I’m A Loser

Everything in its right place

Qualcuno mi ha scritto o mi ha detto che non vedeva l’ora di leggere quanto io sarei stato goffo nel montare i mobili dell’Ikea che mi sono arrivati oggi. Ebbene, mi dispiace deludervi, ma non li ho montati io. Si sono prestati all’opera, infatti, V. e G. detto Peppino (e li ringrazio infinitamente). E si sono divertiti pure. Le persone come me, che sono poco pratiche per la maggior parte delle cose, si incazzano, perdono la pazienza e le viti. Cosa grave, tra l’altro, perdere delle viti dei mobili Ikea, perché ce n’è solo il numero strettamente necessario. Appena l’ho saputo, mi è venuta subito l’ansia. Ci sono altre persone, invece, che ci godono a creare le cose. Io ho avuto successo con il Lego, ma già il Meccano mi faceva incazzare. Tanto per dirvi che persona sono. Io, nel frattempo, preparavo la cena (niente ricetta, solo rigatoni alla salsiccia. Senza panna, ma col pomodoro. E senza semi di finocchio, ahimè, finiti).

Ma il bello è venuto dopo, quando ho dovuto pensare a rimettere a posto libricdcose da me tolti dalla stanza prima, mentre V. e G. detto Peppino giocavano, felici come bambini, con assi, viti, martelli. I cd: facile. Ma i libri? E le riviste? E gli appunti che uso per fare questo e quest’altro? Ad un certo punto ho iniziato a mettere tutto per terra. Poi mi sono seduto sul mio nuovo divanolettofuton, mi sono acceso una sigaretta e ho guardato il mucchio informe di roba. Ho pensato che non ce l’avrei mai fatta, che si sarebbero moltiplicati, gli oggetti, fino a soffocarmi. Poi li ho presi di sorpresa, e, con una certa ripresa (d’animo), li ho sistemati.

Spostare i mobili, fare queste azioni radicali di riordinamento è salutare. Un gesto che a volte serve. Quando invece lo si fa troppo spesso, è sintomo di paranoia schizoide. Sì, conviene chiamare qualcuno. Un dottore, intendo, non un arredatore. Io lo faccio poche volte, pochissime, ma a volte capita di trovare delle persone…

“Ehi, ciao, come va? Che fai?” “Ah, non mi dire. Ho spostato tutti i mobili della stanza” “Ma non l’avevi fatto una settimana fa?” “Sì, ma non mi piaceva la sistemazione. Scusa, hai da accendere?” “Ma non avevi smesso di fumare?” “Sì, vabbè” “E quella bottiglia di gin? Ma che fai, sono le due del pomeriggio…” “Vabbè, se ci siamo visti perché mi facessi la predica, torno a casa. Mi sa che metto un po’ a posto la stanza…”

E ovviamente quando si sistemano le cose, si butta. Via questo, via quello. Ci si rende conto di avere tenuto oggetti e altro che non hanno utilità. E’ liberatorio buttare via. Ma non butto mai  le cose che mi hanno scritto altre persone. Lettere, biglietti… Neanche le parole delle persone che sono passate per caso vanno buttate. Neanche quando una storia finisce malissimo. Non buttatele mai, se vi posso dare un personalissimo consiglio. Piuttosto mettetele in fondo al cassetto. In uno scomparto lontano dai sogni, mi raccomando.

The Swedish Experience

Care e cari, l’ho fatto. Con due validi accompagnatori, V. e G. (detto Peppino – se scrivevo “detto P.” non aveva senso: mi espongo alla sua querula querela), sono andato all’Ikea. Partenza prevista ore 10 a.m. Partenza effettiva: ore 10.30. Impossibile utilizzare navetta, in quanto il servizio funziona solo nel pomeriggio. Adottiamo la soluzione autobus. Risultato: viaggio lunghissimo. Vorrei farla breve, ma forse anche no.

L’autobus ci scarica non esattamente vicini al luogo magico, ma abbastanza da vedere la scritta gialla e blu troneggiare. Io ho catalogo e appunti, esattamente come viene suggerito.

