intervista

Giorni indipendenti: cronaca da un festival, tra il musicale e il mondano

A me i festival musicali, di solito, non piacciono. Troppi gruppi, pericolo di distrazione e di bulimia, tempi stretti. Ma quando mi è stato proposto di fare la diretta dell’Independent Days Festival per Popolare Network insieme a Elisa, non ho avuto dubbi e ho accettato. Insomma, due giorni di concerti gratis, con pass all areas, voglio dire… E quindi eccoci, alle dodici e qualcosa del 4 settembre, entrare nell’Arena Parco Nord.

Sabato 4 settembre

Da Ginsberg ai 3 allegri ragazzi morti. Scusa, Ginsberg.
Il primo personaggio che vedo lascia il segno. Un ragazzo dal capello lungo e luccicante (non ho voluto indagare se per eccesso di sudore, acqua o strutto) si aggirava per quella landa brulla e battuta da sole, con indosso un camice bianco. Si inginocchia per terra a caso, e urla: “Il re della poesia è Ginsberg!” Quando qualcuno gli chiede delucidazioni, si rialza, si calma un po’, poi chiede: “E lo sai qual è il re della prosa?” Si inginocchia di nuovo e urla, brandendo un libretto: “Jack Kerouac!”. “Forse è il figlio della Pivano”, ho pensato.
Sul palco si avvicendano i primi gruppi e, siccome la diretta inizia alle sei, ho tutto il tempo di guardarmeli. Di solito per non più di cinque minuti.
I Ray Daytona, però, sono simpatici. A parte la mia passione smodata per il garage (fans dei Fuzztones, a me!), è sempre bello vedere delle persone mascherate sul palco. Uno da martello, uno da chiave inglese, uno con la maschera antigas e uno… da uomo. Sì, sul palco dei Ray Daytona c’era un uomo con sopra un travestimento da uomo. Coi baffi. Forse l’omino sotto era sprovvisto di peluria facciale, chissà.
I Colour of Fire quando salgono sul palco si lamentano, perché il loro “Cheeao!” non è accolto dal pubblico come si deve. Quindi il cantante esclama, stupito: “Che razza di benvenuto è questo? Veniamo dall’Inghilterra!” In quel momento ho sperato che un siciliano lo minacciasse in dialetto stretto di salire sul palco e di spaccargli la faccia, se non la smetteva di dire cazzate e non iniziava a suonare.
E poi, I tre allegri ragazzi morti, che indossano maschere e fanno proclami. E la guerra. E la pace. E l’amore. E che due palle.

Gente, gente, gente, divertente (ma che bella situazione)
Avete presente le barzellette della Settimana Enigmistica dove si vedono i padroni dei cani uguali ai loro animali? Ecco, ai festival è così. L’Arena, sabato, era piena zeppa soprattutto di fan-sosia di Nick Oliveri. Omoni baffuti e con cappellino da camionista, che li vedi e sogni le grandi highway del Midwest. Poi li senti parlare e sono al massimo di Savona.
Stare vicino alla postazione mixer con il pass di cui sopra, inoltre, fa sì che si venga visti dal pubblico come degli oracoli, prodighi di saggezza e sapere. Mi è stata chiesta la scaletta circa settanta volte. E una quarantina di persone mi hanno chiesto “Ma i dEUS non suonano?” Ogni volta che ho confermato la triste notizia, le reazioni sono state da “Ah, vabbè, ma tanto piacevano solo a quello stronzo del mio ex”, fino al tentativo di suicidio. Dopo un po’ mi si avvicina un tizio e mi chiede “Oh, ma i Keane?”. Ho fermato un paio di fan dei dEUS che lo stavano per incaprettare.
L’altra gettonatissima domanda era: “Ma dov’è la tenda Estragon?” La mia risposta brevettata era un “là” accompagnato da ampio movimento del braccio, a comprendere tutto l’orizzonte. Ho smesso di indicarla quando uno mi ha chiesto se ci volesse la macchina, per raggiungerla.
Evidentemente il fatto che ci fossero due palchi non visibili l’uno dall’altro ha gettato nel panico tutti. In particolare una coppia, presumo piemontese, quarant’anni circa a capoccia. Lei mi approccia, da dietro le transenne, e mi inizia a chiedere dei due palchi, ma non chiamandoli “palchi”, bensì “situazione”. “Senti, ma in questa situazione qua suona Mark Lanegan? Ma quell’altra situazione dov’è?”. Ho ripreso immediatamente a sbracciarmi verso l’orizzonte e le ho fatto credere che Mark Lanegan fosse con i dEUS a bere pinte di Stella Artois a casa mia.
Dopo l’esibizione del suddetto Mark, si avvicina l’uomo della coppia. “Come ti è sembrato Lanegan? No, perché l’ho visto a Urbino, qualche anno fa, e mi sembrava meglio”. Io faccio la faccia del che-ne-so. Poi si avvicina, e mi sussurra: “Ma che c’è qualcosa che non va a Lanegan? No, lo chiedo a te, perché magari lo sai” e mulina la manina come per dire “birra e salsicce”. Io faccio la faccia di prima. “Ah, non sai un cazzo, eh?” E se ne va, con la sua compagna, verso nuove ed entusiasmanti situazioni.

