concerto

Dagli archivi: Sleaford Mods. Covo Club, Bologna, 2 maggio 2015

La chiusura della stagione 2014-15 del club bolognese è affidata al duo di Nottingham: un live scarno, essenziale e violento come una scazzottata in strada, con anticipazioni del nuovo disco.

“Bunch of Cunts”: con la canzone del recente Tiswas ep Jason Williamson saluta (o appella?) il pubblico di un Covo sold out, nell’ultimo live della stagione per il club bolognese. In questo incipit sta tutto il concerto degli Sleaford Mods, una delle espressioni più tipicamente “contemporary British” a cui possiate assistere oggi. Un’ora abbondante di ironia, rabbia, strafottenza, essenzialità e rigore che proviene dal Regno Unito dei pub squallidi e delle file all’ufficio di collocamento, lontanissimo da qualsiasi laccatura e compromesso.

sleaford modsTutto comincia quando un serafico Andrew Fearn fende il pubblico (il Covo non ha un vero e proprio backstage) e sale sul palco con sei bottiglie di birra e un portatile: la scenografia è tutta là, insieme a un microfono e uno sgabello su cui il laptop trova posto. L’uomo dedito ai beat del duo hip hop, punk, post punk, chi se ne frega, sta là fermo, come se stesse aspettando l’autobus. Non interagisce o quasi col pubblico, pur non sembrando altezzoso: un atteggiamento che manterrà per tutto il live, tanto da farci percepire una grottesca sovrapposizione con il ruolo live di Mauro Repetto negli 883 (ma Fearn balla di meno). Solo dopo diversi minuti la platea, ormai fittissima, accoglie Williamson, che attraversa la folla, si posiziona di tre quarti davanti al microfono e inizia a sputare rime violentissime, praticamente senza sosta. Si concede talvolta di ammiccare in maniera grottesca al pubblico, sculettando e fingendo di tenersi e offrirci i seni (sic).

I bassi profondi delle basi fanno tremare i muri del Covo, che presto paiono imbrattati dalle rabbiose storie di strada pubblicate in sette album, due ep e tre raccolte: ma nella scaletta c’è spazio anche per tre brani nuovi, “Live Tonight”, “Bronx In a Six” e “Tarantula Deadly Cargo”, anticipazioni dell’imminente nuovo LP Key Markets. Gli Sleaford Mods sembrano avere ripreso in pieno il “We Don’t Care” dei Sex Pistols, ma fregandosene davvero di tutto, compresa quell’eredità, quella pre e quella post. Ogni frammento di live comunica urgenza e necessità, ogni pezzo è una spinta interiore che sta tra un ruggito, una risata sarcastica e un conato di vomito. Un miracolo, considerando la reale povertà di mezzi, ma agli Sleaford Mods basta questo (e un po’ d’erba, chiesta dal palco a fine live). In quanto a noi, be’… in confronto a loro non siamo altro che un bunch of cunts, appunto.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: A Place to Bury Strangers – Romare. Locomotiv Club, Bologna, 17 aprile 2015

La rassegna Murato, nel suo penultimo appuntamento stagionale, porta al Locomotiv due nomi molto diversi tra loro, in una serata che è nettamente divisa per suoni, pubblico di riferimento e atmosfera.

Si comincia con l’unica data italiana (sold out) degli A Place to Bury Strangers: la band “più rumorosa del mondo” raccoglie non solo il pubblico di Bologna e della Regione, ma anche di Veneto e Toscana. “We’ve Come So Far” è il brano di apertura: Oliver Ackerman inizia da solo, poco dopo raggiunto sul palco da Dion Lunadon al basso e Robi Gonzalez alla batteria. I tre sono perfettamente amalgamati nel riprodurre sul palco l’alchimia creativa di Transfixiation: gran parte della scaletta è costituita dai brani dell’ultimo album del gruppo, scritto da tutti e tre i musicisti proprio pensando alla resa dal vivo.

Entro poco il Locomotiv è invaso dal fumo e dalle luci stroboscopiche: il bilanciamento dei suoni si affina e il concerto diventa una sorta di vortice audiovisivo che coinvolge i partecipanti nonostante il terrorismo da decibel che precede la fama della band non si concretizzi mai davvero. Non sono i volumi (per quanto alti) a emozionare, ma la perizia che il trio dimostra sul palco… e in platea, visto che (come accade ormai di consueto) il finale del live è suonato dal mezzo del locale, con i musicisti attaccati a due amplificatori, una drum machine e un rack dal quale partono laser colorati. Come se il vortice di cui sopra si fosse ridotto e i tre l’avessero letteralmente portato in mezzo al pubblico, creando una fucina elettrica in platea.

