intervista

Gipi(s)

Una delle cose che ricordo con più piacere di quando lavoravo per la nota-editrice-di-fumetti è stato contribuire all’uscita di quel capolavoro che è La mia vita disegnata male di Gipi. Ne abbiamo parlato in radio, ne ho parlato con Gipi stesso poche ore dopo che ci aveva mandato la prima versione del volume in redazione.
Ho affrontato quindi la lettura del nuovo lavoro del fumettista con un misto di nostalgia e curiosità nei confronti di questa raccolta intitolata Diario di fiume e altre storie: storie lunghe, brevi e brevissime, raccolte nel tempo. Qualcuna inedita, qualcuna no. Che dire? Che è l’ennesima conferma del talento di narratore, oltre che di fumettista (termine un po’ riduttivo), di Gipi, che rimbalza, oltre che tra i formati e il respiro diverso dei racconti, tra una serie di opposti: è ironico e tragico, disegna e scrive a penna, cancellando le parole e riscrivendole, creando figure tremolanti, come solo lo possono essere nei ricordi che si tenta disperatamente di fissare. Altre volte, invece, i suoi acquerelli sono lirici e quasi panici, certe tavole paiono davvero uscire dalla carta, per farsi acqua, cielo, alberi, strade. E spesso, libero da ogni riserva, come ogni artista dovrebbe essere (e solo il cielo sa quanto poco uso questa parola), Gipi irride se stesso e noi, rivolgendosi direttamente al lettore, mostrando trucchi, o celandoli appena, con un ghigno che conosco bene. Talvolta, infine, mescola tutto: e allora, come uno sbordare del pennello fa finire una tinta liquida sul segno di una penna, o come uno sbuffo di biro macchia un campo di colore, ci si ritrova completamente nelle sue mani a ridere, piangere, incazzarsi.
Non ha senso paragonare Diario di fiume a opere complete e strutturate (pur sembrando improvvisate o quasi) quali S. o LMVDM: ma qua, tra le pagine di questa raccolta, appare (e scompare con una pernacchia) il Gipi più vero. Anzi, i Gipi. Ne parliamo domani alle 1545 a Maps. Con Gipi. Almeno uno.

Off Maps @ Modo Infoshop

Come siamo giovani, io e Jonathan, eh? Quando, qualche mese fa, ci è venuta l’idea di “esportare” la nostra trasmissioncina, il nome è venuto abbastanza presto. Quindi siamo andati da Modo, dove abbiamo immediatamente trovato disponibilità e ospitalità. E stasera si inizia.
Insomma, primo appuntamento per Off Maps @ Modo Infoshop, che vuole essere una serie di incontri dove ricreiamo il salottino radiofonico nel salottino (reale e davvero comodo) della libreria-e-non-solo di via Mascarella.
Questa sera parliamo con Luca Castelli de La musica liberata, un volume edito da Arcana che fa il punto sulla “rivoluzione musicale” degli ultimi dieci anni. Da Napster a In Rainbows, insomma. E questo pomeriggio, ovviamente, Luca è ospite a Maps.
Prossimo passo: la conquista della Kamchatka.

Dalla prima all'ultima carrozza – Express Festival 2009

Sette concerti in dodici giorni, band diverse tra loro, due location e infiniti cambi di temperatura. Ehm, cercherò di essere breve. Se cliccate sulle fotine, ne potete vedere delle altre. Pensate un po’.

Lydia LunchDal 1977 con amore – Lydia Lunch (20 maggio)

