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“Ora so chi sono”: intervista a John Grant (novembre 2011)

John Grant

John Grant rimarrà per sempre associato a una mia grande dimenticanza: ancora oggi mi pento nel non avere preso in considerazione il suo Queen of Denmark a sufficienza, quando uscì. L’ho recuperato dopo, poco prima dello splendido concerto nella chiesa di Castenaso dell’aprile 2011. Da quel momento in poi, però, il disco e i ricordi di quel live mi sono rimasti in testa. Nel novembre del 2011 Grant è tornato a esibirsi in Italia, e ho avuto la possibilità di intervistarlo poco prima della sua data bolognese, insieme a LessTv, che ha fornito l’audio dell’intervista che state per leggere.

Grant mi accoglie disteso sul divano del camerino del Covo: indossa pantaloni e maglietta, e così andrà sul palco poche ore dopo. Sorride, è cordiale. Si scusa per la posizione, ma chiede di rimanere così. Io allora mi accomodo su una sedia all’altezza delle sue spalle e insieme sembriamo un quadretto “paziente-analista”. L’immagine non è peregrina, perché ancor prima che inizi a porre una domanda è lui che inizia a parlare.

“Non mi trovo a mio agio con la gente ricca”, confessa, “forse perché sono di estrazione bassa… o loro credono che lo sia.” Come molte delle frasi pronunciate dal cantante, anche questa è tanto sincera quanto pervasa di ironia: la profonda intelligenza e sensibilità dell’ex-Czars si manifestano in ogni sua espressione. “Sono stato in una scuola di ragazzi ricchi ed erano orribili: erano il male.”

Che mi dici di quando ti sei trovato in situazioni simili, anche di recente, quando hai vinto dei premi?
Non mi dà più fastidio, perché ora so meglio chi sono. Non che sia questo grande affare, ma… Adesso riesco a pensare più logicamente a tutto questo, e capisco che sono solo persone.

Parli spesso di un “ora”: a cosa si contrappone? Cosa c’era nel passato?
In realtà c’è stato un processo graduale negli anni, più che un “adesso” e “prima”. Ho superato la “questione dei ricchi” intorno ai trent’anni. Anche quando vivevo in Germania ero in mezzo ai ricchi, perché uscivo con molti studenti della facoltà di Legge, le cui famiglie erano sfacciatamente ricche. Andavo spesso in queste loro case e non avevo un bel vestito da mettermi. Questo mi metteva a disagio. Non avevo soldi per un vestito, quindi andavo in jeans e camicie scadenti. (fa una lunga pausa per pensare) Credo di avere cominciato a superare tutto questo una decina di anni fa, quando ho smesso con alcol e droghe per diventare sobrio. È stato più di sette anni fa.

Questa partizione è legata direttamente alle tue due fasi musicali?
Sicuramente. Quando ero negli Czars non riuscivo a esprimere vocalmente quello che stavo passando. Non sapevo dirlo a parole. (fa una pausa) Non credo di averci mai pensato prima d’ora, ma probabilmente è stato più facile parlare di me stesso apertamente da quando è morta mia madre. Perché penso che se mia madre fosse viva e ascoltasse il disco (Queen of Denmark, ndr) si arrabbierebbe molto. Non ci avevo mai pensato prima, mi è venuto ora. Non so se sia veramente così, sto pensando a voce alta. Mia madre è morta nel ’95 e noi avevamo appena iniziato. Abbiamo continuato per dieci anni. Davvero troppo…

In molte interviste sei apparso sicuro e tagliente nel giudicare il lavoro fatto con la band. Ma quanto del John Grant musicista, che suonava con gli Czars, c’è in colui che ha fatto Queen of Denmark?
La domanda è interessante. Diciamo che ora mi sento di più me stesso. Ero io anche quando suonavo negli Czars, ma era un periodo duro, bevevo molto… Non volevo avere a che fare con alcunché di serio, con il fatto che stessi crescendo o con la mia confusione sessuale. Quindi ho bevuto, mi sono fatto, ho scopato chiunque potessi avere a tiro, ho vissuto in maniera promiscua per dimenticare. Quindi, tornando alla domanda: ero lì, ma ero coperto da un sacco di merda. Sono la stessa persona, ma non ho più paura di essere me stesso: è più facile esserlo, per quello che so di me. Ammettiamolo: non posso sapere chi sono fino in fondo, ma ora ne ho un’idea migliore. Ripensare a quel periodo mi mette a disagio, perché è stato un momento doloroso.

