covo club

Excuses

L’ultima volta che ho visto i Karate era il febbraio di due anni fa. Li aspettavo con ansia, anche se il disco che stavano portando in tour era (ed è) quello che mi piace di meno, Some Boots. Il concerto era stato bello, con Geoff Farina che cantava e suonava senza guardare niente e nessuno. I Karate erano usciti, poi erano stati richiamati sul palco del Covo e avevano iniziato il bis. Ma al secondo pezzo era successo qualcosa, Farina se n’era andato senza dire praticamente nulla, lasciando bassista e batterista senza parole, letteralmente ghiacciati. E così il pubblico.
Arrivare ieri al TPO con l’idea di intervistare lo stesso Farina mi agitava. Mi ero preparato le domande, guardando altre interviste, cercando di non ripetere sempre le stesse cose, provando a misurare le parole, con il terrore di “sbagliare”, e che lui si girasse e se ne andasse, senza una parola. Quella era la sua ultima immagine nei miei occhi. E invece no, è stato gentile, carino e moderatamente chiacchierone, ma soprattutto rilassato (potrete sentire l’intervista giovedì).

E poi il concerto. Dopo un inizio in sordina (Bob Corn, lo ammetto, non l’ho sentito), il macello fatto dai Redworms’ Farm è devastante: il batterista si presenta a petto nudo, ma non ha l’aria dello sbruffone, anzi. Certo, fa una certa impressione vederlo così quando metà del pubblico ha addosso il cappotto e l’altra metà inizia a percepire netti segni di congelamento. Ma basta il primo pezzo per capire che avrà caldo anche mezzo nudo: rigido come un robot e pesante come un carroarmato è lui che guida il terzetto brano dopo brano, sparando sulla batteria con una precisione e una velocità incredibile. Mentre suonano, penso ad una dichiazione di Farina sull’inutilità dell’eccessivo volume quando si suona e immagino il cantante dei Karate riparato dietro il bancone del merchandising. I Redworms’ Farm concludono un set tiratissimo quando il batterista inizia a fumare (non nel senso che si accende una sigaretta: fuma proprio dalla testa, dalla schiena, dalle spalle). Forse è un segnale convenzionale.

Quando il palco è sgombrato, sembra che anche il rumore del concerto precedente si sia diradato: l’unica costante è il freddo. I Karate escono, e attaccano con “Alingual”, una delle canzoni più lente dell’ultimo disco Pockets. Sono così: o ci stai, o puoi andartene a bere qualcosa. Loro suonano e basta, per loro stessi e per chi li vuole ascoltare. Sì, anche per quei tre fan dei Redworms’ Farm completamente ubriachi che continuano a gridare “karate” per tutto il tempo, tanto che mi verrebbe da avvicinarmi a Geoff Farina e sussurrargli: “Oh, non ci badare, eh. Sta’ qua, finisci il concerto, su, su, dai.” Ma Farina sta bene, abbozza qualche parola in italiano, senza dire “spaghetti”, saluta, ringrazia, dice che ha il naso chiuso, continua, suona, improvvisa. Soltanto un paio di pezzi da Some Boots, più di qualcuno da Unsolved, i necessari richiami all’ultima uscita.
Prima del concerto, alla fine dell’intervista, gli avevo chiesto se in scaletta ci fosse Caffeine or me. “Sì”, mi ha detto.

excuses are okay
however senseless they might be
and senseless is to say
that they don’t make sense to me
excuses are okay
however senseless they might be
excuses are okay

Adesso te lo posso dire, Geoff: ci sono rimasto molto male, l’ultima volta che ci siamo visti. Un professionista come te che, per un errore, se ne va così. Ma prendo il vostro concerto di ieri come una meravigliosa e lunghissima scusa, priva di senso come a volte è la Musica.

Rimanere ad ascoltare le storie

Ieri, scherzando, dicevo che per sentire il concerto dei Black Forest/Black Sea sarebbe stato bello avere un thermos e una bella poltrona. Quando sono arrivato al Covo mi sono reso conto che mi sarei dovuto sedere per terra, insieme alla cinquantina di persone presenti. Niente sedie comode, thermos dimenticato a casa. Un disastro, insomma. Mi ricordavo del Covo stipato all’inverosimile durante il concerto dei Franz Ferdinand, e sembrava quasi irreale stare là, con lo spazio intorno, la possibilità di stare seduti e di allungarsi anche un po’.