L’avevo intervistata nel pomeriggio a Maps, e aveva concluso la telefonata dicendo letteralmente “portatevi le palle, perché avrò il pisello di fuori”. Questa è Lydia Lunch. Un personaggio che è entrato a gamba tesa nella no wave newyorchese e che lì è rimasta, ben sapendolo. Una carriera fatta di dischi fondamentali e altri decisamente meno riusciti. Sul palco del Locomotiv dice “siamo nel 1977”: prendere o lasciare. Vestita in maniera improbabile, tortura la sua chitarra, ma tira fuori uno spettacolo divertente e consapevole di essere qualcosa di altro, che viene da un altro tempo. Pubblico variopinto e composito, ma quelli, anzi, quelle più truccate non erano nate quando la giovane Lydia faceva comunella con James Chance. Decisamente un bell’inizio.
Sweat, sex, rock’n’roll – Boss Hog e Micragirls (21 maggio)
Cristina MartinezSeconda giornata del Festival all’insegna del sesso e del sudore. Le Micragirls sono tre finlandesi giovanissime, che fanno un garage rock sghembo e scanzonato, divertente. Poi salgono sul palco i Boss Hog: Cristina Martinez non si risparmia, così come Jon Spencer e gli altri della band. Pantaloni di pelle, repertorio preso dai dischi dei Boss Hog, con canzoni che sembrano non vedano l’ora di uscire da bocche, chitarre e tamburi, dopo otto anni di assenza della band dai palchi. Uno dei migliori concerti dell’anno. Giudizio che, lo ammetto, potrebbe derivare anche dal fatto che l’ho seguito tutto in prima fila, a una spanna di distanza da quella meraviglia che è (ahimè) la moglie di Jon Spencer. Eccezionali.
Genesis P-OrridgeMutations – Psychic TV (28 maggio)
La band di Genesis P-Orridge inaugura la seconda tranche dell’Express, all’Arena Puccini. Come nel caso di Lydia Lunch, siamo trasportati altrove, in una dimensione altra, data prima di tutto dall’ormai avvenuta mutazione di Orridge nella sua scomparsa signora. Caschetto biondo, occhi perennemente sgranati, movenze che tentano di essere sexy e provocanti. Ms Genesis ce la mette tutta, e così la sua band. Quello che tirano fuori è uno spettacolo divertente, ma sfuggente, talvolta poco compatto. Rimane, però, una sensazione di divertissement, di intrattenimento che, alla fine, ripaga. Certo, un po’ più di energia non avrebbe guastato, ma in fondo la signora ormai ha una certa età, sebbene sembri comunque più a suo agio a fare le mossette su un palco che a servire il te delle cinque.
Torsten KinsellaSpace Trip – God Is an Astronaut e Nicker Hill Orchestra (29 maggio)
La Nicker Hill Orchestra suona un post rock diligente e ben fatto, ma forse deve ancora acquisire forza e compattezza per risultare efficace. Dopo di loro, finalmente vedo la band irlandese, al chiuso del Locomotiv Club. Ed è uno dei live che vale la pena di vedere in quanto concerto dal vivo. Mi spiego: i tre tirano fuori sul palco dei suoni infinitamente migliori che su disco, e danno ancora senso all’abusata espressione “post rock”. Non lasciano un attimo di tregua, affascinano e coinvolgono, senza avere paura di cadere, in certi momenti, in squarci di riff e ritmi quasi-metal, per poi risollevarsi eterei su nel cielo, portandoci un po’ dove vogliono loro. Quando, dopo un’ora e passa, il concerto finisce, si è quasi storditi, e si vorrebbe fare un altro giro, subito. Un solo appunto: è lodevole l’idea dei God Is an Astronaut di associare dei visual ad ogni brano, è buona parte dello spettacolo, ma molti dei video sembrano davvero visti e rivisti. Peccato, no?
Matmos liveMinimalia – Matmos e Macchine sonore (30 maggio)