Pensi che sia stato necessario attraversare quel periodo per conoscerti meglio?
Non so… Quel periodo è stato pura evasione, distrazione, non sapevo cosa stavo facendo. Quando mia madre morì, fu un brutto colpo, ma ero egoista: usai la morte di mia madre per attirare attenzione, per me stesso. E anche questo pensiero è doloroso, perché vuol dire che in quel momento non stavo realmente pensando a ciò che stava accadendo, a mia madre e alla sua morte, forse perché era troppo difficile. Comunque credo che elaborare quel periodo, parlarne, possa aiutarmi a comprendermi di più: tuttavia non so se ne sono completamente uscito. Quando mi stabilisco da qualche parte cerco subito un analista: è più facile parlare con un medico che annoiare a morte i tuoi amici, fino a farli dire “Non ce la faccio più, va’ in analisi”! (ride) C’è anche da dire che prendo antidepressivi da diciott’anni. Un po’ alla volta sto smettendo con tutte le medicine per la depressione, ma continuo a prenderne una, la più forte. È difficile smetterla perché ti fotte il cervello, quando non la assumi più: bisogna farlo quindi molto molto gradualmente. Sto andando da un dottore e insieme vogliamo cercare di capire chi sia, senza medicine. Le prendo da vent’anni, ma non ho mai avuto a che fare prima con un dottore che mi aiuti a comprendere il perché le prendo. Faccio queste cure da anni senza che nessuno controlli davvero i risultati ottenuti. Forse non so nemmeno cosa succede nella mia testa, e una volta che smetterò di prendere quest’ultima medicina saprò davvero chi sono. Non so che succederà, davvero: sarà interessante.

Queen of Denmark è molto autobiografico. Nei tuoi prossimi lavori continuerai su questa linea o il disco precedente è un romanzo a cui è stata posta la parola “fine”?
No, continuerò su quella strada. Nel nuovo disco ci saranno parti autobiografiche, nuovi stimoli e molta rabbia. Ci saranno molti “vaffanculo”, come in “Queen of Denmark”, ma anche più ironia; rabbia mista allo humor. Credo che solo dopo il prossimo disco potrò pensare ad altre cose, altre storie. Mi piacerebbe cantare in lingue diverse, e quindi potrei fare un disco sui posti dove sono stato: l’Italia, l’Islanda, la Svezia, la Danimarca… Amo la Scandinavia, ma l’Italia e la Spagna hanno qualcosa in più, perché ho passato molta della mia vita al buio, lontano dal sole e dalla luce. L’Italia è davvero un posto diverso, per questo motivo, dai Paesi del nord. C’è un modo diverso di vivere. Ancora non capisco bene l’italiano, perché ho passato qui troppo poco tempo, ma voglio impararlo. E poi c’è una bellezza tale che la mente difficilmente la comprende. Mi chiedo cosa voglia dire essere italiano, perché ho paura che avendo tutta questa bellezza intorno, qualsiasi altro Paese che visitiate sia poca cosa per voi. Oggi pomeriggio pensavo a Monica Bellucci, senza motivo, e mi chiedevo perché abbia dovuto lasciare Roma per Los Angeles: ho pensato però che Roma dev’essere una città difficile da vivere. Ho vissuto anche in campagna, nel Devon: stavo da solo in un piccolo cottage. Scrivevo, passeggiavo, guardavo film e programmi televisivi, studiavo lingue, le grammatiche: ho bisogno di cose come queste, ma anche della gente. La mia vita è in un momento di totale fluttuazione: non ho un posto mio dove vivere da due anni. Sono stato da amici, senza avere un luogo dove mettere i miei libri. Ho libri a Berlino, a Göteborg, a Londra, in Texas, in Colorado, a New York… Ho bisogno di un posto tutto mio dove tenere le mie cose. Negli ultimi due anni, con Queen of Denmark, la mia vita è cambiata completamente. E continuerà così, perché inizierò a registrare il mio nuovo disco alla fine di gennaio (2012, ndr) e si ricomincerà.