Con la seconda parte della serata si volta pagina: un solista prende il posto del trio e il rock cede il passo all’elettronica. Romare è venuto in città a farci scoprire il suo album Projections, uno degli ultimi colpi messi a segno dalla Ninja Tune. Il giovane musicista britannico, alle prese con vari macchinari, sorride timido e riconoscente al pubblico (nettamente più sparuto rispetto alla prima parte della serata, ma del resto l’ora inizia a essere tarda), snocciola brani tratti dal disco e dal precedente ep accompagnato da proiezioni che hanno due soggetti che si ripetono spesso: Robert Johnson e Chet Baker, quest’ultimo raffigurato in varie fasi della sua vita e anche in scene dello pseudo-biopic All the Young Fine Cannibals.

Rispetto all’album il live è molto più orientato al ballo e al divertimento: dal vivo Romare è meno intimista che nei pezzi in studio, i brani vengono lustrati un po’ dove serve e opportunamente interrotti e ripresi a cavallo del climax di ognuno, con uno stratagemma tipico e consolidato, ma che alla lunga mostra un po’ la corda. Il talento c’è, lui deve solo cercare di non accontentarsi sul palco, esattamente come non lo fa su disco: per quanto il concerto sia stato coinvolgente, si sono notate delle piccole incertezze soprattutto nella scorrevolezza del set. In conclusione, ci permettiamo un consiglio: usare il campionamento di una trombetta da stadio è divertente la prima, la seconda e la terza volta, ma dalla quarta in poi diventa un inutile tormentone.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Depeche Mode, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (Bologna), 22 febbraio 2014

La band torna nel nostro Paese dopo le due date estive del luglio 2013: ecco quello che è accaduto nella terza e ultima serata italiana dell’European Winter Leg del tour di Delta Machine, a Bologna. Può bastare un grande nome, un frontman iconico e dei pezzi immortali per rendere un live indimenticabile?

Foto da Flickr @sybell3

Tre schermi con visual spesso di ottima qualità, file e file di luci, piattaforme e proiezioni: è imponente la scenografia del palco montato all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno, appena fuori Bologna. Una delle venue indoor più capienti del Paese ospita i Depeche Mode per l’ultima data italiana del tour invernale di Delta Machine, dopo i concerti tenuti a Torino e Milano nei giorni immediatamente precedenti.

Il live è sold out, come il 99% delle date dei Depeche: più di undicimila persone sono pronte ad acclamare Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher, che salgono sul palco (insieme a Peter Gordeno e Christian Eigner) poco dopo le 21. L’inizio è dedicato all’ultimo album: “Welcome to My World” è una canzone che pare scritta anche come opener perfetto per il tour. Da quel momento in poi la scaletta (una ventina di tracce, uguali data dopo data in questa parte di tournée) è un mix calibratissimo di estratti dagli ultimi dischi e grandi classici, con una precisione matematica quasi prevedibile.

E forse la prevedibilità del set è uno dei punti dolenti del concerto bolognese della band: per quanto infatti i Depeche suonino bene (nonostante la pessima qualità del primo terzo di concerto) e concedano un paio di versioni alternative e remixate (“Halo” è notevole) non c’è un momento in cui si rimanga davvero sorpresi. Anche gli intermezzi acustici (“Slow” e “Blue Dress”) sono funzionali: lasciano il palco a Gore per fare riprendere fiato a Gahan, il vero protagonista della serata. Il frontman sfoggia anello con teschio e gilet nero d’ordinanza e, onore al merito, non si risparmia: suda copiosamente, struscia il pacco sull’asta del microfono, dirige il pubblico in cori infiniti su “Enjoy the Silence” e mostra tutto il repertorio da rockstar qual è.

Ma appunto è tutto come ci si aspetta, come se le quinte (nonostante la scenografia) fossero nascoste maldestramente e si percepisse il necessario lato “business” dello show a cui abbiamo assistito. I fan duri e puri dei Depeche non ce ne vogliano, ma ci aspettavamo qualcosa di più. O qualcosa di meno. Insomma, una sorpresa, che sia una, perché per quanto sia bello cantare insieme a migliaia di persone “Just Can’t Get Enough”, c’è un problema se si pensa che, a un certo punto, “enough is enough”.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Bombino + Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat, Locomotiv Club, Bologna, 13 febbraio 2014

Una serata all’insegna di musiche ancestrali e desertiche, dei loro mescolamenti e delle loro naturali proiezioni, quella di giovedì 13 febbraio al Locomotiv Club di Bologna: due set del musicista tuareg, uno acustico e uno elettrico, e la nuova incarnazione di Above the Tree per oltre due ore di musica di buonissima qualità.

