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Sospensioni: una brutta storia di rumori molesti, soldi e ventiseienni che attendono

Regolarmente, accade di nuovo. Forse vivo in una strada di Bologna particolare, ma sembra che i palazzi qui intorno necessitino sempre di lavori. Alle otto e trenta precise, sento un rumore sordo e lontano. Poi sento vibrare leggermente il letto, e tento di non pensare al rumore e di farmi cullare dalla vibrazione.
A quel punto mi immagino un capo cantiere che, come un direttore d’orchestra, dà il via alla sezione degli scalpellini. Ogni colpo di martello mi penetra nel cranio. Nessuna piacevole vibrazione, in quel caso. A volte mi riaddormento, a volte no. Quando non mi riaddormento mi alzo e tento di focalizzare da dove provenga il rumore. Vado nell’altra stanza, mi affaccio in strada, niente. E quando sono completamente sveglio, il rumore cessa. Sono tentato di tornare a dormire. Ma rimango sospeso, sentendo ancora vibrazioni che non esistono più.

Il bancomat mi guarda. Io lo guardo. Poi infilo la tessera a tradimento.
Non è possibile effettuare prelievi.
Cazzo devo prelevare? Il saldo, per favore.
Oh, Cristo. Ma sei di coccio, eh? Già ne abbiamo parlato.
Il saldo, porca puttana.
No, non mi va. Prova qui a fianco.
Ptui. La tessera esce, il bancomat distoglie lo sguardo.
Lo sportello accanto è più simpatico nei modi. Ma mi conferma che ancora non mi hanno pagato.
Telefono a chi mi deve pagare. Mi dicono che hanno fatto il pagamento, ma c’è da aspettare qualche giorno.
I miei quattrocento euro sono sospesi, da qualche parte, tra la scuola in cui ho insegnato e il mio conto corrente. Sono immobili a mezz’aria, loro, non vibrano.

Iniziano ad arrivare i primi pareri sul romanzo, da parte dei selezionatissimi lettori. Sono buoni. L’Editore non si fa sentire, è troppo presto. Il punto è che deve piacere a lui. Non si pubblica un libro per consenso popolare, purtroppo. Aspetto.

Mercoledì inizio la formazione per un lavoro. Contratto di un anno. Part time, ovviamente. Passo le mie ultime giornate da non lavoratore ascoltando The Winding Sheet in continuazione. Mica sto male, no. Solo, aspetto, sospeso, che un altro tassello di quella che chiamano età adulta mi si appiccichi addosso. Bevo e fumo. Stasera sarò in vicolo Bolognetti. Mi riconoscerete. Sono quello che fluttua.

Comunicazioni di servizio. Stanotte non sono in onda. Ma dalla prossima settimana, si inizia alle ventidue e trenta. Scatti di carriera: il prime time si avvicina.

Una giornata niente male: la nuda cronaca di uno di quei giorni in cui è meglio rimanere nel letto. Di chiunque.

Io ci credo. Continuo a perseguire il mio programma, o almeno tento di farlo. Quindi: sveglia alle nove, una sana colazione e iniziamo con un po’ di studio. Poi mi ricordo: devo telefonare alla nota università con le scale mobili, perché devo capire cosa è successo con il mio contratto. Una parentesi esplicativa è necessaria. Infatti, qualche giorno fa, è arrivata, all’indirizzo al quale ufficialmente risiedo, a 300 e passa chilometri da Bologna, una missiva dalla suddetta università, che mi diceva di recarmi presso l’altra sede dell’università, ai piedi delle Dolomiti, per firmare il contratto.

Dopo infiniti tentativi di entrare in contatto con la magica università, allietati dal tema di “Momenti di gloria” (e se mai dovessi beccare Vangelis…), finalmente, con un paio di rapidi passaggi di persona, riesco a parlare con chi-mi-serve.
“Ma no, si tratta di un errore!”
“Ah, bene”, faccio io, “quindi posso passare a Milano per firmare il contratto…”
“Eh sì, però venga quanto prima. Prima firma, prima le paghiamo la prima tranche del suo compenso”
“Quindi quando dovrei venire?”
Silenzio. Dopo una lunghissima pausa la donna dice: “Vediamo, che ore sono…?”
Sospiro e dico: “Fa niente, magari vengo il ventotto, quando devo fare esami, posso firmare quel giorno, no?”
“Sì, poi però la paghiamo il aisfgaisfebbraio”
“Il venti febbraio?”
“Il ventisette febbraio”, precisa la solerte addetta all’amministrazione.
E io penso che, anche se avesse detto “il ventinove febbraio”, mi sarebbe andata di culo, ché tanto il 2004 è bisestile.

Pomeriggio. Devo andare al cinema per questo simpatico programmino, in particolare mi tocca andare a vedere un filmaccio per una rubrica significativamente chiamata “Il duro mestiere del critico”. La morte di cui devo morire si chiama Mona Lisa Smile. Ne parlerò sull’apposito blog, ma potete farvi un’idea dei miei sentimenti d’amore per Tori Amos messi alla dura prova, esattamente come i suoi.
Esco dal cinema. Devo ritirare i soldi dell’affitto (che ammonta a 300 euro per una stanza, così, ve lo dico). Prima di ritirare i soldi, però, chiedo al Bancomat l’estratto conto.