Di supporto ai BFBS c’era Christina Carter e la sua chitarrina. Se il protagonista di Rain Man avesse saputo suonare e cantare l’avrebbe fatto così. Solo che miss Carter non era brava quanto Dustin Hoffman, e quindi il suo concerto si è rivelato mortale. Ricordo un testo di una canzone di circa sei minuti (o sessanta, o uno, chissà): “Tu sei come una canzone. Una canzone mai completata.” Basta. Intorno a me si è presto creato il vuoto. Alla fine la Carter si è scusata dicendo che aveva la tosse. Ma secondo me ha dei problemi molto decisamente (ehm) maggiori.

Avrei voluto parlarne con lei perché mi si è seduta accanto durante il concerto dei BFBS, ma non è stato possibile. Perché sono rimasto del tutto rapito nell’ascoltare le melodie chitarriniche di Jeffrey Alexander e Miriam Goldberg. Lei suona il violoncello. Ecco, io ho sempre avuto un rapporto strano con il violoncello. A parte l’erotismo che emana qualunque donna che suoni questo strumento, intendo. Perché il violoncello è lo strumento ad arco che più ricorda, come timbro, frequenza ed estensione, la voce umana. Quindi ho sentito Jeffrey Alexander suonare accompagnando la voce della Goldberg e del suo strumento. E sono rimasto per un’oretta, come un bimbo, a sentire raccontarmi le storie.
Bellissimo.

Agenda: un po’ di cazzi miei

Ancora in piena sbornia per il successo delle Guida per la matricola (mi hanno già contattato Einaudi, Routard, Michelin, Good Year e l’ufficio legale del Comune di Bologna), vi segnalo alcuni appuntamentelli molto giovani, molto cool, molto scena. Molto.

Stasera alle 22 c’è il concerto dei Black Forest/Black Sea al Covo. Ascoltando il loro ultimo disco Forcefields and Constellations, preferirei sentirli in un contesto diverso dallo storico club bolonnaise. Che ne so, un teatro barocco, una sala da the, camera mia. Mi porterò una sedia comoda e un thermos. E delle cartine. Metti che mi perdo…

Domani ale 2230, tanto per inondare l’etere di monnezza, ricomincia la mia trasmissioncina Monolocane. Trasmetto dalla solita radio, 96.3 o 94.7 MHz se siete a Bologna, oppure in streaming. Partecipate numerosi, tanto non si vince niente. Però potete richiedere le canzoni e dedicarle, come si faceva un tempo. Oh, che romanticone. Se non ce la fate a sintonizzarvi questo giovedì, avete tutti i giovedì della stagione per farlo. Impegnatevi. Ecco il promo.

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Venerdì alle 18, per motivi che mi sfuggono, sono stato invitato al Mel Book Store di Ferrara per presentare il libro di Gianluca Morozzi Blackout. Secondo me il vecchio Moroz si è sbagliato. O forse vuole farmi ripetere la performance che ho fatto in radio nel luglio scorso. L’ultimo che ha parlato del libro è stato Aldo Busi ad Amici di Maria De Filippi. Ecco.
Infine, per aumentare la fuffa nella Grande Rete, ho aperto da qualche giorno un fotoblog.

Adesso mi manca soltanto un lavoro molto ben pagato e sono a posto.