Bloggerz (e non solo)
Poco tempo per stare con loro, peccato, perché finalmente ne ho visto qualcuno che aspettavo da tempo di vedere!

La musica che non conta e non riempie, quella che conta e ti fa saltellare, quella che commuove
Spiegatemi perché esistono The Libertines. No, veramente. Proprio come l’acqua fresca quando non hai sete. Mah, magari sono gretto io.
I Franz Ferdinand li avevo già visti, e li aspettavo alla prova del grande pubblico da festival, dopo l’abbraccio accademico virtuale del pubblico del Covo. Beh, ce l’hanno fatta anche stavolta. E voci fidate del backstage mi hanno detto che sono tranquilli, modesti e proprio tanto gentili e simpatici. Mando un sms a Karol, che dite? Quattro più, quattro meno…
E infine loro, i Sonic Youth. Ecco, quando hanno iniziato con “I love you golden blue”, ho maledetto il fatto di non potermi gettare nel pubblico, sbattendomene della diretta nazionale. Un’esibizione bellissima, con un inizio incerto su “100%” che l’ha resa ancora più preziosa. Sono andato ovviamente a fare una foto, durante “Teenage Riot”. Beh, vedete qua che è venuto fuori. Si può fotografare il rumore del feedback? Forse sì.
I Sonic Youth finiscono il concerto verso mezzanotte e qualcosa, noi abbiamo la diretta fino a mezzanotte e mezzo. Ma qualcuno dell’organizzazione non lo sa, quindi ci toglie la corrente prima. Le mie ultime parole sono state: “Allora, Elisa”. Bel titolo per una canzone. Mi chiedo se qualcuno ci abbia già pensato.

Domenica 5 settembre

Fashion Nuggets
La cara Bea non ne avrà a male se rubo il nome del suo blog per questa parte di post. Del resto lei l’ha rubato ai Cake, quindi… Si perpetra una catena di furti. Insomma, il pubblico del giorno indipendente numero due è spettacolare: ci sono adolescenti brufolosi e quarantenni che non si rassegnano, un po’ come molti dei gruppi in programma. E le magliette, di tutti i tipi, dai Metallica ai Thin Lizzy, dai Led Zeppelin ai Nirvana, dagli Ska-P a Piero Pelù. Ehm. Scusatea. Ma soprattutto non vedevo tante magliette dei Guns’N’Roses dal 1992. Incredibile quanto siano attesi i Velvet Revolver e soprattutto Slash. Sì, lo Slash che io e Elisa avevamo in programma di intervistare. Arriva un sms dall’organizzazione: “Niente domande sui GNR e sugli STP”. Io e Elisa ci guardiamo: “E mo’ che cazzo gli chiediamo?”. Ma in fondo stiamo per tornare indietro di dieci anni, senza neanche avere bisogno della DeLorean di Doc.

