I Me Mine

We need to talk

Ho visto di recente The Gates, sfortunata (e abbastanza scarsa) serie orrorifica della ABC. Durante tutti e tredici gli episodi, mi sono reso conto che il vero problema della cittadina-fortezza-che-nasconde-molti-segreti è che hanno bisogno di parlare. Moltissimo.

Ho costruito, quindi, questo video con le prove di quello che dico.

Di |2024-06-02T16:53:34+02:0015 Giugno 2011|Categorie: Glass Onion, I Am The Walrus, I Me Mine|Tag: , , , , |0 Commenti

Sfruttare posizioni di vantaggio per futili scopi (o dell’uso privato del mezzo pubblico)

In dieci anni e passa di radio credo mi sia scappato poche volte di usufruire dell’etere per gli affari miei: magari qualche canzone dedicata in codice a qualche fanciulla c’è stata, ma giovedì scorso non ho resistito.

Insomma, avevo al telefono Mick Harvey, un musicista eccellente, uno che “si è preso addosso il sudore di Nick Cave”, come ha detto L., la mia coconduttrice di quel pomeriggio. E allora ne ho biecamente approfittato: farsi cantare gli auguri da Mick Harvey non è cosa da tutti i giorni. Perdonatemi.

Anniversari

Oggi compio il mio trentatreesimo anno di vita, e il quinto nella casa da cui scrivo.

Per celebrare degnamente gli anniversari, il fato ha deciso che oggi inizieranno dei lavori di due mesi nel palazzo dove abito, lavori che (oltre ai rumori derivanti da demolizioni di intonaci) mi obbligano a tenere chiuse per due mesi quattro finestre su cinque che il mio appartamento ha. Chiuse col cellophane.

Aiuto.

Di |2024-06-02T17:04:04+02:009 Giugno 2011|Categorie: I Me Mine, I'm A Loser|Tag: , , , |3 Commenti

Cattività

Ultimamente mi rendo sempre più conto di quanto le persone, a volte anche quelle vicine, siano diventate scorbutiche, scortesi, ringhianti, non riconoscenti.

Persone a cui chiedi al telefono, di persona o in chat “Come va?” e hai una mezza risposta che non comprende quasi mai un “E tu?”. Persone che si sembrano vantarsi di essere cattive, di rimproverare in maniera aspra la gente, di essere dure.

Be’, andate dolcemente a quel paese. Perché non credo che sia questo tipo di atteggiamento a migliorare le cose. Si può avere un riscontro immediato, una reazione di timore (reverenziale?), un problema che momentaneamente viene spazzato via da un tono di voce scortese o aggressivo.

Ma ciò che si immette nella giornata propria e degli altri non è qualcosa di positivo.

Ora, non prendetemi per buonista, né per buddista, sarebbe un errore: tuttavia affermo fieramente di credere nella cortesia, nell’attenzione verso gli altri e quindi, in buona sostanza, nel fare un passo indietro, nel togliersi dai riflettori per osservare, umilmente e al buio, tutto il resto.

Probabilmente questo mio modo di fare non mi renderà mai ricco, potente o importante, ma statene certi: morirò felice e libero.

Libero, sì, perché credo che parte di questi atteggiamenti siano imputabili a un malessere, a una costrizione, che sia sociale, psicologica, personale o lavorativa. La bontà è la virtù dei forti, perché per dare bisogna avere. Chi non ha, ruggisce, e il rumore provocato dalla sua stessa voce gli impedisce di ascoltare gli altri.

Sono forse allegorico (ma non barocco), vecchio (ma non vintage), ingenuo (ma non naif)? Pazienza.

D’altro canto, credere nella bontà, nella riconoscenza e nel prossimo nel 2011 fa di me istantaneamente un illuso o addirittura un emarginato, o quasi, sebbene io non cerchi per nulla di raggiungere questo stato.

Mi ci trovo, talvolta, e quando tutto si fa troppo duro, ricerco nella memoria (recente o remota) i sorrisi, gli attestati di stima e d’amore che ho ricevuto. Forse non sono migliaia, ma sono certo che non siano stati estorti con urla reali o metaforiche: sono stati spontanei.

E, proprio per questo, valgono moltissimo.

Ha i baffi?

Da quando mi sono trasferito in questo appartamento, ho pensato che avrei avuto bisogno subito di alcune cose direttamente da casa dei miei, per sentirmi davvero a posto. Sono arrivato qua nel giugno 2006. Ad agosto è arrivato il mio pianoforte. Ma subito dopo è stata la volta di Indovina chi?.

Non riesco ancora a capire cosa mi affascini del gioco-in-scatola che posseggo in un’orgogliosa edizione anni ’80, in cui le facce dei personaggi non hanno ombre. Dal punto di vista grafico, dico, perché – moralmente parlando – tutti i personaggi potrebbero avere qualcosa da nascondere.

Per questo non posso fare a meno di segnalare “La vera storia dei personaggi di Indovina chi?, una chicca, la reificazione di un gioco che anche io ho fatto tante volte, ipnotizzato dal suono secco delle tessere che cadevano quando, finalmente, si azzeccava la domanda giusta.

Grazie a E. per la dritta.

Vita e viti

Un uomo deve svitare trentadue viti per aprire un pannello. Dice: “Non ha senso pensare a quante ne ho tolte o quante me ne rimangono da svitare. Quello che conta è la vite su cui lavoro ora.”

L’uomo, immortalato in Hubble, è a cinquecento chilometri dalla Terra, agganciato con dei cavi a una nave spaziale e lavora con una tuta che gli permetta di sopravvivere senza ossigeno a meno duecento gradi di temperatura per riparare una delle più grandi invenzioni dell’uomo, il famoso telescopio orbitante.