Bombino live

“È molto bello suonare in Italia”, dice Omara Moctar e forse il ringraziamento sentito del musicista va oltre il cliché, visto che il nome d’arte Bombino è la storpiatura del nostro “bambino”: Omara in effetti ha un viso giovanissimo, luminoso e felice, che pare non soffra il caldo del club che ospita una delle date italiane del tour invernale di Nomad, uscito l’anno scorso per la Nonesuch.

Prima dei musicisti tuareg, però, c’è spazio per un support act di tutto rispetto: Marco Bernacchia, cioè Above the Tree, presenta il nuovo album Cave_Man insieme a Enrico “Mao” Bocchini e Edoardo Grisogani. Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat affascina il pubblico mischiando con intelligenza percussioni “primitive”, suggestioni tribali, linee di elettronica e chitarra, risultando originale e personale, antico e modernissimo allo stesso tempo.

Non poteva esserci introduzione migliore ai set di Bombino: insieme ai suoi tre musicisti, Moctar sale sul palco per un raffinato live acustico che mostra subito la padronanza che il nostro ha del suo strumento. Una chitarra che, già nell’introduzione al secondo brano, scivola verso il blues: il concerto svela da subito il leit motiv della serata, banalissimo a parole, ma non nei fatti. E cioè che dobbiamo all’Africa la stragrande maggioranza della musica che ascoltiamo.

Se, infatti, il primo set è più tradizionale, quando gli strumenti (due chitarre, basso, batteria) vengono collegati agli amplificatori, veniamo trasportati in un vortice che si allontana e torna continuamente al Sahara, sporcandosi di reggae e garage e, talvolta, diventando quel misto di blues e rock che ha fatto andare in brodo di giuggiole Dan Auerbach, produttore di Nomad, da cui proviene una buona parte dei brani in scaletta. I pezzi, rispetto al disco, si allargano e viaggiano liberi, vanno da ritmi in battere a quelli in levare; la chitarra di Bombino chiacchiera, urla, sputa grappoli di note che vibrano tra la musica tradizionale tuareg e tutte le contaminazioni attuate e subite in secoli di storia e migrazioni.

Talvolta, forse, c’è troppa indulgenza in alcune code o passaggi, ma quando uno è bravissimo a suonare è facile perdonare che possa provare piacere e divertimento nell’ascoltarsi tanto quanto chi lo acclama sotto il palco.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2014 de Il Mucchio Selvaggio

L’elettricità

Quando ho avuto la conferma che Nada sarebbe passata da Maps non solo per un’intervista, ma anche per un minilive in studio, mi sono davvero emozionato: non mi aspettavo che una musicista con una carriera tale sarebbe venuta a suonare nel mio programma. Preparandomi, però, per l’intervista, ho riguardato e riascoltato molto della lunga carriera della musicista.

E in effetti ciò che l’ha sempre animata è stato uno spirito di indipendenza e di purezza sinceramente lontano dalle famigerate “scelte commerciali”, tant’è che mica le è andata sempre bene. Questo spirito, in scala minore, è un po’ quello che vorrebbe avere la trasmissione e a cui tende la programmazione della radio tutta. La sua presenza in onda, quindi, poteva avere ragione di esserci, così, fantasticandoci su.

Quest’introduzione per dirvi che quel pomeriggio di più di un mese fa alla fine è stato davvero bellissimo, e mi è rimasto dentro al punto tale da pervadere anche le sensazioni della serata, quando Nada e i Criminal Jokers hanno suonato in un Locomotiv sold out.

Quassù trovate il resoconto della serata, pubblicato nell’ultimo numero di Jam: un breve pezzo in cui non si accenna alle canzoni che vedrete e sentirete presto sul sito di Maps, ma di cui mi è rimasta una sorta di elettricità nell’animo. E capirete che quando è un set acustico a provocare queste sensazioni…

Qui non si sa
se restare nell’oscurità
o andare verso il futuro
in un mondo diverso
spinti da un vento leggero
come un fucile alla nuca
(Nada, “L’elettricità”)

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