Slash: un simpatico quarantenne un po’ bolso
Quando veniamo chiamati dalla produzione del festival, io e Elisa siamo in fibrillazione. Slash, rendiamoci conto. Mica cavoli. Lo so, dimentichiamoci dello Slash Snakepit, tutti fanno degli errori. Mi viene in mente la mia compagna di scuola Silvia, perennemente in lotta ormonale e interiore tra le bellezze del chitarrista nicotinomane (tanto per citare una mania) e il biondo Axl. Stiamo per andare indietro nel tempo.
Per andare indietro nel tempo, però, ci vuole un’ora e un quarto di preparazione, durante la quale l’eccitazione si stempera in sentimento d’attesa e quindi in nervosismo. Intanto vediamo gli altri nel backstage. Appena vedo Slash penso: “Madonna, quanto è invecchiato”. Poi mi deprimo pensando che, poco prima, un ragazzino mi ha fatto la solita domanda della scaletta dandomi del lei. Nel frattempo mi siedo vicino alla truccatrice (?) dei Velvet Revolver, che sta appuntando una croce sul berretto militare che indosserà Scott Weiland. Il dialogo tra me e lei è surreale.
Io: “Posso sedermi qua?”
Lei: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Io: “Va bene, quando arrivano, tanto, devo intervistarli, quindi, per il momento, posso sedermi qua?”
Lei, dopo un minuto di pausa: “Non lo so, tra un po’ arrivano”
Per evitare il loop, mi siedo, e la guardo. Cuce questa croce sul cappello nero, e intanto tira su col naso. Ha gli occhi lucidi e il viso congestionato. Evidentemente ha pianto. Cosa nasconde nell’animo una costumista di un gruppo composto da vecchie glorie? Forse anche lei si è accorta, come me, che il tempo passa e non siamo più adolescenti?
I miei pensieri vengono interrotti dall’arrivo di Slash. Ci sediamo nel suo camerino, un’altra ragazza gli prepara un beverone energetico dal colore torbido, lui si siede, accende una sigaretta (Gitanes blu con filtro: e quando lo vedo che se la porta alla bocca penso solo “minchia”) e iniziamo l’intervista.
Slash è allegro e gioviale, parla con voce bassa e calda, sorride, ridacchia, non è avido di parole. Insomma: Slash è felice. Ed è lui a parlarci dei Guns’N’Roses, forse stimolato da una mia domanda un po’ rischiosa, su come è cambiato il pubblico in tutti questi anni.
Sei minuti intensissimi. Poi ci facciamo la foto che avete visto nel trailer, dove io ed Elisa lo imitiamo abbastanza bene, come si può notare.

Ecco l’intervista a Slash!

Kick Out the Jams
Avevo comprato il biglietto per il quattro, non per il cinque, senza pentimenti. Ma mi incuriosiva tantissimo sentire gli MC5, anzi DKT MC5, come si fanno chiamare adesso. Mi sono chiesto che tipo di operazione ci fosse dietro la reunion di un gruppo che ha fatto sì la storia del rock, ma che, in fondo, non è universalmente conosciuto. Ho risentito Kick Out the Jams, più volte, e non ne sono mai riuscito a cogliere l’essenza, in quel miscuglio di hard rock con influenze soul, ma dannatamente potente (adoro scrivere “dannatamente”). Alle 2005 di domenica 5 settembre 2004, quarant’anni dopo la loro formazione, ho capito. Ho capito che cos’è il rock-e-basta, dal vivo. Ho capito perché gli MC5 vengono da Detroit, come la Motown, ho capito vagamente che cosa doveva essere sentire quella musica nell’aria qualche decina di anni fa. Secondo momento in cui ho maledetto il mio lavoro (ballare “Kick Out the Jams” suonata da loro dietro un mixer è molto peggio dell’interruzione dell’amplesso) e decisamente miglior concerto della due giorni. Semplicemente splendidi.

L’oscurità senza fuochi d’artificio
Sono tamarri, fuori tempo massimo, commerciali e cantano in falsetto. Ma diciamolo: pur con tutti questi limiti, un paio di canzoni i The Darkness le hanno azzeccate. Quando una delle ragazze dell’organizzazione ci ha portato la scaletta della loro esibizione, e ho visto come finale prima del bis “Friday Night” e “I Believe in a Thing Called Love”, mi sono detto: “Ecco a cosa servono le prove denominate “Pyro” che ho visto su un foglio attaccato nel backstage”. E mi ha anche confortato che i case del gruppo fossero ventisei, ognuno grande come un’utilitaria. E invece niente: i Darkness hanno soprattutto usato le luci, il cantante si è cambiato d’abito solo tre volte, ha preso per il culo il pubblico e i Queen. E non è stato sparato neanche un fuoco d’artificio, niente. Che delusione.
Almeno, alla fine, nessuno ci ha staccato la corrente. Quindi abbiamo potuto salutare e concludere degnamente le nostre brave undici ore di diretta (che sono sempre meno, a vedere bene, del tempo che ci avete messo per leggere tutta ‘sta roba. Grazie.)