Preparati.
Fai una lista di tutto quello di cui hai bisogno per la tua casa. Sarai sorpreso dalla varietà dell’offerta dei negozi IKEA. Prendi le misure degli spazi che desideri arredare. C’è abbastanza spazio nella tua macchina? Lo utilizzerai tutto!

Non ho la macchina. Ma sono pronto per l’IkeaExperience. Un solo motto: comprare solo quello che mi serve. Guardo i miei accompagnatori: sappiamo che la missione è dura. Verso le 1145 entriamo.

Dopo quindici secondi V. e G. detto Peppino sono persi a guardare degli oggetti di gomma in una grande cesta: li palpano, mormorano “costa poco” e “che carino”. Li trascino via a forza. “Abbiamo una missione”, dico loro. Permetto loro di prendere la borsa gialla (il carrello no), dei metri di carta, dei blocchetti e delle matite e andiamo avanti verso il primo obiettivo: letto nuovo, modello divano-futon. Nome: Grankulla. Con la “k”. Ma lo sapevo. Vuol dire che ci dormikkierò sopra. Appena arrivato nella zona-divaniletto i miei due accompagnatori si svelano per essere uno pessimista (V.), l’altro più accondiscendente (G. detto Peppino). I due litigano tra di loro e non mi assistono nella difficile scelta e nell’iter di acquisto. Mi rivolgo allora ad una signorina Ikea che mi dice come fare. Sono ancora lì a litigare, quando passo al secondo obiettivo: la libreria.

Ora, la libreria del vero giovane è modulare: compri i pezzi e te l’aggiusti come ti pare. Però devi calcolare prima la composizione. Per questo i gentili svedesi mettono a disposizione dei banchetti con matitine e calcolatrice. Quest’ultima è avvitata al banchetto. Vabbè che sono svedesi, ma noi siamo italiani, no? Una calcolatrice a energia solare fa gola un po’ a tutti. Ma io non ne ho bisogno. Ho già fatto i conti a casa. Quindi controllo che ci siano tutti i pezzi e seguo la stessa procedura per l’acquisto del letto. I pezzi si ritirano alla fine. Nome della scaffalatura: Ivar. Segni particolari: semplice.

Andiamo avanti. Terzo ed ultimo obiettivo: varie ed eventuali. Grucce e biancheria da letto con cuscino. La scelta delle grucce solleva un dibattito politico tra i miei accompagnatori. V. sostiene che siccome io mi sono laureato e non sono più uno studente sono diventato un lussuoso capitalista spendaccione, un gaudente che non si accontenta più delle cose di plastica. La causa di tutto questo è l’acquisto del set di grucce Bumerang con la “u”. Roba da fare impazzire i sociologi e gli economisti di tutto il mondo.
Alla fine riesco anche a comprare le lenzuola che mi servono.

Io arrivo alle casse trionfante. Ho solo preso quello che mi serviva. G. detto Peppino mi ha detto che lo scopo per cui mi accompagnava era di prendere degli asciugamani. È arrivato alle casse con un portacd. Senza asciugamani, ovviamente. Do il bancomat alla cassiera, che me lo restituisce esanime. Il bancomat, non la cassiera.

Passiamo le casse… e cado anche io nel tranello. G. detto Peppino si allontana e torna con del cibo. Tre minuti più tardi addentavo un würstel e bevevo una nota bibita gassata. Ho guardato il würstel. C’era scritto che era stato fabbricato con materiale biodegradabile e che per produrlo non era stato abbattuto neanche un albero.

Ho capito, adesso, cos’è l’IkeaExperience.

Di |2003-09-17T18:44:00+02:0017 Settembre 2003|Categorie: I'm A Loser, There's A Place|Tag: , , , |23 Commenti

Una serata secondo i programmi

Lunedì, ore 1945.
Sono pronto, come neanche Fantozzi quando deve vedere Italia-Inghilterra.
Cena con amico alle ore 20 in punto, poi concerto di Bowie alla radio, in diretta, da Londra. Il mio amico dovrebbe portare qualcosa da bere o altro, chissà. Comunque mangeremo, ci sentiremo il concerto alla radio, chiacchierando e cantando pezzi di canzoni e scoprendone di nuove. E poi avrò il ricordo del concerto, lo registro.

