprio per questo che non ho comprato la birra. Perché, ne sono sicuro, avrei pagato tre euro per una lattina di Hollandia appena fresca e tagliata male.

Nonolocane

Stasera la consueta trasmissioncina non va in onda. Perché… No, non è che non mi senta bene. È’ che… Le cavallette infestano gli studi della radio, che, occasionalmente, ospitano la camera ardente di una mia zia di Pinerolo, travolta da un’inondazione. No, non è proprio possibile. Mi dispiace, oh.
Quindi ne approfitto e vado al Covo al concerto degli I Am Kloot.

(Sì, lo so, sono assente e poco prolifico in questi giorni. Torno.)

Di |2005-05-19T12:24:00+02:0019 Maggio 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |3 Commenti

Lo scrittore che ride

Stamattina, andando al lavoro, mi è capitata sotto gli occhi l’ennesima intervista allo scrittore ggiovane. E ho solo aspettato il momento in cui, puntualmente, si manifestasse una qualsiasi fobia, psicosi, mania dell’intervistato. È arrivata, nel caso in questione, la claustrofobia.
E allora mi sono detto “basta”.
Basta con questo maledettismo d’accatto con i “demoni dentro che libero grazie alla mia scrittura”, scrittura che è sempre dolorosa, difficile, straziante, basta. Basta con claustrofobia, zoofilia, complessi d’Edipo/Elettra non superati, anoressie, bulimie, dipendenze varie, basta. Voglio scrittori normali. Gente che racconta storie e fa un mestiere. Un bel mestiere, per carità, ma che mestiere sia.
Insomma, avete mai sentito di un chirurgo che dice “No, sa, io per operare bene mi rinchiudo in una stanza d’albergo, sì, solo io, il paziente e l’anestesista”, oppure di un macellaio che scoppia in lacrime perché non sente bene la vibrazione del manzo per tagliare un perfetto controfiletto (il che ricorda molto le “braciole postmoderne” di alleniana memoria). O, che ne so, di un impiegato che confessa: “Sa, questa pratica proprio non riuscivo a finirla. Allora sono andato in India. Poi, sì, e guardi che bella pratica mi è venuta fuori!”
Vi immaginate che bello, ad un bar del centro, in pausa pranzo, si incontrano scrittori e altri lavoratori, e c’è chi si lamenta del capo, chi dell’editore, chi delle nuove normative europee, chi di quel passaggio del terzo capitolo che proprio non ne vuole sapere di risolversi?
Vi immaginate che bello uno scrittore che sta bene con se stesso, che gli unici demoni che conosce sono quelli di Dostoevskij, che dentro, al massimo, ha il fegato un po’ ingrossato, ma solo perché è andato di recente al matrimonio di una cugina e ha esagerato con il brasato e l’ammazzacaffè?
Vi immaginate che bello uno scrittore che ride?

P.S. Di scrittori così ce ne sono, e ne conosco anche qualcuno, eh. È solo che la tendenza deve diffondersi ancora, soprattutto tra le nuove e nuovissime generazioni.

RicordaRivoluzioni

Sento per bene solo adesso, dopo mesi dalla sua uscita, il disco d’esordio degli Offlaga Disco Pax, Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione).
I richiami musicali sono evidenti: senza sforzarsi troppo, viene subito in mente lo stile dei CCCP, quello più parlato e meno legato al punk. Ma il richiamo è solo superficiale, e non può andare più a fondo, se vogliamo guardare bene, perché sono passati degli anni importanti.

I CCCP suonano sentendo nell’aria la caduta del blocco sovietico: descrivono il mutamento in atto sotto i loro occhi, cosa difficilissima, e tentano di fissarne alcuni punti, tra un pezzo e l’altro dei loro dischi.
Gli ODP iniziano a suonare quando l’89 è passato da un pezzo. La loro operazione, quindi, è dichiaratamente un recupero della memoria, dell’Italia socialista (e quanto è difficile ormai associare il nostro paese a questo aggettivo senza pensare a Craxi bersagliato di monetine fuori dall’hotel Raphael, almeno per chi, come me, è nato alla fine degli anni ’70), dell’Emilia rossa, la stessa regione – ma decisamente non gli stessi luoghi – nella quale vivo da quasi dieci anni. Cavriago, un paese alle porte di Reggio, come capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Italiane. Cavriago e la sua via Carlo Marx, e il busto di Lenin, tuttora sindaco onorario del paese.
L’infanzia aromatizzata al cinnamon, i racconti di partigiani narrati dagli stessi partigiani, il partito comunista al 70, ma anche 80 per cento.
Gli ODP sanno che tutto questo non esiste più, non si rifugiano nel ricordo, lo evocano, con oggetti, sapori, frasi, toponomastiche, in un’operazione che non può non ricordare quella di Matteo B. Bianchi (e di altri prima di lui). E non si vergognano di usare parole come socialista, nel senso vero del termine, di chiamare la figlia del sindaco “compagna”, ma senza il sorrisetto ironico che usiamo “noialtri”, nati irrimediabilmente post.
Ma non pensiate che gli ODP siano seriosi: come tutte le persone intelligenti usano l’ironia nelle giuste dosi, quando più serve, e, prima che suonare, scrivono dei racconti bellissimi che hanno forza evocatrice per tutti. Anche per me, così lontano da tutto questo.

Penso a me, da piccolo, nella sezione del Partito comunista, in una città che rimarrà sempre e comunque democratico-cristiana, anche quando il primo di questi due termini perderà irrimediabilmente di significato. Penso a me più grandicello, che raccolgo firme nel corso della cittadina e prendo insulti, o, quando va bene, occhiatacce. Penso a me, che sogno l’Emilia cantata dai CCCP, e invece mi trovo a due passi qualcosa che sta cambiando, la Slovenia, della quale non riesco ad avere un’occhiata approfondita e critica, perché tutto è troppo veloce, rapido, e si muove al ritmo schizoide, fatto di esaltazione e depressione, delle droghe sintetiche che sono così diffuse tra i miei coetanei “di là dal confine”. Penso a me a Bologna, appena arrivato, e a come sguazzo in quello che apparentemente mi sembra un “mondo giusto”, ma che in realtà è, anch’esso, drammaticamente in fase di rapida mutazione.

Penso che, di un sacco di cose, non ho i miei ricordi, ma quelli degli altri.
Grazie, Offlaga Disco Pax, perché mi avete regalato una nostalgia di cui posso appena distinguere i contorni.

Se non conoscete gli ODP, manderò qualche loro pezzo stasera a Monolocane. In diretta dalle 2230 sulle frequenze di Città del Capo – Radio Metropolitana, o in streaming qui o qui.

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