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Dagli archivi: Sulle tracce del terzo uomo (Frederick Baker, 2004)

Innanzitutto dividiamo voi lettori in due parti: chi ha visto Il terzo uomo e chi non ha mai visto il capolavoro di Carol Reed del 1949. No, non vale il solo sapere a memoria la famosa frase degli “orologi a cucù” di Orson Welles: è roba da bignami del cinema.

Allora, chi l’ha visto si può mettere comodo sulla poltrona dei buoni, chi non l’ha visto se lo procuri. Bene, ora possiamo continuare.

Il film di Carol Reed è uno dei più belli del Ventesimo secolo, d’accordo? Questo lo si capisce anche solo seguendo la storia, scritta da Graham Greene, mica uno qualsiasi, e interpretata da Joseph Cotten e Alida Valli.

Ma lo si comprende ancora meglio con Sulle tracce del terzo uomo, un documentario scritto, diretto e prodotto da Frederick Baker per la BBC. In realtà è il contenuto del documentario a essere prezioso, non tanto la sua forma: state pensando a un azzardo, a una messa in scena particolare? Tutt’altro.

Baker torna a Vienna, dove è ambientato il film, con Guy Hamilton (allora aiuto regista) e Angela Allen (la segretaria di edizione) a fare da guide. Dopo qualche considerazione da anziano in gita (“Com’è cambiata la città”) si cambia prospettiva e, grazie alla voce fuori campo del regista Carol Reed e a interviste a Greene e altri personaggi, si torna a un documentario classico.

Dopo un po’, però, si cambia di nuovo rotta, accennando a uno dei produttori del film, quel David O. Selznick che, in quegli anni, era un altro modo di dire “Hollywood”. Si parla allora dei contrasti tra la produzione inglese (sotto la responsabilità di un altro grande, Alexander Korda) e quella statunitense? Sì, ma per poco: dopo avere rivelato che sia l’uno che l’altro si sparavano anfetamine sei giorni su sette per lavorare, lavorare, lavorare, si passa a un nuovo argomento, ancora una volta.

L’argomento è Orson Welles, detto anche Citizen Kane, dal titolo del film su cui ancora campava. Scopriamo, per modo di dire, che Welles fa mille bizze: si presenta in ritardo sul set, dopo avere giocato a rimpiattino con la produzione tra Roma e Parigi.

Poi scopre che deve girare nelle fogne e le fa ricostruire a Londra. Infine improvvisa letteralmente il breve monologo che voi, seduti sui ceci sotto il cartello “cattivi”, avete cercato di giocarvi come carta “io Il terzo uomo l’ho visto”. Che beffa, eh, che le battute più famose del film siano le uniche non scritte da Greene…

Insomma, di carne al fuoco ce n’è tantissima, in questo documentario: non ultima la considerazione che, in effetti, Reed è riuscito a “unire” il coevo neorealismo italiano, grazie all’uso di set reali e comparse prese dalla strada, con quel gusto neoespressionista ben sottolineato dalla strepitosa fotografia di Robert Krasker, grazie alla quale quest’ultimo vincerà un Oscar.

Il problema è che tutto questo materiale è raccontato in maniera eccessivamente discontinua, spezzettata e singhiozzante. Un peccato, davvero.

E ora, tutti a ripassare Il terzo uomo.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011

Nuovi metodi per dimenticare l’Alice di Tim Burton

Scoprire per puro caso un film per la televisione del 1966, diretto da Jonathan Miller, con Peter Sellers e Alan Bennett.

Una puntata di “The Wednesday Plays”, serie che andava in onda sulla BBC ogni mercoledì, nella seconda metà degli anni ’60. Questa versione di Alice è realmente impregnata di quell’epoca: musica indiana (composta da Ravi Shankar, mica uno a caso), richiami al cinema europeo d’autore e uno stralunato umorismo che diventa l’ennesimo semino dal quale è nata la pianta dei Monty Python.

Scusate la metafora.

Insomma, se lo volete vedere per intero è qua.