Qual è il tuo rapporto tra la tua nazionalità d’origine e tutti gli elementi prettamente americani di Queen of Denmark e le tante culture che hai studiato attraverso le lingue e i Paesi in cui hai vissuto?
Sono contento che tu mi abbia posto questa domanda, perché ti devo dire che amo essere americano e lo sono molto. Proprio il conoscere altri posti mi ha messo a mio agio con il fatto di essere americano. Quando ho lasciato il Paese, a diciannove anni, non ne potevo più: era difficile essere gay negli USA, e andando in Europa ho pensato che sarebbe stato più facile. Be’, non lo è, non lo è per niente. Anzi, in alcuni Paesi è anche peggio, e l’Italia credo che rientri tra questi. In Russia è peggio ancora. Comunque: quando cresci, ti viene insegnato che gli Stati Uniti sono il posto migliore dove vivere, ma appena ho messo piede in Germania sono rimasto assai colpito dalla bellezza, dalla storia, dalla lingua, dalla gente… Ci sono tantissimi posti dove si può essere felici e vivere bene, e questa per me è stata una grande scoperta. Non sono antiamericano: amo gli Stati Uniti, è bello viverci, c’è un clima rilassato ed è più facile fare quello che vuoi. In alcuni Paesi europei si sente molto il peso della tradizione sul futuro dei giovani: in Germania se vuoi frequentare il Gymnasium devi deciderlo molto prima. La direzione da prendere si stabilisce in giovane età, e credo che sia difficile per molti. Tuttavia ci sono moltissime cose che odio degli Stati Uniti. La politica è disgustosa, il sistema sanitario è vergognoso: ci dicono che sia il Paese più bello dove vivere, eppure non si prende cura della sua gente. Ci sono mendicanti e senzatetto a ogni angolo: è triste. Insomma, ci sono cose orribile ovunque. Londra, Londra sì che è dura. Cazzo, c’è dolore, povertà, una gioventù distrutta… Ci sono estremi di bellezza e disperazione: molte delle persone migliori che conosco vengono da lì, ma Londra è un casino, peggio di New York. Ho vissuto anche a New York, per tre anni, ma Londra è più brutale, è gigante, ti sfianca. Comunque, tornando alla tua domanda: sono contento di essere americano, ma non sono sposato agli Stati Uniti. Non mi piace il patriottismo, perché spesso è solo un altro modo per dire nazionalismo, per dire “Il mio Paese non sbaglia mai”, il che è ridicolo. Sono orgoglioso di essere americano, ma amo anche altri posti, parlare altre lingue, vedere altre bellezze… Sono nato per andare in giro per il mondo.

L’ultima domanda è banale: ci dici i tuoi cinque dischi dell’isola deserta?
Odio questo tipo di domande, perché sono difficili, ma in fondo mi divertono. Credo che mi porterei un disco di musica classica, gli Studi per Piano di Chopin. Stella degli Yello. E poi Touch degli Eurythmics, quello con “Here Comes the Rain Again”; Voulez-Vous degli Abba e i Kraftwerk, con The Man Machine.

Narrare la tensione: intervista a Manuel Agnelli

Non sono mai stato un vero fan degli Afterhours, ma credo che gli album di Agnelli e soci siano tutti molto interessanti, che abbiano sempre qualcosa da dire, che siano mossi da un’urgenza che sempre meno si ritrova, in musica e non solo. Ho ascoltato Padania e ho pensato, ancora una volta, che era un disco degli Afterhours da riascoltare più volte, di cui era necessario leggere le parole e pensarci su, per poi, magari, parlarne con Manuel Agnelli. L’intervista su uno dei dischi più importanti dell’anno è andata in onda in Maps di venerdì e la trovate da ascoltare qua.