E come?

Corro alla Virgin, che è aperto fino alle ore venti. Entro e, ovviamente, sono l’unico cliente. Di solito alla Virgin la musica è varia, ma comunque orecchiabile–>gradevole–>acquistabile. Invece c’era sparato a palla un gruppo metal urlatissimo. Compro due cassette da novanta ed esco, pensando “mitico, ce l’ho fatta”. Piove tantissimo, ma il mio amico ha trovato un passaggio in macchina. Arriverà.

Ore 2005. Mi chiama. “Ritardo una ventina di minuti, i viali sono completamente bloccati, piove tantissimo”. Guardo il sugo per la pasta e gli dico di aspettare. Un po’ borbotta, ma poi si quieta. Penso che mangeremo in ritardo, ma pazienza. La pioggia, intanto, aumenta.
Ore 2035. Il mio amico non si fa vedere. E io non ho una lira sul cellulare per chiedergli dove sia, come stia, e soprattutto quando pensa di arrivare.
Ore 2045. Mi sintonizzo su Radio Due, dove c’è qualcuno che fa dei discorsi assolutamente magniloquenti che elogiano una band nostrana. “Sentiamo”, mi dico, mentre sgranocchio degli animaletti di cristallo per alleviare la tensione: il mio programma sta andando completamente a puttane. La canzone è orrenda. Ovviamente.
Ore 2050. Arriva il mio amico, zuppo e trafelatissimo. Ovviamente, poverino, non è riuscito a portarmi alcun omaggio. “Non importa”, dico io, “sta per iniziare il concerto”. E mi sento un po’ come si dovevano sentire i miei nonni, vicini alla radio per non perdere niente, neanche una parola. Quasi mi commuovo.
Ore 2103. Il concerto non verrà trasmesso. La Sony ha revocato all’ultimo momento la licenza per la diffusione. Tento di fare come Muzio Scevola e sto per immergere la mano destra nel sugo bollente, ma il mio amico mi ferma all’ultimo momento.

La serata si è conclusa con una partita a Trivial, che perdo. Però ho imparato che i ragni hanno otto occhi. Di tutte le cazzate che scorrono in una partita di Trivial Pursuit, in genere se ne ricorda una soltanto, dopo. Il ricordo non permane per più di un paio di giorni. No, questo non l’ho scoperto giocando. Esperienza personale.

Andando a letto ho maledetto la Sony, spegnendo la luce. Poi mi sono alzato di colpo, sono andato vicino allo stereo e ho guardato le cassette comprate per registrare il concerto. Ho tirato un sospiro di sollievo. Almeno erano della TDK.

La rivolta degli oggetti – parte seconda

Svegliarsi presto. Tipo alle 1245. Pensare di dedicare tutta la giornata a scrivere, a mandare curricula e lettere di presentazione, magari sentendo della musica, cambiare dischi e fare cose piacevoli o automatiche (e un po’ meno piacevoli).

Ovviamente mi si rompe la stampante, non appena finisco di formulare questo pensiero, stamattina (beh, ormai ieri mattina). Inerte. “Stampa”. Nessun segno di vita. Solo un debole lampeggiare di una spia, prima sembrava quasi la fine di HAL in 2001. Dopo un po’ che non viene fuori niente dal cassetto della carta, ti girano le palle e basta. Altro che Kubrick. Smonto, rimonto, disinstallo, riinstallo, pulisco testina e contatti. Le racconto una favola. Le compro un gelato.

Inerte. Bip. Bip.

Il sistema operativo inizia a stufarsi e a segnare errore. Cerco di farlo stare calmo, risolverò tutto. Rismonto, ririmonto,ridisinstallo, ririnstallo, ripulisco. Niente. Penso. “Col cavolo che ti riracconto. Al massimo ti ricompro”. “Un gelato?” chiede lei (bip). “No, un’altra stampante”. E così faccio. Ormai rassegnato, sto per recarmi al notonegozio di computer, che già mi aveva donato un misto di gioia e idiozia (era il 28 agosto), quando sento un suono provenire dalla mia tasca. Il mio cellulare che mi chiama. “Come va?” “Come, come va? Ma non eri morto?” “Ero morto. Rispondi, ché c’è qualcuno che ti chiama”. Il mio cellulare è tornato a funzionare. Nonostante il Jack Daniels. Ma quando ho chiuso la telefonata ho visto che mancavano 15 euro dal credito. Ha confessato: si è comprato una bottiglia di whisky. Via internet. Io il WAP l’ho sempre odiato.