Guida per la matricola – quarta e ultima parte

6. Musica e cultura
“La dotta” è uno dei modi di nominare Bologna (“la grassa” e “la rossa” sono altri due, delle “tre T” ho già parlato altrove). Ma non si tratta solo di università: la città offre un numero spropositato di eventi culturali ogni giorno, ha il più alto numero di sale cinematografiche in rapporto al numero dei residenti, molti teatri, librerie a profusione. Certo, un cocktail fatto male può costare anche dieci euro, ma che c’entra.
Librerie. La più nota è la Feltrinelli di Piazza di Porta Ravegnana, sotto le due torri. Fornitissima, dotata di commessi di solito scazzati e poco gentili, dentro ci troverete di tutto. Anche dei libri. Il sabato e la domenica è affollata come la riviera romagnola a Ferragosto. Da segnalare anche la Feltrinelli di via dei Mille, aperta anche di notte, meta di intellettuali vampireschi e di pornomani disorientati come le falene dalla luce al neon dell’insegna, e la Feltrinelli International di via Zamboni, dove si possono comprare film, fumetti, libri su cinema e musica. Il paradiso del giovane, insomma. Anche perché ci sono i libri in lingua straniera, e di solito li comprano gli studenti Erasmus quando sono tristi perché gli manca il suolo natio. Quindi deboli. Quindi facilmente colpibili. Oh, io non vi ho detto niente. Fate voi. Da segnalare anche la Libreria di teatro, cinema e spettacolo di via Mentana, gestita anch’essa da un burbero individuo che apre quando cazzo gli pare; la Libreria delle donne, adesso in via San Felice, ma anni fa in via Avesella, sul cui muro campeggiava la scritta/graffito “Un uomo morto è uno stupratore in meno” (ovviamente le donne della libreria delle non c’entrano con la scritta, ma mi veniva un senso di disagio a leggerla…); esisteva anche Mondo Bizzarro, un negozio (con annesso spazio espositivo) in cui potevate trovare letteratura e cultura estrema. Che ne so, fumetti di liceali lesbiche giapponesi con disturbi della personalità, film di commercialisti vampiri, magazine di feticismo del segnale stradale, sadomaso tra sindacalisti. Molto interessante. E i gestori ne sapevano ed erano simpatici. Oh. Se ne vanno sempre i migliori.
E passiamo ai cinema. Ce ne sono tanti, quindi non ha senso che io parli di tutti. Solo qualche dritta. Se siete dei veri cinefili non potete prescindere dalla programmazione del cinema Lumière, dove ci sono retrospettive, rassegne e a volte anche i dibattiti, proprio loro. Il pubblico delle due sale del cinema Lumière, a differenza del pubblico normale, è silenziosissimo durante la proiezione. Ma rumorosissimo prima e dopo. Mentre aspetta che il film inizi, il pubblico del Lumière disquisisce sulla filmografia completa del regista del film in programma, come riferimenti critici accurati. Dopo, commenta il film, proponendo svariate ipotesi di lettura, anche lì con note a margine. Insomma, una rottura di palle. Sempre che non ci sia il dibattito. In tal caso prendono la parola gli individui più assurdi che, dopo avere fatto una domanda-intervento-comizio di mezz’ora, si accasciano al suolo, emozionati perché è una delle prime volte che tante persone paiono attente a quello che dicono, dopo una vita di silenzi e di frustrazioni.
Ma non si vive di soli libri e cinema, no? Ovviamente anche la musica è importante. Quindi, ecco a voi alcuni negozi di dischi e luoghi di concerti. Iniziamo dai negozi di dischi.
Uno dei più noti è Nannucci, in via Oberdan, uno dei primi in Italia a fare vendite per corrispondenza. Ancora adesso è molto frequentato perché conveniente. Le cassiere non sono simpatiche, ma i ragazzi lavoranti ne sanno abbastanza. Ci trovate anche vinili e ragazzi appassionati di musica che non hanno un blog: roba vintage, insomma.
Il Disco d’oro, in via Galliera, è molto fornito, ma è il tempio dello snob. I proprietari ti guardano male se non compri la musica che piace a loro, anzi, sembra quasi che ti facciano un favore a venderla. Ma attenzione: non stiamo parlando di Stevie Wonder versus il rock, come in Alta Fedeltà, ma del peccato estremo (agli occhi dei proprietari) di non conoscere le ultime tendenze della musica elettronica della Sassonia-Westfalia. Imperdonabile.
Ricordi Media Stores, in via Ugo Bassi, è importante per vedere che musica si compra veramente nel mondo, e per ridimensionare ogni snobberia e indifighetteria. Qui ci sono stormi di adolescenti che prendono a manate cd di Limp Bizkit e Christina Aguilera. I calendari di Eminem. I DVD dei Blue. Mica cazzi. Istruttivo, ridimensionante.
Rock Shop: sito in via della Grada, lo segnalo perché è ben fornito, c’è un buon catalogo a prezzi medi, ma soprattutto perché è il primo e unico negozio di dischi a Bologna dove sia stato installato un distributore di bibite. Refrigerante.
Ma dove sentire dal vivo i gruppi di cui avete acquistato il cd? Attenti, perché nei prossimi paragrafi non si parlerà solo di cultura, ma soprattutto di stili di vita, etichette, scena. Sì. Scena. E che volete farci…
Estragon: un tempo c’erano i gruppi ggiovani, e l’organizzazione era legata anche all’ambiente della sinistra universitaria. Dai Modena City Ramblers ai Punkreas: erba ed erbazzone, sentirsi alternativi e diversi, insomma. Da quest’anno dovrebbe ospitare i concerti più grandi della stagione del Covo: e qui apriamo un capitolo importante. Volete essere veramente con la gente che conta? Andate al Covo, soprattutto il giovedì, venerdì e sabato. Usate alcune guide come si fa quando si va all’estero con la Lonely Planet e non stupitevi di quello che sentirete provenire dal palco. È l’indie, cari, termine vago ma adatto a tutte le stagioni. I gruppi indie (ma ne riparleremo) si dividono in tre: ci sono quelli che hanno il nome formato dall’accostamento di due termini apparentemente scollegati (es. Bycicle Roosters, Screaming Trees), quelli che hanno il nome formato da una frase bizzarra (es. Death Cab for Cutie, No Residents Allowed, I Am Kloot) e infine quelli che hanno un nome normale, ma di solito fanno musica triste (es. New Year, Karate, Brainwasher). Fregatevene: imparate tutti i nomi dei musicisti che suonano, ma attenzione: ognuno dei membri di ogni gruppo ha almeno un progetto musicale parallelo, quindi siate completi nell’esposizione. Affermate sempre che il loro primo disco è il migliore, e che hanno suonato meglio nel concerto segreto del Festival del salame caprino di Forlimpopoli, comprate spilline che non avevate il coraggio di mettere neanche alle medie ed passeggiate con sicumera nel Covo. Poi potete anche evitare di vedere il concerto, ma scrivetene una recensione da qualche parte.
Atlantide: si trova alla fine di via Santo Stefano. Imperdibile per sentire le nuove tendenze del grindcore portoghese, dell’hardcore lituano e dell’uso combinato di urla e chitarre distorte. Però c’è la birra a poco.
Cassero: uno dei veri posti di tendenza, è la sede dell’Arci Gay e Arci Lesbica. Queerwave, sculettamenti, ma anche tanti etero che hanno il terrore di essere sfiorati, ma si mostrano lo stesso là in mezzo. I gay e le lesbiche si divertono e se ne sbattono. Anche se a volte la qualità della musica lascia a desiderare.