Macchine sonore è un progetto di Dario Neri, che, usando materiali industriali (telai, ruote di acciaio, martelletti) e vari pedali, crea loop ipnotici e affascinanti. Forse la location dell’Arena Puccini, in questo caso, non ha aiutato, ma comunque il progetto è da tenere d’occhio. Dario rimane sul palco anche quando ci salgono i Matmos. Il duo è spiritoso, simpatico e decisamente a suo agio. Il set che propongono, però, si rivela alla fine un po’ noioso. Certo, i Matmos riescono a tirare fuori suoni davvero da tutto: il momento davvero memorabile del concerto è una partita a dadi (con dadi da venti, i nerdacci che sono) che diventa una base per un brano musicale. Ma non mi basta, che vi devo dire?
Akron/Family liveIndiegestione – Akron/Family, Women e His Clancyness (31 maggio)
Penultimo giorno del Festival dedicato più di altri alla musica indie, qualsiasi cosa questo termine ormai voglia dire. A patto che voglia dire qualcosa. Del progetto di Jonathan dico solo bene: ormai ha acquisito una sua forma e dimensione, con brevi brani sognanti e eterei, che si reggono bene sulle trame di chitarra e voce e su loop di batteria. Ma la vera sorpresa sono i Women. La band canadese, lo ammetto, su disco non mi aveva convinto gran che. Brani che sembravano essere complicati ad hoc, con suoni creati apposta per tenere a distanza l’ascoltatore. Dal vivo i Women si riscattano ai miei occhi: la sezione ritmica è semplicemente incredibile, e anche le canzoni sembrano concedersi un po’ di più, senza perdere la loro complessità. Pubblico entusiasta, e credo che questa soddisfazione sia derivata davvero, più che da “ehi, dopo avere ascoltato il loro disco d’esordio mille volte me li vedo finalmente dal vivo”, da un “ma chi accidenti sono questi? Ehi! Vado a scaricarmi il disco (siamo nel 2009, facciamocene una ragione)”. Infine, Akron/Family. Beh, partiamo dal presupposto che non li ho mai amati molto, è la prima volta che li vedo dal vivo e mi fanno una certa impressione. Sono eccezionali a suonare, hanno una coesione invidiabile tra di loro, ma dopo un’ora di concerto sono semplicemente stanco. Stanco, sì, non ho più voglia di seguirli, hanno dato a sufficienza in sessanta minuti. Invece lo show dura per altri venti, almeno. Che i fan della band non me ne vogliano, ma qua bisogna togliere, avere il coraggio (sempre a mio parere) di fare set più corti, e magari più efficaci.
Sunn O))) liveOmbre e nebbia – Sunn O))) (1 giugno)
L’Express Festival si conclude di nuovo dentro il caro, vecchio Locomotiv Club, con uno dei concerti più attesi dell’anno. I Sunn O))), che hanno appena pubblicato Monoliths and Dimensions, per me già uno dei dischi dell’anno, tornano in Italia con un tour che celebra i dieci anni dall’uscita di The Grimmrobe Demos, rifacendo il disco per intero dal vivo. Lo potete vedere dalle foto: il Locomotiv completamente ricolmo di fumo, le figure incappucciate di Stephen O’Malley e Greg Anderson che si intravvedono appena sul palco, l’aria che risuona di accordi bassissimi e potenti per più di un’ora. I Sunn O))) portano all’estremo l’idea di concerto, e forse anche di musica: assistere a un loro concerto, chiamiamolo così, è davvero un’esperienza sensoriale, fisica, che prova e sconquassa. E’ qualcosa di vicino a una performance di arte contemporanea, più che altro. Ma i due sanno decisamente il fatto loro: ascoltare l’ultimo disco per credere (o per ricredersi). Una serata memorabile.
Ecco qua, insomma. Le ultime parole di questo lungo post vanno, però, al Locomotiv, il posto dove ho passato, anche quest’anno, un sacco di tempo, dove ho messo i dischi, visto concerti, bevuto e chiacchierato. Dove mi sono divertito e consolato. E quindi grazie a tutti quelli del Locomotiv, a Gabriele, Michele e i ragazzi del bar, e i fonici, e tutti, davvero: perché ci vuole coraggio, di questi tempi, in credere in quello che fate. Bravi. Non vedo l’ora che sia settembre per ricominciare.