Negozio di computer, fanciulla alla cassa bellissima. Ma è un’altra. “Incredibile” penso. “Posso fare della cazzate come una settimana fa?” mi chiede il mio cervello. Lo minaccio e si calma.

Insomma, ho comprato un’altra stampante. Forma spaziale, ovviamente. Sembra un’incubatrice del futuro (immagino quanto sia efficace quest’immagine nelle vostre menti). Mi piace, ma è violenta. Ho dato il comando di stampa e non è successo niente. Poi, d’un tratto, s’è incazzata, ha preso il foglio, se l’è ingoiato, l’ha stampato con rabbia e l’ha sputato fuori. Poi mi ha guardato e mi ha detto: “Dammene un altro”. Ho stampato altri fogli fino a che non si è addormentata.

Però un po’ mi mancherà la mia vecchia stampante e i suoi rumori. Ho stampato la tesi, con quella. Sigh. Lo so che anche a te manco, laggiù in cantina, al buio. E dell’inchiostro goccerà dalla tua testina.

Scusate. Si è svegliata la nuova stampante. Troverò dei fogli bianchi per lei, stanotte?

La rivolta degli oggetti

Dopo il mio portatile, che ho tentato di distruggere e in parte ce l’ho fatta, altri oggetti tecnologici mi dichiarano la guerra. Il mio telefonino, per esempio, ha smesso di suonare. E il nostro ligio eroe che fa? Va al Nokia Point (brivido e raccapriccio) vicino a casa sua…

…ma che cacchio, disse un lettore del blog. ma tutto vicino a casa sua? il notolocale, la notagelateria, il notonokiapoint…

… per tre volte. Eh sì. Perché evidentemente ci sono milioni di utenti Nokia a Bologna e nel mondo, fatto sta che il Nokia Point è sempre pieno e dentro c’è una sola persona. O almeno così pare. Se poi nascondono gli altri impiegati nel retrobottega, non lo so. Siccome già mi sentivo scemo ad andare al NP (basta scriverlo per esteso, ché mi viene l’orticaria), quando vedevo pieno me ne andavo. Alla fine ieri ce l’ho fatta.

Il ragazzo che mi serve è gentile, ma di quei tecnici che sembra che aggiungano a qualsiasi cosa essi dicano una specie di riferimento stabile, come se esistesse un catalogo universale dei danni-tipici-del-telefonino. È solo per una loro gentilezza che ti dicono “deve cambiare la batteria”, invece che qualcosa come “A4T56 /bis”. Insomma, do il mio telefonino e dico che non si sente più la suoneria. La prima cosa che fa è smontarlo in due nanosecondi (io ci metto minimo un paio di minuti) e dire “Bisogna riprogrammarlo”. Che mi sa tanto di Philip Dick. Prima che faccia un’altra mossa lo fermo e gli spiego meglio il problema. Allora lui si blocca, smonta ulteriormente il mio telefonino e nel frattempo dice qualcosa, con aria grave, come: “Quando questo cellulare smette di suonare, vuol dire una sola cosa”. Con perfetto tempismo mi apre davanti il cellulare. Dentro c’è una macchia marrone. Un bel marrone chiaro, ambrato, per me inconfondibile.

“È annegato”, dice. Poi odora il cellulare. “Vino o caffè”. Poi, come il più consumato dei sommelier, aggiunge. “Ma direi vino”. Due donne sulla trentina ridacchiano. Io anche.
Ma quello non era vino. Era Jack Daniels.
Solo che non mi andava di dirlo in un Nokia Point.