“Sicuro?” fa lui.
“Dammi lo scontrino”, dico io.
“A Fra’, guarda che poi ci rimani male, e ti rovina la giornata”
“A parte che sono le sei di sera, e la giornata va già male… fa’ il tuo dovere, dammi lo scontrino con su scritto quanto mi rimane, e non chiamarmi ‘a Fra’”
“Sicuro sicuro?”
“Dammelo, stampalo.”
Stampa dello scontrino in corso.
“Fallo uscire, maledetto.”
“Beccate questo”, dice il Bancomat.

Aveva ragione lui. Mi allontano tristemente dal Bancomat che sentenzia, come il Puffo Quattrocchi: “Telavevodetto, io”.

Sera. Siccome la trasmissione è domani e devo vedere un altro film, mi tocca cenare presto, anche perché dopo il film devo tornare in radio per il programma notturno di cui qui a sinistra, in basso, scorrete, scorrete. Il film prescelto, per doveri di cronaca, è L’ultimo samurai. E so già che si tratta di una vaccata colossale, ma tocca. Quindi decido di cenare in fretta. “Che mi faccio da mangiare?” penso. “Cappelletti in brodo”. Detta così, pare bellissimo. Ma non fatevi ingannare: allontanate dalla mente donne emiliane che fanno la sfoglia, cucine accoglienti, tramonti splendidi. Sostituite le donne emiliane con un pacchetto di cappelletti già pronti e un dado da brodo, la cucina accogliente con una cucina non poi così accogliente e il tramonto con una luce al neon. Ma tant’è. L’acqua bolle, tento di non pensare a niente, butto i cappelletti. Passa uno dei miei coinquilini, M., che nota una strana macchia verde su uno dei cappelletti. “Dev’essere il ripieno che è uscito”, dico io. “Secondo me è muffa”, dice lui. Ovviamente ha ragione lui. Mi immagino di andare al supermercato incazzato come una iena e protestare perché mi hanno venduto dei cappelletti ammuffiti, ma l’idea scompare, come i cappelletti verdi e il brodo, nel cesso. La mia cena consiste, quindi, di una scatoletta di tonno, due pacchetti di crackers, maionese, variamente combinati tra loro, e un’arancia. Ma poi ho un’illuminazione. Ho della ricotta. Prendo un cucchiaio di cacao amaro, un cucchiaino di zucchero e mescolo il tutto alla ricotta. Me la preparava sempre la mamma, questa merenda-dolce. Ma non ho tempo di commuovermi, devo andare a vedere il secondo probabile-film-di-merda della giornata.

Che, puntualmente, si rivela un film-di-merda. Non mi rimane altro che andare a prendere l’autobus, per andare in radio. Non ho il biglietto, ma tanto l’ATC sta pubblicizzando questa grande trovata di mettere i distributori di biglietti automatici in ogni autobus. Ovviamente l’autobus che devo prendere ha i distributori guasti. Quindi entro in modalità ansiosa, per cui ogni persona che sale che vagamente assomigli ad un controllore mi mette uno stato di agitazione terribile. Non essendoci una tipologia fisiognomica di controllore dell’autobus, qualsiasi persona che salga sull’autobus mi fa sudare freddo. Decido di tirare fuori il libro e di mettermi a leggere, quindi. Solo che la lettura mi prende talmente tanto che non mi accorgo di avere passato la mia fermata. Me ne accorgo, fortunatamente, poco dopo. Scendo e mi trovo in un luogo che per me ha significati profondi. Un luogo legato ad uno degli ultimi momenti di armonia passati con la mia ex-ragazza (che suppongo ormai abbia dato le dimissioni – oltre che da ragazza del sottoscritto – anche dal genere Homo Sapiens). Un luogo magico. Un incrocio nella periferia occidentale di Bologna in cui io, lei e l’ormai mitico V. abbiamo rilevato il passaggio delle macchine, negli ultimi giorni di dicembre del 2002. Abbiamo rischiato il congelamento contando le macchine che passavano in quell’incrocio. Un lavoro di merda, se non si era capito.

La trasmissione in radio va bene, considerando l’orario. Nessuna telefonata in diretta, tre mail dalla stessa persona. Nella prima mi richiede un pezzo. Nella seconda me ne richiede un altro, che però non ho e non trovo. Nella terza mi dice “va bene lo stesso quello che hai messo, buonanotte”. E così mi sembra di fare l’ultima mezz’ora di trasmissione (dall’una e cinquanta alle due e venti) parlando al nulla.

Il 61, quando arriva, alle due e quaranta, è popolato da cinque individui, che scendono due fermate dopo quella in cui sono salito io. Faccio il viaggio da solo, leggendo con un occhio il libro, con l’altro stando attento a non scazzare la fermata, ché se scazzi la fermata del notturno rischi di ritrovarti nel centro di Casalecchio alle tre del mattino. E di rimanerci.
Scendo e percorro la solita strada. Sono a pezzi. La vetrina del negozio di Armani di via Farini è cambiata. I manichini sono seduti su delle specie di panchine sospese e hanno l’aria stanca anche loro. Per educazione, quando passo loro davanti, gli auguro la buonanotte.
Sono finalmente a casa. Stanco morto. Umanamente morto (la retorica, eh?).
Ma tanto io nei prossimi giorni mi trasformo in cartone animato.

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