Noi e loro

Il mondo non è dei giovani, tanto meno è degli adolescenti: gli adolescenti ci sono, ma vengono sfruttati, forse più di altri segmenti di mercato, come puri e semplici consumatori. Non determinano, vengono determinati. Non è colpa loro, o almeno non del tutto.
Il nuovo libro di Andrea Bajani, Domani niente scuola, non dice mai queste cose esplicitamente, ma il suo approccio è un modo diverso e originale di parlare di adolescenza. Qui siamo lontani dalle notizie dei telegiornali, in cui capi redattori eccitati dalle nuove tecnologie potevano sperimentare l’ebbrezza di mandare un video di YouTube in prima serata: vi ricordate, c’era un periodo in cui le scuole italiane venivano rappresentate come un incrocio tra l’Iraq e un bordello. Sex&violence, una formula vincente da sempre, sotto la quale stavano le “notizie” dei ragazzi che davano fuoco, toccavano culi, fumavano in classe, “notizie” che davano la stura all’esercito dei Crepet e a usi e abusi dell’espressione “disagio giovanile”.

Bajani, invece, che fa? Segue, o meglio, si mette in mezzo a tre classi di liceali in gita: va due volte a Praga e una a Parigi. Osserva, chiacchiera, ascolta con loro la musica (a questo proposito, se vi interessa, qui c’è un’intervista che gli ho fatto a Maps). Ma, intelligentemente, evita ogni pruderie, e non entra nelle loro camere. Perché? Ma perché la privacy – seppure condivisa con i compagni di classe – è fondamentale a quell’età, e non solo). Parla con loro, ma non li interroga, ci chiacchiera, ma non li intervista. Sta in pullman insieme a ragazze e ragazzi, ma non fa finta di essere uno di loro. Quello che viene fuori è un bel libro, dentro al quale c’è un ritratto (chiaramente parziale) del nostro oscuro oggetto, gli adolescenti. Ma cosa sono, quindi? Sono tutto: c’è chi si interessa di politica e chi no, chi è timido e chi è sempre sotto i riflettori, chi ama la musica commerciale e chi ne preferisce altra. Un’ulteriore prova della veridicità del ritratto e dell’onestà intellettuale di Bajani.

Il libro è divertente, molto divertente. E tenero: attenzione, tenero, non pietistico. La tenerezza è un sentimento puro, che non va perso, credo. Se ne proverete mentre sfogliate le pagine di Domani niente scuola, beh, c’è ancora speranza. Potete ancora fidarvi di voi stessi e quindi, forse, degli altri.

“(…) è una fissazione degli adulti, quella di cercare riparo dalla pioggia, di pensare all’acqua come a una minaccia. E’ una fissazione degli adulti, esattamente come è una fissazione degli adulti quella di smettere di cantare a voce alta, o di smettere di correre. O come quella di smettere di fidarsi.”
Andrea Bajani – Domani niente scuola – Einaudi, Torino, 2008, p. 140

Tutta colpa di Ghareeb

Dalla mailing list legata a Baldoni, mi arriva la segnalazione di un’intervista fatta a Maurizio Scelli, che nel 2004, quando Enzo fu rapito e ucciso, era il commissario straordinario della Croce Rossa Italiana in Iraq. Prendetevi cinque minuti e leggetela. Riporto qua sotto una delle ultime domande e la seguente risposta di Scelli.

Recentemente il quotidiano arabo Al Haiat, ha pubblicato la foto di Saad Erebi al Ubaidy, a capo nell’agosto del 2004 dell’Esercito Islamico che attuò e rivendicò, l’assassinio di Baldoni, seduto accanto al comandante delle Forze Usa in Iraq, il generale David Petraeus e il vice premier iracheno Bahram Saleh. Ci sono gli estremi per aprire un’inchiesta?

Dubito molto che in Iraq, oggi come oggi si possano fare delle inchieste volte ad accertare chi abbia realmente rapito e ucciso Enzo Baldoni e il suo autista Ghareeb, del quale fece molto male a fidarsi e credo che ne sia il principale responsabile al punto da essere stato eliminato in quanto testimone scomodo.

Capito? Scelli mette l’ennesima pietra sopra al caso Baldoni. Evita la domanda, più che legittima, e chiosa con un goffo tentativo, dando la colpa all’autista di Enzo. Fatemi capire: Ghareeb consegna Enzo a qualcuno (qualcuno che poi è stato visto con gli americani, ma nel casino dell’Iraq odierno non solo tutto è possibile, ma tutto pare naturale). E poi viene eliminato in quanto testimone scomodo di una cosa che ha fatto lui stesso?

Ancora una volta, dopo tre anni e mezzo, sono triste e senza parole.