Qual è il momento in cui avete iniziato a raccogliere suoni, idee e parole di quello che sarebbe diventato il disco più recente degli Afterhours?
Un momento preciso forse no, ma un anno e mezzo fa mi è venuta in mente l’idea di fare un disco molto legato alla realtà sociale che ci circondava. Ci siamo interrogati molte volte sul ruolo che potevamo avere come adulti e come musicisti. Probabilmente abbiamo parlato di noi stessi molto a lungo e probabilmente continueremo a farlo, perché il punto di vista è sempre il nostro, ma forse adesso è arrivato anche il momento di parlare di quello che ci succede intorno. Non è stato un desiderio nato da un episodio o da qualcosa che avevamo visto in particolare: ma continuavamo a incontrare persone che ci raccontavano della loro realtà, che avevamo sotto gli occhi, come tutti in questo periodo. Il fatto di continuare a cantare di cose nostre, solo interiori, legate alla nostra interiorità cominciava a sembrarci un po’ meschino, lontano dalla realtà. C’è stato un periodo, a dire il vero abbastanza breve, in cui ci siamo sentiti dissociati da quello che ci capitava intorno ed è nato il desiderio di riallacciarsi alla realtà.

Raccontata così sembra che ci sia una continuazione della spinta, più musicale, che c’era dietro a Il Paese è reale
Sicuramente, anche se Il Paese è reale aveva una matrice più nettamente musicale, si stava parlando del nostro ambiente, della musica, di come venivano considerati certi gruppi e certi musicisti e un certo tipo di ambito. Qua, invece, si parla più in generale della nostra società, del sociale. Comunque si tratta di cose molto vicine: adulti e cittadini che prendono posizione per qualcosa in cui credono o che lo fanno perché non è solo un loro diritto, ma anche un loro dovere.

Hai detto che non c’è un momento esatto in cui è nato Padania, ma che ci sono state molte storie che vi hanno fatto pensare. Qual è un tratto di queste storie che ha fatto “traboccare il vaso”?
Il fatto che alcune storie erano così grandi e importanti da fare sembrare piccolissime le nostre storie, le nostre polemiche, o le piccole battaglie che combattevamo all’interno del nostro ambiente. Insomma, una volta che, da adulto, hai usato la musica e l’ambiente della musica per trovare la tua personalità, se non completamente te stesso, per realizzarti dal punto di vista interiore, diventa davvero – e lo ripeto – meschino chiudersi in questa torre d’avorio creativa e non guardarsi intorno. Ci sembrava tutto molto piccolo rispetto ai problemi reali che la gente vive. Da qui a fare un album come Padania il percorso è stato molto lungo, perché non abbiamo subito deciso cosa fare. Alcuni prendono posizione in maniera talmente netta, chiara e (perdonami la parola) retorica, che alla fine sono più dannosi che utili: la retorica non fa bene a nessuno di questi tempi, il “chi non salta è” fa più male che bene. Per cui arrivare a definire un discorso a livello estetico che poi potesse avere una forza e nello stesso tempo mantenere una sua sincerità non è stato semplice.

Riprendo ciò che hai detto sull’immediatezza perché il concetto ritorna in Padania, un album che “vuole essere disco” come e più di altri dischi degli Afterhours: insomma, mi sembra che Padania sia un disco da ascoltare “in ordine”…
Hai ragione: Padania ha un filo conduttore, che non è facilissimo da individuare, e che soprattutto magari non sarà lo stesso per tutti. Abbiamo cercato di fare un concept emotivo, emozionale, per cui questo filo conduttore è più emozionale che narrativo. Crediamo nel fatto che narrando degli eventi si possano suscitare delle emozioni molto profonde, ma il compito di un gruppo come il nostro è narrare la tensione. La tensione ha a che fare con il panico, con il disorientamento, l’odio e il rancore, ma anche con la gioia più ingiustificata: sono tutte cose che si possono raccontare, ma rischiando di perdersi l’emozione di queste cose. I pezzi invece più musicali, che non sono costruiti come una canzone, servono proprio a quello, nel percorso del disco. E poi c’è stata la convinzione di fare un disco, e non una serie di pezzi messi insieme su un album: perché noi crediamo ancora nella formula “album”, a dispetto di quello che si dice in giro sulla morte dell’album. Se ti guardi intorno, la musica che sta comunicando di più è contenuta in album che hanno una tematica forte e che sono piuttosto lunghi proprio in termini di durata. Rimanendo al nostro ambiente di posso parlare del disco dei Verdena o di quello del Teatro degli Orrori, che è un album lunghissimo che però alla fine ha un senso in quanto album: è una specie di libro, ti sta raccontando una situazione in maniera molto poco superficiale, proprio perché è analizzata in tante canzoni, quindi attraverso tanti aspetti.