Il loro potere quotidiano

Il documentario della BBC sulla pedofilia, trasmesso qualche ora fa da Anno Zero di Michele Santoro, non mi ha meravigliato. Mi ha colpito, sì, ma non di sorpresa: sapevo bene quali fossero i colpi, e dove sarebbero stati portati. Mi ha inorridito, ma non scandalizzato.
La pedofilia è diffusa, nel mondo, ed è evidente che un pedofilo, sotto processo e seguendo il giuramento fatto prima della sua deposizione, racconti come e perché gli piacciano bambini e bambine e cosa fa loro. Il contenuto della deposizione possiamo figurarcelo, e immagino che l’autore del servizio abbia voluto insistere sui particolari più raccapriccianti dei racconti del sacerdote cattolico americano per fare prendere coscienza del problema violentemente al suo pubblico.
Il problema aggiuntivo, ovviamente, è che il pedofilo in questione, anzi, i pedofili in questione siano sacerdoti.
Una testimonianza importante è stata quella della nonna del bambino brasiliano molestato da un sacerdote ben noto per le sue tendenze pedofile. La donna parla di pressioni della Chiesa per mettere a tacere l’accaduto, ma anche di pressioni della comunità perché fosse omertosa sul crimine: una comunità rurale brasiliana, che supponiamo essere di basso reddito e di basso livello culturale.
Ed ecco, viene fuori immediatamente il potere della Chiesa cattolica. Un potere sulle masse, sulle menti, quindi più impalpabile (si fa per dire), che va a braccetto con il potere ufficiale della Chiesa, che si manifesta sotto forma di documenti come il “Crimen Sollicitationis”, lettere mandate ad ogni vescovo della terra, mica codici segreti rivelati in concili carbonari. Un potere diretto sui suoi ambasciatori (con notevoli eccezioni, per fortuna) e un potere indiretto e mediato su una popolazione che, secondo i loro piani, dovrebbe essere coestensiva con la comunità di credenti. Una sudditanza transazionale, che chiaramente è più osservante nei posti dove la parola di Dio è effettivamente vista come salvezza; ma la Parola dev’essere per forza di cose mediata, raccontata, imposta da sacerdoti, che, automaticamente, vengono visti come legati direttamente a quello che dicono. Perché, quindi, denunciare il prete? Potrà mai aver sbagliato un uomo di Dio?, dice la comunità alla nonna del bambino violentato.
Ma il potere della Chiesa cattolica è fortemente strutturato, e anche se non si basa – come molti poteri forti – sulla minaccia fisica, si appoggia, come comunemente accade, su segreti, omertà, verticalizzazioni. Si autotutela, con ogni mezzo. Il tutto col beneplacito di dio (da non credente presumo che Dio sia tutta un’altra cosa).

Purtroppo non credo che succederà niente, dopo la messa in onda del servizio. La Chiesa di Roma è inattaccabile, e, come tutti i poteri forti, è legato a doppio filo con altri poteri, ha interessi economici, politici e culturali. Essendo una monarchia non ha neanche bisogno di farse elettorali o di potenziali alternative. Le successioni avvengono per delicati equilibri interni, e le “aperture” sono state poche e centellinate nel corso dei secoli, secoli nei quali questo potere è sì diminuito, ma è ben lungi dallo scomparire.
La Chiesa cattolica, insomma, funziona. Le sue regole e i suoi modi sono stati esportati con successo in tutto il mondo, i suoi uomini vengono protetti dalla comunità e dall’organizzazione centrale, l’impunità della stragrande maggioranza delle sue azioni criminose è pressoché certa. L’unica differenza con la mentalità e il modus operandi della mafia è che parte da principi molto diversi e non usa pistole. Per il resto è un altro grandissimo prodotto da esportazione del made in Italy.

Questo post è dedicato a tutti i sacerdoti che si possono permettere di pronunciare “Dio” con la “D” maiuscola. Fate qualcosa, se potete.

From the morning, till the day is done

Ho passato due interi giorni con Nick Drake, senza neanche uscire di casa. Sono stato a Rangoon, in Birmania, dove è nato, sono andato e tornato più volte con lui nella tenuta di Far Lays, a Tanworth-in-Arden. Ho viaggiato con lui in Francia, Spagna e Marocco. Mi sono innamorato anche io di Françoise Hardy. Sono stato in giro, mentre lo seguivo nei suoi pochissimi concerti dal vivo in piccoli pub e in posti troppo grandi per lui. Ho conosciuto i Fairport Convention, il tecnico del suono John Wood, Paul Boyd, e anche John Cale e John Martyn. Con loro, a Londra, ho assistito alle registrazioni di Five Leaves Left e Bryter Layter. Ho tentato di parlare con lui dopo gli insuccessi di vendite dei primi due dischi, ma non ce l’ho fatta. Nick Drake mi ha sorpreso per l’ennesima volta col suo ultimo album, Pink Moon, registrato in poche ore e consegnato in una semplice busta ai dirigenti della sua etichetta, la Island. Ho visto la boccetta semivuota di Tryptizol, l’antidepressivo che l’ha accompagnato verso la fine.

Ho ascoltato i suoi dischi, ma anche gli “inediti”, contenuti in Time of No Reply e in Made to Love Magic. Ho letto il libro di Stefano Pistolini Le provenienze dell’amore, tutto d’un fiato. E, lo ammetto senza pudori, mi sono commosso più e più volte vedendo il documentario A Skin Too Few e sentendo lo speciale della BBC2 Lost Boy – In search of Nick Drake. Hanno risuonato in me per lungo tempo le parole della madre Molly e del padre Rodney, e la commozione della sorella Gabrielle.

Una canzone di Molly Drake

Ho capito ancora una volta quanto grande e fragile fosse Nick Drake e quanto lieve e possente allo stesso tempo fosse la sua musica.

Cercherò di parlare di tutto questo e di farvi ascoltare il più possibile nella prossima monografia di Sparring Partner, dedicata a Nick Drake, da lunedì. E se non vi piace Nick Drake (possibile?), venerdì c’è Luttazzi.
E se non vi piacciono né Drake, né Luttazzi, che accidenti ci state a fare qua?

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