Da quando ho visto quella scena, penso alle viti che mi spettano, ma non giungo a una conclusione.

Rivivere scene di film

Una piccola vineria, all’ora dell’aperitivo. Al tavolo dietro il nostro, quattro adolescenti che chiacchierano a ruota libera: parlano di presunte stranezza nel comportamento, legate alla provenienza geografica. La parola rimbalza tra loro, quando uno esclama: “Però i veneti sono davvero assurdi.” Nessuno ribatte, lui continua: “I veronesi, poi, non ne parliamo”.

Silenzio.

“Mia mamma è di Verona”, dice uno dei quattro. Ha la faccia innocente di uno pronto allo strapazzo. Una faccia un po’ alla Trintignant.

La nostra piccola città

Sono tornato per le vacanze pasquali nella piccola città.
Nella piccola città si conoscono tutti, si beve e mangia bene a poco prezzo.
Nella piccola città qualcuno si sposa, ha figli e divorzia.
Nella piccola città si è festeggiato l’anniversario dell’Unità d’Italia e il Castello che sovrasta la piccola città è stato colorato di bianco, rosso e verde, non grazie a dei filtri posti davanti ai fari che lo illuminano sempre, ma grazie a faretti comprati appositamente, costati quanto due utilitarie e alimentati a parte. Il Castello è illuminato ogni notte, dal 17 marzo scorso.
Nella piccola città ci sono le buche nelle strade.
Nella piccola città, a Natale, hanno posato sulla piazza sotto la collina del Castello una pista per pattinare “sul ghiaccio” di plastica, che non ha visto neanche un pattinatore scivolare (con difficoltà) su di essa.
Nella piccola città i giovani bevono, fanno casino e sono “mona”. Spesso è vero.
Nella piccola città i giovani hanno delle idee che vengono stroncate sul nascere. Anche questo spesso è vero.

A pochi chilometri dalla piccola città c’è un altro Paese, dove si mangia bene e si beve bene a poco prezzo, dove si organizzano feste e simposi d’arte, dove ai giovani viene data fiducia e denaro (sebbene anche loro facciano casino), dove ogni risorsa naturale viene valorizzata, dove i servizi funzionano, dove tutti parlano due lingue: la loro e quella che si parla nella piccola città.
Sarà un caso che quando torno ultimamente nella piccola città non rinunci mai a fare una visita all’altro Paese?

Alla ricerca dell'uomo

Su questo blog si è parlato davvero di tutto, in questi sette anni abbondanti, ma mai (credo) di arte contemporanea. Questo perché chi vi scrive ne sa di arte contemporanea più o meno quanto di fisica elettromagnetica. Per evitare la possibile noia del secondo argomento, ho deciso di parlarvi oggi di arte contemporanea, e in particolare di una mostra che si è aperta al MAMbo, il Museo d’Arte Contemporanea di Bologna, a gennaio e che chiude ai primi di maggio. Quando uno dice il tempismo.

In search of… è il nome dato alla prima personale europea di Matthew Day Jackson, un giovane (ha 37 anni) e talentuoso artista americano. Tutto parte da un video, ricalcato sulla serie statunitense “In search of”, andata in onda tra il 1976 e il 1982: da quel che ho capito, si trattava di una “collana” di documentari tra lo scientifico e lo pseudoscientifico. Una specie di “Quark incontra Voyager, ma Piero Angela si distrae”, dove però il narratore era Leinard Nimoy. Comunque, una puntata creata ad hoc è parte integrante dell’esposizione: in essa si parla di civiltà perdute, di misteriosi manufatti di provenienza aliena e della scomparsa di… Matthew Day Jackson. L’artista, infatti, ha inscenato la sua scomparsa, lasciando nel suo Volkswagen abbandonato solo degli appunti e delle fotografie. Quarantotto, per la precisione, ognuna delle quali scattate in uno stato “continentale” degli USA e raffigurante una forma “umana” colta in un profilo roccioso, in una collina, su un masso.
Si comprende, quindi, che ciò che interessa a Jackson è l’indagine sull’uomo: forse per questo è uso mettere in ogni sua mostra uno scatto che lo raffigura cadavere, con una didascalia che reca l’età a cui è avvenuto il decesso, cioè quella della mostra stessa. Questo levarsi di torno può essere visto come un fare tabula rasa per ricominciare, ma anche come un modo per mettersi da parte, per osservare meglio l’uomo eliminando l’impiccio di rischiare di confondere osservato con osservante.
La ricerca di Jackson corre su diversi binari: la serie di teschi, sempre più stilizzati, di “The Way We Were”, si contrappone per essenzialità alla mediazione della conoscenza tramite manufatto della carcassa di automobile chiamata “Chariot II” o attraverso il reperto monumentale di “The Tomb”. La volontà dell’artista rimane indagare sull’uomo, sui suoi modi di vivere, di agire e di creare. Certo, l’autoironia di Jackson (e, conseguentemente, l’ironia tout court) è palese: la prima lettura rimanda quindi a un secondo livello, quello dell’ironia, appunto, spesso declinato sui concetti di falso, di commistione, di rielaborazione e di contrapposizione di elementi popolari, di massa.
Alla fine della visita qualcosa in noi è cambiato: abbiamo riflettuto su noi stessi, ci siamo visti dall’esterno, come potrebbe osservarci una civiltà aliena, appunto. Ci siamo immedesimati nell’oggetto di un possibile documentario appartenente a qualche altro mondo, in cui un presentatore ci guida alla ricerca di noi stessi.

Torna in cima