Mi riallaccio a quest’ultima tua osservazione: hai parlato di un libro, che spesso è associato al romanzo e quindi a una densità, a una complessità, alle trame e alle sottotrame. Avete mai pensato a Padania come a una sceneggiatura, cioè come a una serie di storie che si dipanano tra le canzoni?
All’inizio sì, ma poi mi sono reso conto, come ti dicevo prima, che stavo razionalizzando troppo: stavo rischiando di fare un album molto cantautorale, di cantautorato rock, ma tant’è, e non era quello che mi interessava. Volevamo piuttosto spingere sul lato musicale, anche per amplificare il lato emotivo, che ci sembrava e ci sembra tuttora la cosa più importante. Questo non è un disco facile, ma allo stesso tempo vedo che sta arrivando nel modo giusto; non so se la gente lo capisca o meno, e non è importante: non so nemmeno se lo capisco io. Ma il contenuto emotivo, la tensione, arrivano: ed era esattamente quello che non volevamo perdere. Per cui siamo stati molto attenti a preservare la spontaneità delle cose che nascevano, quando erano molto forti: per questo ho scritto i testi in coda al lavoro. Non volevo condizionare la scrittura musicale con le parole e sulle parole, ma fare il contrario. Sono stato attento a metterci degli approdi, dei porti, dei ganci, chiamali come vuoi, più narrativi, che servissero a dare una chiave di lettura in forma canzone, come “Padania” stessa, come “Costruire per distruggere” o “La terra promessa si scioglie di colpo”, o “Nostro anche se ci fa male”. Sono pezzi più tradizionali per costruzione e un po’ più narrativi, perché se no l’album sarebbe diventato davvero troppo claustrofobico e schizofrenico. E il bianciamento tra le canzoni l’abbiamo trovato nel modo più vecchio che ricordavamo: facendoci delle scalette a orecchio. Abbiamo provato a seguire un ordine teorico, ma ci aveva frustrato: non riuscivamo a trovare una sequenza che funzionasse bene. Mettendole in fila, insieme, per gusto, paradossalmente abbiamo trovato una scaletta che funzionava molto bene, paradossalmente, anche razionalmente.

Sono allora curioso di sapere come questo “metodo” sia stato applicato ai pezzi probabilmente più curiosi e inaspettati del disco: i due “messaggi promozionali”. Considerando quello che dicevi prima, sono una sorta di “satira dell’immediatezza”? Sembra che la ruvidezza acida che si sente in tutto il disco esploda in questi momenti…
Sì, è così. Non è facile da spiegare, ma intanto siamo comunque nell’epoca del messaggio promozionale. Qualunque cosa succeda, un bombardamento su una città del Libano, dei bambini rapiti o un’altra tragedia, alla fine ti arriva comunque il messaggio promozionale che spesso è anche in tema con quello che è successo: rapiscono un bambino e lo spot è sui pannolini. Si tratta di una satira, forse non pesante, ma Padania, comeconcept, vuole rappresentare anche questo tipo di situazione. Nelle foto promozionali abbiamo questi visi di cera, quasi inespressivi, come persone che non hanno né anima né sentimento. E nel disco, nel momento emotivo più alto, arrivano degli spot a rompere l’atmosfera, ma sono più simbolici che altro, funzionano in quanto tali più che per il loro contenuto. Tuttavia, il secondo, che parla della vendita di spazi promozionali su cd, il più cinico dei due, alla fine non era una brutta idea!(ride). Eravamo in dubbio se brevettare la cosa e alimentare ancora di più la provocazione: volevamo aprire un numero verde, con una segreteria telefonica, e vedere – facendo lo spot in maniera più seria di come è finito sul disco – quanta gente avrebbe creduto che gli Afterhours erano davvero disposti a vendere degli spazi pubblicitari sui dischi. Però poi abbiamo avuto un po’ paura… Paura della gente…