E siamo arrivati alla fine. Se tutto è andato bene, avete una casa, bei libri, film dischi, la pancia piena, un cannone in mano, un/una partner, non avete dato il vostro numero di telefono ai marxisti-leninisti, quando entrate al Covo vi salutano anche le spine della birra, avete tra pochissimo un appuntamento al 36. Quando ecco che vi sorge un dubbio: ma io non ero venuto a Bologna per studiare?

We'll always have Paris

Ebbene sì. Me ne vado per una settimana a Parigi. A cazzeggiare, eh, che di lavoro mica se ne parla.
Il mese di maggio si annuncia denso di impegni e appuntamenti.
Intanto vi ricordo che il 16 maggio c’è il Blogpark, a Bologna. Iscrivetevi, venite, partecipate.
Il 21 maggio c’è il Blogrodeo. Come sopra.
In mezzo, come al solito, farò blogdormite, berrò blogaperitivi, leggerò bloglibri. Argh.
Devo dire che, però, mi dispiace non essere in patria per il primo maggio. Non solo mi perdo la festa a Gorizia per l’entrata della Slovenia nell’Unione europea, ma non sarò al concerto dei Radio Dept. al Covo. Polaroidi ed Ink, siete stati grandi, veramente. Sono lì con voi con il cuore. E una baguette in mano. Fatemi sapere com’è andata.
Mi dispiace, insomma.
Ma, alla fine, ho sempre Parigi, no?

Du' amici, una loopstation e 'na chitara

Sono tornato dal concerto di Damien Rice e, sinceramente, vorrei andarmene a letto. Solo che non posso, per colpa sua. Erano sette anni che non andavo in un fast food a mangiare, perché mi sono fatto convincere da F.? E non ho neanche l’Alka Seltzer a casa. Potrei farmi uno shottino di Mister Muscolo Idraulico Gel, ma credo che potrebbe forarmi l’intestino. Quindi farò finta di parlarvi del concerto, fino a che il rutto finale non mi dirà che il lungo processo di digestione è completato. Considerando che l’ultima esperienza con fast food e affini ha fatto sì che riuscissi a digerire questo in sole sette ore, il post sarà chilometrico.
Quando arriviamo io, F. e Whopper, il locale è già pienissimo. Facciamo in tempo a sentire Josh Ritter, musicista di supporto, che suona la sua ultima canzone senza microfono e con una chitarra acustica non amplificata. Ovviamente non si sente una mazza. “Forse l’ha fatto per avere intimità col pubblico”, dico io. “Forse è imbecille”, dice Whopper, che non accenna a muoversi dal mio stomaco.
Intanto ne approfitto per dare un’occhiata al pubblico. Si piazzano davanti a me un ragazzo e una ragazza. Altissimi, come è di rigore. Lei scrive messaggini come “anke tu 6 qui?” e li manda ai vari Klaudi, Katerine, Kiare, Karle della sua rubrica (sì, ho fatto il guardone). Il ragazzo alto le offre una canna, ma lei rifiuta. “Non mi faccio le kanne”, dice. “Peggio x te, kazzi tuoi”, pensa lui. “Kuesta me la fumo da solo. 6 proprio una stronza”.