Ad alzo zero

Ho chiesto all’Einaudi l’ultimo libro di Vitaliano Trevisan, Il ponte – Un crollo, subito dopo avere letto un’intervista allo scrittore vicentino su “Il Venerdì” di Repubblica. In quell’articolo, pubblicato due o tre settimane fa, Trevisan sparava a zero su tutto e tutti, con una lucida rabbia che mi aveva davvero sorpreso. Vorrei essere più preciso, ma purtroppo ho buttato quella copia del giornale.

Non appena ho iniziato a leggerlo ho pensato a due cose. La prima: voglio intervistare Trevisan. La seconda: ho paura di farlo. Non mi capita spesso di avere paura di fare qualcosa: sul lavoro, al massimo, ho avuto una sorta di timore reverenziale nel telefonare o incontrare qualcuno.
E più andavo avanti nella lettura più questi due sentimenti contrastanti aumentavano, alimentandosi l’uno con l’altro.

Il ponte è una sorta di lunga confessione mentale di un uomo, nato a Vicenza, ma che ha lasciato da una decina d’anni l’Italia e tutto lo schifo che la forma. Trevisan, attraverso le sue parole fitte (nella parte centrale del romanzo, più di cento pagine, c’è solo un salto di paragrafo e due “a capo”, alla faccia della presunta “poesia delle pagine bianche” di cui parlavo qualche settimana fa) esprime qualcosa che è più di un generico disprezzo del nostro paese: in fondo, chi è che non si lamenta di come vanno le cose in Italia? La rabbia di Thomas, il protagonista del libro, è diretta e cristallina come quella espressa da Trevisan in quell’intervista, nonostante Thomas parli continuamente di una malattia, che forse lo eleva a diverso e lo stacca dalla massa dalla quale ha tentato di isolarsi fisicamente trasferendosi in Germania. Nel suo lungo monologo, il narratore si interroga sulla scrittura, sulla famiglia, sulla politica, sulla società e sulla cultura italiana, sul suo cedimento ormai definitivo, già preannunciato, con la consueta brillante lungimiranza, da Pier Paolo Pasolini trenta e passa anni fa.
E non è un caso che Pasolini torni come punto di riferimento, come unico possibile interlocutore italiano, oltre a Thomas Bernhard. Ma non “da morto”, bensì da vivo, attraverso le sue parole, che possono essere solo rilette, senza riesumazioni di sorta.
A questo proposito Trevisan fa dire al suo protagonista delle parole lapidarie a proposito della morte, il vero tema centrale del romanzo:

“(…) i morti sono tutti uguali, si è detto, e dunque vanno onorati tutti nello stesso modo, ed è così: i morti sono tutti uguali, ma il giudizio dovrebbe riguardare solo quanto hanno fatto, o non hanno fatto, da vivi. I morti sarebbe meglio lasciarli dormire, e invece essi vengono riesumati e ricomposti di continuo, e usati di continuo per gli scopi più bassi e meschini, col risultato che si continua a raccontare sempre e soltanto la storia di un fallimento dopo l’altro, a cui manca sempre la parola fine, cioè manca sempre un responsabile. In fondo, pensai, è esattamente quello che faccio anch’io. Cercare di dare un senso al mio proprio frammento di presente in quanto presente in cui il passato non smette di crollare (Vitaliano Trevisan, Il ponte – Un crollo, Einaudi 2007, pag. 115)

Ecco l’intervista a Vitaliano Trevisan!

Roma paranoica

Il primo rap italiano, per me, era quello di Napoli, dei Bisca e dei 99 Posse. Ma il primo vero grande disco di rap italiano che ho comprato è stato sicuramente Conflitto degli Assalti Frontali, più di dieci anni fa.
Quello, molto più della produzione dei 99 Posse, è un disco che dura nel tempo, e credo che questo sia in buona parte dovuto alla produzione di Don Zientara (Fugazi), senza nulla togliere ai beat e alle rime degli Assalti.
Quello era un disco fortemente metropolitano, che vedeva le zone grigie di una città che si attraversava come un oceano, una città che ha un’immagine talmente diffusa di luce e sole (anche fra gli insospettabili), da rendere impossibile il trovarci ombre quotidiane, ben diverse dalle lunghe ombre del Potere che da sempre turbano e formano Roma.
Era un disco maturo e di passaggio allo stesso tempo: e in fondo era quella l’età che attraversavano gli Assalti Frontali e anche io. Identificazione: et voilà, la magia è fatta.