Paura dell’eventuale reazione o di come gestire le chiamate?
Di come gestire le chiamate… Insomma, parliamoci chiaro: la gente non sempre dimostra un grande umorismo. Anche nei nostri confronti, e la cosa talvolta mi fa un po’ male, non sempre c’è stata fiducia in quello che avevamo fatto. Quindi questa cosa poteva diventare davvero difficile da spiegare, alla fine, nel suo essere provocatoria. Ma la cosa che ci ha fatto più paura è che rischiava di fare passare in secondo piano cose molto più importanti del disco e quindi abbiamo deciso di ridimensionarla. Comunque le questioni della sintesi, della velocità è uno dei temi del disco, perché sono cose che stiamo soffrendo. Di certo la cosa è generazionale: il progresso avanza e la vecchia generazione soffre la velocità della nuova generazione. Certo è vero che la velocità delle comunicazioni di oggi, con la rete e altri dispositivi, ha abbassato le capacità di analisi delle persone, la pazienza che si deve avere per giungere a un concetto, e quindi la disponibilità delle persone ad ascoltare la musica. Ed è veramente un peccato: non tutta la musica deve arrivarti come un pugno in faccia, ma se non lo fa è perché magari ci sono delle cose da scoprire, ed è molto bello farlo, io sono abituato così. Per questo abbiamo fatto un disco del genere, che credo non sia molto immediato: ci piacerebbe che la gente andasse a scoprirlo, questo disco, magari con il tempo.

Faticare per ascoltare può portare a un ascolto più pieno e, eventualmente, a una critica più fondata: ma Padania arriva come una manata in faccia, anche solo dal punto di vista musicale. C’è un lavoro stratificato, sui feedback, sullo spessore del suono: è qualcosa nata in studio o già i musicisti hanno portato un’idea sonora di questo tipo?
No, è qualcosa che è nato in studio. All’inizio volevamo organizzare il lavoro come abbiamo fatto ultimamente, cioè suonando tutti insieme nella stessa stanza: così avevamo l’illusione di mantenere una certa naturalezza. Ma è una modalità che non sempre è funzionale: magari una soluzione che viene al momento è mediamente buona per quel pezzo, ma non è detto che perché l’hai trovata lì in studio sia la migliore. Spesso le cose migliori vengono fuori ragionando, riflettendo, cambiando, eccetera. Dopo un po’ ci siamo resi conto che le cose migliori venivano dagli spunti su cui ognuno lavorava a casa propria e poi portava in sala prove, per cui abbiamo deciso di continuare a lavorare così. Ognuno ha lavorato ai propri spunti da solo, per poi portarli in sala prove affinché gli altri potessero lavorarci a loro volta da soli. Per farti un esempio: se Giorgio Ciccarelli faceva un riff di chitarra particolarmente interessante, io poi a casa facevo un cantato sopra, lo strutturavo e lo passavo a Giorgio Prette, che a casa ci faceva una parte di batteria, eccetera. Il tutto senza essere nella stessa stanza. Secondo me questa cosa ha giovato tanto, perché noi tutti abbiamo provato a fare delle cose che forse non avremmo fatto davanti agli altri. Io stesso mi sono fatto tutte le voci in sala prove da solo, cosa che non credo avrei fatto di fronte agli altri, non sempre con grandi risultati (ride). Il settanta per cento delle cose che ho fatto, per fortuna, non sono finite nel disco, ma quel poco che hofatto mi soddisfa molto, perché è un po’ diverso da quello che avevo fatto nel passato. E così credo che sia per tutti gli altri.