Dopo avere sentito un disco intero di Nick Drake, entra finalmente Damien Rice, che attacca con una canzoncina in francese, che include parecchie volte la parola “chanson” (metatestualità, presumo). Ogni volta io e F. ci guardiamo e pensiamo “voilà, le garçon ancien c’est moi”. La canzone, peraltro, finisce con il verso “french wine and cheese”. E vabbè. Come se ogni canzone in italiano, o che parla di Italia, finisse con pizza e mandolini.
Va bene, esempio sbagliato.
Poi Mr Rice ci delizia con varie chicche dal suo album, una bellissima versione di “Volcano”, per esempio, alla fine della quale uno del pubblico gli urla (testuale): “You break!”, cioè “Spacchi”. Se non ci fossero i corsi della De Agostini, where we would go to end (dove andremmo a finire). Si palesa anche un altro esemplare del pubblico. Alto pure lui, e ti pareva, con maglietta bianca a maniche lunghe attillata, si muove e si muoverà per tutto il concerto come se sentisse musica-da-ballare, dalla disco al liscio. Insopportabile, ma apprezzabile per il suo rigore, la sua coerenza e il suo eclettismo. “Sei un fesso!”, gli urla ad un certo punto Whopper dalle mie viscere, con una certa arroganza. Io penso di sfruttare questo dono per dare una svolta alla mia vita e diventare ventriloquo professionista.
Ad un certo punto, però, Rice si ricorda di avere con sé una loop station…

Flashback. Casa Rice, Natale di molti anni fa.
“Damien, bello di mamma e papà, che cosa vuoi che ti porti Babbo Natale quest’anno?”
“La pista Polistil”
“E invece no, ti ha portato un sequencer”
“Cazz’è?”
“Un apparecchio che tu ci registri una sequenza e lui la ripete”
“Se lo vendo e mi compro la Polistil?”
“Vedrai che se un giorno farai il musicista ti servirà”
“Ma io voglio fare il parrucchiere”

Emblematica e lapidaria la frase che mi ha rivolto G. dopo sei minuti di loop: “Ha un po’ stracciato la minchia”. Io, F. e Whopper annuiamo.
Poco dopo, ecco arrivare la cover di “Hallelujah”, già di Leonard Cohen, rifatta a sua volta da Jeff Buckley. Una cover al quadrato, insomma. Il pubblico reagisce cantandola in maniera sommessa e composta. Io mi sento a disagio come se fossi alla messa di Natale, anche perché Whopper la canta stonato, apposta.
Il concerto continua, alternando momenti intimi altissimi e schitarrate un po’ fuori luogo, in cui però pare che Damien si diverta tantissimo.

Flashback. Casa Rice, un pomeriggio di inverno. Frastuono proveniente dal piano di sopra. Mamma Rice sale le scale inviperita e scopre il giovane Damien con una chitarra a tracolla, distortissima. Prende il distorsore e glielo rompe sotto il pesante zoccolo di legno irlandese.
“Quante volte ti ho detto che devi fare piano? Puoi suonare la chitarra, ma solo canzoni tristi e intime, arpeggiando con grazia”
“Ma io voglio fare il rocker, mamma”
“Un tempo volevi fare il parrucchiere. Io e papà ti abbiamo anche comprato la loop station apposta. Ingrato”

Prima dei bis la bella violoncellista (le violoncelliste sono tutte belle) Vyvienne fa una cover di “Seven Nation Army”. Mentre io mi chiedo il perché di questa idiozia, il pubblico è esaltatissimo e si agita a ritmo. Il danzatore di cui sopra, non ne parliamo: sembra Tony Manero. Whopper anche. Lo convinco a stare fermo promettendogli che, quando sarei arrivato a casa, mi sarei fatto una padellata di alici e burro fuso. Per nutrirlo.
Rientra Damien Rice, che, dopo un po’ di schitarrate e giochini con i loop, chiude con una bellissima versione di “The Blower’s Daughter”.

Il concerto, alla fine, mi è piaciuto, ma preferirei avere Damien Rice nell’armadio, in modo tale da poterlo tirare fuori quando sono triste, e farlo suonare per me nella mia stanzetta, così come lui suonava nella sua, dimenticandosi delle gioie del suono distorto e dell’abuso di loop.
Vado a prepararmi le alici. Le promesse sono promesse.

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