"Cose piccole e piccoli sentimenti"

Oggi ho avuto un crollo, ben mascherato dal mutismo, in redazione.
Appena avuta la notizia del rapimento sono schizzato via da casa, proprio mentre rispondevo a delle mail, scrivendo che dopo quattro giorni di delirio questo era il primo pomeriggio tranquillo (avrei dovuto dire “una tensione stabile”). Sono arrivato in radio, ho cercato Scaccia. Le solite domande. “Hai qualcosa da dirmi? Quali sono le reazioni là?”. Pino si è dimostrato, ancora una volta, una persona splendida. “Francesco, che ti devo dire? Troppo presto perché ti possa dire qualcosa. E poi, che reazioni? Ero io, qua, uno dei suoi amici.” Nonostante incombesse la diretta del TG2, ha trovato come sempre il modo di dirmi qualcosa e mi ha parlato un po’ del gruppo terroristico che ha rapito Enzo. Ho chiuso la telefonata, ringraziandolo (e non sarà mai abbastanza), sono andato a scrivere il pezzo. Stampato, consegnato. Poi mi sono seduto e ho visto un’altra, l’ennesima edizione di un telegiornale. Enzo è stato rapito.
Mi sono reso conto allora che, in fondo, speravo che fosse nascosto da qualche parte. Perché sono stato male, è venuta fuori tutta la tristezza e l’ansia per questa vicenda che i ritmi di lavoro serrati degli ultimi giorni avevano relegato da qualche parte, in fondo. Una tristezza che era stata sfiorata, ieri, quando ho dovuto scegliere un brano di una delle “Cartoline” che avevamo fatto, e risentire la sua voce dai file grezzi, con le risate e le battutacce in mezzo, mi aveva fatto un certo effetto. Ma ieri bisognava essere veloci, scegliere i brani, ripulirli, montarli. Oggi, no. E allora mi sono venute in mente le prime e-mail che ci siamo scambiati, sette anni fa, quando lui per me era Zio Zonker e io per lui Il Malva. Beh, veramente io sono ancora per lui “Il Malva”. In una mail, addirittura, dopo un sacco che non mi facevo sentire, mi appellava “Malva, vecchia troia!” tutto in maiuscolo.
Enzo è stato uno dei primi a leggere la mia prima raccolta di racconti. Appena l’ebbe finita mi scrisse.

Oggetto: Tempi diversi
Data: Sun, 5 Dec 1999 21:55:49 +0100
Da: egb
A: francesco

Ieri sera mi sono portato a letto “Tempi diversi”.
L’ho letto tutto d’un fiato.
Belli gli attacchi, giusti ritmi e misure, non casuale il pezzettino di Raymond Carver.
Il mio preferito e’ probabilmente “Il bagno del primo piano”, delicatissimo, vagamente surreale.
L’unico punto debole che ho trovato e’ forse strutturale alla tua generazione, che non ha avuto in genere grandi tragedie ne’ grandi epopee, e che quindi e’ costretta a parlare di cose piccole e di piccoli sentimenti. Non amo il minimalismo, e Leavitt mi fa cagare. Ma i tuoi racconti non sono, secondo me, da considerare minimalisti. Mi piace considerarli dei bei pezzi di artigianato, fatti con amore, tecnica e buona capacita’ di rifinitura.
Bravo.

Enzo

Questa è una delle mail di complimenti più belle che abbia mai avuto. E da cinque anni, lo giuro, continuo a riflettere sulla debolezza della mia generazione, “che non ha avuto in genere grandi tragedie né grandi epopee”.

Ho scritto un romanzo, Enzo. E voglio fartelo leggere. Quindi, vedi di tornare presto.

La tua vecchia troia, il Malva

Storie raccontate da una donna

Qualche giorno fa è uscito Tales of a Librarian, una raccolta di Tori Amos: venti canzoni per ripercorrere dieci anni di carriera, sempre ad alti livelli. Ci sono due inediti, e molti pezzi sono stati remixati e/o registrati ex-novo. Inoltre il disco esce anche con un bonus DVD in cui ci sono alcuni video di Tori durante dei soundcheck e una galleria fotografica, interessante ed emozionante per vedere come la sua immagine sia cambiata durante il tempo (lo show biz…).
Ci si possono fare infinite domande, più o meno taglienti e graffianti su una raccolta, su un gritistitz, che esce, guarda caso, in un periodo caratterizzato dall’acquisto sfrenato (sì, è già Natale). Eppure io credo sia nei tremendi meccanismi, appunto, dello show biz, sia all’onestà artistica di Tori Amos. Vi rinvio quindi a questa interessante intervista, in cui la splendida quarantenne parla a cuore aperto di temi sulla bocca di tutti, magari sfiorandoli appena, ma riuscendo a colpire, con grazia, classe e intelligenza, come al solito.