Per concludere, torniamo da dove abbiamo incominciato. Ascoltando ciò che mi hai detto ho ripensato al concetto di impotenza dell’uomo protagonista della canzone “Il Paese è reale”, e il tuo menzionare lo smarrimento e il disorientamento hanno come relativo fisico la pianura, che spesso provoca queste sensazioni. Quanto spesso e come vieni preso anche tu da questo senso di smarrimento, impotenza e frustrazione che credo siano elementi di spicco dello spirito del Paese, non solo adesso?
Sì, hai detto bene: sono caratteristiche del Paese da tanto tempo a questa parte, e anche io ci casco molto spesso, devo dire. Nel nostro ambiente, poi, è molto facile essere presi dallo smarrimento e dalla frustrazione, non solo perché le cose fanno fatica a funzionare per tutti, ma anche perché c’è una mentalità veramente meschina: c’è tantissima invidia, c’è rancore, ma soprattutto c’è tantissimo immobilismo. E internet, che pure ha tanti vantaggi nell’ambito della comunicazione e che anche io uso tantissimo magari per riascoltarmi delle cose di catalogo, ha peggiorato questa situazione: tiene a casa le persone, non le fa essere presenti e sicuramente le rende più innocue, da un certo punto di vista. E invece di sfogare la rabbia e il rancore con le invettive che si leggono in rete tutti i giorni, non fa altro che alimentarle, perché nutre l’immobilismo e non provoca alcun tipo di reazione. Non sono l’unico, purtroppo, a provare queste sensazioni, adesso come adesso. Però sto anche vedendo delle reazioni molto importanti (e parlo sempre del mio mondo, quello della musica e dell’arte, perché non voglio fare il tuttologo): il Teatro Valle occupato a Roma, ma soprattutto il Teatro Coppola a Catania, un vero gesto di responsabilità civile. La gente è andata a ristrutturare gratuitamente un teatro per ridarlo ai cittadini, non per tenerselo e occuparlo per scopi personali. Io credo che la gente abbia ricominciato a capire che la partecipazione reale, quella fisica, è il futuro, per quanto possa sembrare una cosa preistorica. Quando ci sono state le amministrative a Milano, a detta dell’amministrazione stessa il momento della svolta è stato il concerto di piazza Duca d’Aosta, dove 25000 persone si sono trovate fisicamente insieme nello stesso posto e si sono rese conto che eravamo in tanti e valeva la pena comunque di provarci: da lì è stata una spirale positiva. Quindi credo che queste cose stiano tornando, che soprattutto la giovanissima generazione si sia resa conto che la partecipazione può essere una via di fuga dall’immobilismo e dalla rabbia e dal rancore che ne derivano.

Glory

Il bel blog musicale Any Major Dude with Half an Heart ha pubblicato un post con alcuni brani (da scaricare) che ben rappresentano l’anno 1979.

Tra le varie “Cuba” e “I Was Made for Loving You” compare anche Umberto Tozzi e la sua “Gloria”, descritta come vedete in alto. Lodevole la “partigianeria” per la versione originale e la sostituzione “sole” a “mandolino” nel binomio che comprende la sempre valida pizza (“Margharita”).

Da applauso, però, è il modo in cui l’autore del blog sente il verso “Manchi tu nell’aria”: lo fa diventare quasi il titolo di una canzone dei Pixies.