Ho temuto sia quando ho sentito il disco successivo degli Assalti (HSL – Hic Sunt Leones), sia quando è uscito quello dopo ancora, Mi sa che stanotte. Ma ho visto che, sebbene con incertezze, qualche pensiero politicamente non così vicino ai miei, gli altri testi – sempre più personali e meno direttamente politici – mi ritrovavano appieno.

Ho conosciuto, invece, la musica del Colle der Fomento molto meno di dieci anni fa: ma in Odio Pieno e soprattutto in Scienza Doppia H ho trovato di nuovo uno sguardo diverso sulla città. Sono passati otto anni dall’ultimo disco, ed ecco che esce Anima e Ghiaccio. Lo sento con attenzione, ma il primo ascolto di un disco rap è sempre complesso. Verso la fine, però, vengo colpito da un verso, neanche il più bello del pezzo, nel ritornello.

RM Confidential, dove se becco qualche amico in giro ormai è solo coincidenza
Roma paranoica, dove la gente vive e si trascina solo per sopravvivenza
RM Confidential, dove se becco qualche svolta in giro ormai è solo confidenza
Roma paranoica, dove conta solo la facciata, conta solo l’apparenza

Ecco, “RM Confidential” è il negativo de “Il cielo su Roma”, è la sua versione con la leggera disillusione dei trent’anni. Basta questo per dirvi che Anima e Ghiaccio è un disco tanto grande quanto scuro. E vicino a molti, a me di sicuro.

Colle der Fomento – Myspace
Colle der Fomento – Wikipedia
“Il cielo su Roma” – testo
Un’intervista a Militant A su Mi sa che stanotte

Ciò che basta per non dimenticarsene

Mi capita per lavoro di leggere una buona quantità di libri di autori italiani contemporanei, e una rapida occhiata alla sezione “Ho letto”, quassù, e soprattutto il suo tasso di cambiamento, lo confermano. Spesso si è trattato di libri interessanti, divertenti, curiosi. Ma altrettanto spesso, dopo aver finito di leggerli, ho avuto la sensazione che mancasse qualcosa alla scrittura che mi aveva intrattenuto – magari anche piacevolmente – fino a là. Sentivo che spesso le storie che leggevo erano forzatamente ironiche, o costrette in “spazi” minimali, timide, quasi, ridotte in qualche parte.

Quando ho terminato la lettura di Perduto per sempre, ho pensato: “Oh, finalmente un romanzo con le palle“, e ho esordito allo stesso modo, con picchi di finezza inaudita, quando ho chiamato al telefono Roberto Moroni, l’autore.
Il suo romanzo non ha paura di niente, neanche di sbagliare: e le piccolissime imperfezioni che lo punteggiano raramente sono del tutto coperte dallo spazio, appunto, che il romanzo occupa. Lo spazio temporale, visto che abbraccia un periodo di venti anni e più nella vita degli Steiner, focalizzandosi negli occhi di Luigi, seguendo la sua vita da bambino fino all’età adulta. Pur iniziando alla fine degli anni ’70, Perduto per sempre (altro pregio) non sguazza nella forma-revival che, più o meno in filigrana, affligge molti dei romanzi italiani recenti. Non vuole fare una storia della cultura popolare, del costume, della società del nostro paese in un passato recente. Quello che importa è il tempo e i personaggi, una relazione che è sufficiente per strutturare un romanzo. Ecco, nel libro di Moroni c’è quello che serve, senza però scomodare assiomi “minimalisti” (le virgolette sono obbligatorie). Ci sono personaggi forti, e li sentiamo mutare pagina dopo pagina; le parole che dicono sono quelle che ci aspetteremmo di sentire, senza alcuna fastidiosa tendenza al discorso alto, alla chiosa, all’eco di un monologo interiore che aggiunga, o sia costretto a spiegare.
D’altro canto la storia non è originale, non si serve di colpi di scena, ha poco sesso, poca violenza (esplicita, almeno), pochissimo rock’n’roll, zero droga. Eppure Perduto per sempre c’è, esiste e si impone al lettore e alla lettura. Un libro che non si dimentica è un libro che, comunque, è una tacca sopra quelli di cui ci siamo scordati quasi tutto.