Di |2003-09-04T10:49:33+02:004 Settembre 2003|Categorie: I'm A Loser|Tag: , , , , , , , |2 Commenti

Un pomeriggio come altri

Tutto inizia con io che inciampo come un fesso sul cavo di rete che collega il mio portatile ad altri apparecchi che ora non vi sto a spiegare. Un rumore sordo. La porta esterna implode. E la storia continua così.
Telefonata al centro assistenza Sony di Milano
Come al solito, prima di arrivare ad una voce umana passo attraverso voci registrate, “selezioni uno”, musichette varie. Mi risponde una persona che mi chiede immediatamente il numero di serie “della macchina”. Che fa tanto Matrix. Gli chiedo dove posso trovarlo. Lui risponde “Sotto il computer”. E non aggiunge “imbecille” perché se no lo licenziano, solo per quello. Gli dico di aspettare un po’. Quando torno al telefono, la comunicazione è stata interrotta. Ricompongo il numero. Solita trafila. Spero che mi risponda quello di prima per dirgli “vabbè, sono stato un po’ lento, ma insomma…” invece è un altro. Ma stavolta ho il mio bel numero di serie a portata di mano. Dopodiché mi vengono chieste una serie di informazioni personali (Rodotà, aiuto!), che io fornisco. Che devo fare? Dopo cinque minuti buoni posso spiegare il problema. Ovviamente i “danni da idiozia dell’acquirente” non sono coperti dalla garanzia. Quindi? “Quindi le mandiamo il corriere che si viene a prendere la macchina e ce la porta”. Attendo un po’ e mi dice il costo solo per il trasporto: sessanta euro. “Se glielo porto io?” (al maschile: computer, e che cavolo). La risposta è agghiacciante: “Non può”. Ah. E ovviamente i costi di riparazione sono a parte. “Ci penso su”, dico io, nel panico. La conclusione è terrificante. “Le volevo dire che c’è un sito di informazioni della Sony” e mi dà l’indirizzo. “Ma a che mi serve, adesso?” chiedo. “No, è solo per informarla”. Ah.
Consulenze
Preso dal panico telefono a qualche negozio di computer a Bologna (città in cui ovviamente i negozi di solito chiudono il giovedì). Mi risponde una famosa catena di vendita di pc. “Guardi, noi abbiamo pessimi rapporti con la Sony, e non mettiamo le mani dentro ai portatili, quindi comunque lo manderemmo a Milano. E probabilmente loro non cambieranno il pezzo, ma le chiederanno di cambiare la scheda madre, visto che nei portatili tutto è saldato alla scheda madre”. Io mugolo qualcosa e poi chiedo: “E quanto mi verrebbe a costare, secondo lei?”. Un silenzio di tomba. Poi: “Le conviene comprare un computer nuovo”. Almeno questo non ha parlato di macchine. E mi dà un suggerimento: una scheda di rete esterna. A soli quaranta euro. “E dove si mette?”. “Nella porta pisiemsiaiei”. Ho un coccolone. Ma loro non hanno schede di rete esterne. Chiamo l’altro negozio della catena e loro mi dicono la stessa cosa. Ma: 1. ce l’hanno e 2. la voce della ragazza che mi risponde mi piace. Vado.
Adolescenza oggi
Arrivo al negozio e dico che ho chiamato prima alla ragazza alla cassa. È bellissima. Ma veramente bellissima. Ed è una delle poche ragazze bellissime che conosco che fa finta di non saperlo. Meraviglia. Inoltre scopro che è lei che si occuperà del mio computer e quindi, per una perversa e del tutto personale interpretazione del principio di transitività, di me. Piccola parentesi. Di solito non mi comporto come un idiota con le donne. Ecco. Con lei ho fatto qualsiasi cosa sbagliata. Per esempio:

  • tentare di parlare male della Sony, per avere un minimo di dialogo: niente, il silenzio;
  • mostrarmi interessato e dire delle cose assolutamente ovvie;
  • sbagliare i verbi;
  • rimanere cinque minuti davanti alla cassa cercando lo scontrino che la meravigliosa fanciulla mi ha appena dato (“mi sa che l’hai messo nella borsa” “ah già, eccolo, pensa te…”);
  • sbagliare l’uscita dal negozio.

Ho perso io interesse in me stesso. Non oso pensare a lei.

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