Ah, l’intervista è in inglese. Ma, ricordando il nostro leader e la sua geniale trovata delle “tre I”, non ci dovrebbero essere problemi, no? Inglese, e vabbè. Internet, e ci siete. E la terza? Qual era? Informazione? Imparzialità? Inettitudine? Vattelo a ricordare. Che Ignoranza.

P.S. Ultimamente questo blog non parla più dei cavoli suoi. Abbiate pazienza, tornerò a tediarvi presto. Nel frattempo faccio finta di essere un blogger serio.

Vuoi star zitto, *per* favore?

Leggo dal Venerdì di questa settimana, a pagina 74, un’intervista di Antonio Dipollina a quel genio inutile di Tiziano Ferro. Il nuovo singolo del giovine 23enne di Latina si chiama XVerso. L’inizio di Dipollina è fulminante.

“Potremmo partire da questa cosa della scrittura da Sms. Stavolta non poteva chiamarlo Perverso, scritto normale?”

“Non me la sono sentita, e comunque è un grosso vantaggio”

E il grandissimo Dipollina chiede:

“XChé?”

(sic). Risponde il Kelly de noantri:

“Nelle interviste. Ne ho fatte a decine. Si inizia a parlare solo di quello, del XDono scritto così, mi chiedono solo quello, e capisco che posso sbrigarmela in cinque minuti”.

A Tizià, ma che cacchio ti devono chiedere? Il povero Dipollina ci prova a fare il ligio intervistatore, ma sentite qua.

“Risulta che lei vende uno sproposito”

“Rispetto al passato, sono cifre minori. Poi, certo in questo mercato vendo parecchio”.

Eh? Nella risposta alla domanda precedente, in cui gli veniva chiesto se guadagnasse tanto, Tizzone risponde che guadagna

“relativamente poco”.

Rosso relativo, quello del conto in banca? Ma no, è un poveretto. Ascoltate qua.

“Una casa come vorrei, per esempio, non sono riuscito a comprarla”.

Forse perché a Latina non c’è abbastanza terreno edificabile?

Sentite qua. Dipollina dice:

“Torniamo a lei. Soldi pochi, ma donne…”
“Capisco cosa intende, ma non è così”
“Parliamone”

(e mi chiedo se l’intervista sia stata fatta per telefono o di persona, perché leggendola si capisce dove gli veniva da ridere, al giornalista). La fine della risposta di Tirello è:

“Ecco: io non sono quello che cerca amori di una notte, proprio non ci riesco. Non so se si capisce”
“Beh”

dice Dipollina, evidentemente non ne può più. Ma Tignazzo affonda.

“Ecco, io non riesco mai a capire quanto cercano il ragazzo di successo o la persona. E allora preferisco rinunciare”.

Bravo. Bravo. Questa sì che è integrità morale, caro il mio Tinello. Ma non ti preoccupare, ché dopo quest’intervista, in cui dichiari che non hai una lira, nessuno busserà più al tuo camerino.
Ancora lui, Tafazzi Ferro:

“E poi il sesso non è tutto: ci sono i concerti”.

Certo, aggiungo io. E ci sono le macchine, i pranzi in famiglia, i bei libri, il tramonto sul mare… Invece il mio eroe Dipollina dice, secondo me tra le lacrime (di ilarità):

“Con tutto il rispetto, non dovrebbe essere la stessa cosa”.

Lapidaria la risposta di Tiscalio Ferro:

“A volte i concerti sono meglio”.

Durano di più. Certo. Hai un microfono in mano e un pubblico davanti. Oddio, non è che… Ma andiamo avanti.
L’intervistatore tira fuori una mezza accusa: pare che “XDono” sia molto simile ad un pezzo di Kelly. E Tiplagio Ferro inizia a dire le solite cose, che ci sono un sacco di canzoni sul giro di do, che la musica oggi è tutta un grande mescolamento (ho in mente di fare un mescolamento di qualche grande successo di un gruppo minore inglese, i Beatles), eccetera. Poi aggiunge, alla fine:

“Ha presente un pattern?”
“No, e non si azzardi a ripeterlo”

Ma Tirante non è così scemo. Infatti dichiara:

“Io (…) leggo Oscar Wilde. (…) Mi piace moltissimo, mi piace poi collegare l’estetica e la fisicità, ripensare alla moralità dell’Irlanda puritana, tutta quella costrizione sul sesso che poi esplode e va”.

Ecco, Tiziano, fa’ come il sesso: va’, va’.

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