Ne parlerò in diretta con Roberto Moroni giovedì a Sparring Partner.

Luttazzi non gioca a dadi

Ieri prima nazionale di Barracuda 2007, il nuovo spettacolo di Daniele Luttazzi (se volete sentire un’intervista che gli ho fatto, andate qua).

Ecco l’intervista!

Ad un certo punto Luttazzi dice che il mondo va male perché Dio, ormai piegato dall’alcolismo e dalla sodomia, l’ha affidato ad un suo cugino scemo, Loris. Subito dopo si sente un prolungato rumoreggiare dalle gradinate del Paladozza, si sente una voce che protesta. Lo spettacolo si interrompe per qualche secondo, poi si vede una signora che se ne va, e lo spettacolo riprende.

Si è scoperto poi che la signora aveva un parente di nome Loris.

Un semplice divenire

Non ho mai parlato su queste pagine della mia passione per Ludovico Einaudi: sinceramente credo di averlo scoperto grazie al film Fuori dal mondo, in cui c’erano alcuni suoi pezzi. Mi aveva conquistato la semplicità con la quale riusciva ad affascinare l’ascoltatore, e ho iniziato a procurarmi i suoi dischi e i suoi spartiti. Una melodia reiterata con la mano destra, mentre la mano sinistra andava e tornava sulle note fondamentali dell’accordo. Einaudi non è facile da suonare bene davvero, ma dà soddisfazioni enormi anche ad un principiante come me.
In tutta questa ammirazione ho sempre messo da parte qualcosa che, invece, salta agli occhi di chiunque si avvicini (giustamente) alla sua musica in maniera “laica”. E’ difficile contrastare qualcuno quando dice che, in fondo, quello che scrive Einaudi è un po’ tutto uguale. Ho avuto quest’impressione anche io sentendo uno dei suoi ultimi dischi, Una mattina, uscito nel 2004.

L’ultimo disco di Ludovico Einaudi, ha un titolo azzeccatissimo: Divenire. Non c’è più solo lui col piano. In numerosi brani è coinvolta la Royal Liverpool Philarmonic Orchestra e c’è un uso per una volta funzionale dell’elettronica. Questo fa sì che il piano lasci spazi ad altri timbri, ad altri strumenti: sono le sezioni di archi o i loop a gestire alcuni tratti caratteristici delle composizioni, come il divenire (appunto) di terzine in quintine e poi settimine. Scusate, mi sono lasciato trasportare. Non c’è forse bisogno di appellarsi a nozioni teorico-armoniche per sentire davvero un disco del genere: ancora una volta la semplice musica di Einaudi arriva dentro, da qualche parte, e stringe, o abbraccia, a seconda dei casi.
Un altro punto essenziale sono le influenze: se qualcuno vi dicesse che è uscito nel 2006 un disco di musica “classica” che però ha richiami precisi (tanto per dirne due) a Radiohead da un lato e a Vivaldi dall’altro, che ne direste? Vi verrebbe subito in mente qualche orrendo pasticcio di un cinquantenne che vuole rifarsi una verginità musicale senza scontentare i maestri del conservatorio. Niente di tutto questo: il disco è perfettamente in equilibrio: i richiami sono richiami, non scimmiottamenti. Sono suggestioni che Einaudi controlla benissimo, e, soprattutto, inserisce nella sua musica, rendendola davvero nuova, in mutazione verso qualcos’altro, ma senza intellettualismi o facili concessioni. Appunto, in divenire.

Ludovico Einaudi – Divenire – La primavera da confrontare con
Antonio Vivaldi – Le quattro stagioni – L’estate, terzo movimento: presto

Ludovico Einaudi – Divenire – Uno da confrontare con i suoni di Kid A e Amnesiac

Potrete sentire un’intervista a Ludovico Einaudi nella puntata di giovedì 7 dicembre di Sparring Partner: lo stesso giorno il pianista si esibirà con un sestetto d’archi e con strumenti elettronici all’Arena del Sole, nella data bolognese del “Divenire tour”.

Ecco l’intervista!

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