Buona televisione

Ho vissuto il fine settimana precedente a quello che ci siamo appena lasciati alle spalle in una strana condizione. ISBN Edizioni mi aveva fatto avere il cofanetto di Avere Ventanni appena in tempo, appunto, per il week-end, e sapevo che avrei avuto solo quei giorni per preparare l’intervista a Massimo Coppola. Venticinque ore di documentari in meno di cinque giorni. Sono sei ore al giorno. Mica poco. Ma ce l’ho fatta, a discapito della mia presenza nel mondo reale, come succede sempre quando ci si immerge in qualcosa di totalizzante.
Vedere Avere Ventanni con questa modalità non è una cosa che posso consigliarvi di fare: rischierei la denuncia per ipnosi indotta. Ma vedere di seguito le tre serie andate in onda su MTV tra il 2004 e il 2006 ha anche diversi vantaggi. Il primo è percepire sensibilmente gli aggiustamenti di rotta degli autori (oltre a Coppola ci sono Giovanni Giommi, Alberto Piccinini e Latino Pellegrini) nelle prime puntate della prima serie. Coppola all’inizio prova a fare il suo alter ego (talvolta fastidioso) che c’era in Brand:new o in Pavlov, ma la realtà lo supera a destra. Comincia quindi giustamente a pensare che è un altro Coppola che deve porsi di fronte ai ventenni che incontra in giro per l’Italia: usa allora il retroterra filosofico, ma nel senso più pragmatico possibile. Coppola, quindi, inizia a domandare cose semplici e d’ordine quotidiano agli “eroi” delle puntate: cosa fanno, qual è il mestiere dei genitori, quanto guadagnano, se sono fidanzati. Entra nelle case, nelle stanze degli studentati, nei karaoke bar, nei cantieri, negli androni dei palazzi, nelle macchine, negli uffici. Spesso va in un posto per parlare con qualcuno e scopre che la storia di un altro è molto più interessante: l’obiettivo cambia repentinamente, libero da ogni pesantezza produttiva, considerando che tutto è realizzato con tecnologie digitali portatili. Infine Coppola e i suoi ascoltano, con curiosità e partecipazione, ma senza compatimenti. E, quando arriva la compassione, quando neanche gli autori riescono a trattenere il dolore e la tristezza, semplicemente, abbassano la camera e la spengono.

Interrompere una registrazione è un atto realmente rivoluzionario, in ambiti intimi come quelli raccontati da Avere Ventanni. Nell’intervista potete ascoltare cosa Coppola pensa di quella che ho chiamato “etica della videocamera”, e di cui ho parlato spesso qua sul blog. Che senso ha zoomare sulle lacrime, infilare obiettivi tra le sbarre di cancelli chiusi, nominare ripetutamente le persone uccise, domandare tenendo attaccato il microfono all’altoparlante di un citofono? Nessuno. Eppure è così che la televisione italiana intende l’informazione, nella maggior parte dei casi. Già per questo Avere Ventanni ha un valore programmatico fortissimo ma, ahinoi, del tutto inascoltato. Il pudore e l’intelligenza di questi documentari sono un episodio occasionale e isolato nell’ambito televisivo italiano.
Ma l’importanza di Avere Ventanni va oltre l’aspetto etico e formale a cui ho accennato. Vedere decine di ore di girato in pochi giorni mi ha illuminato sulla rilevanza storico-documentale che questo cofanetto ha. Ricordo ancora quando, nelle prime lezioni di storia delle superiori, il professore ci spiegò che cosa si intendesse per “documento” in quell’ambito. Scorrendo le storie raccontate nel cinque dvd, mi è tornato in mente il significato primo di questo termine molto usato (e quindi spesso abusato): effettivamente queste puntate sono un documento storico importantissimo per l’Italia contemporanea, ogni minuto e ogni inquadratura è portatrice di significato e ben contestualizzata. Assenza di riferimenti politici, disgregazione sociale, povertà, disillusione, ignoranza, violenza. “Erano anni dolorosi”, mi ha detto Coppola, usando il passato solo per coerenza, visto che gli stavo chiedendo di quei primi anni zero in cui Avere Ventanni è stato girato: le cose non sono poi così tanto cambiate. Attenzione, però: si potrebbe obiettare che l’obiettivo dell'”indagine” degli autori fosse la condizione giovanile di quel periodo. Nonostante questo io credo che, alla fine, Avere Ventanni parli del Paese tutto: perché, sebbene le classi dirigenti italiane facciano di tutto per negarlo o ignorarlo, sono i ventenni che iniziano a costruire, ricostruire ed eventualmente a cambiare una nazione. Proprio quelli che oggi stanno abbandonando in massa l’Italia e che, solo sei anni fa, avevano ventanni.

Produci, consuma, crepa

Ancora una volta mi trovo in bilico con uno dei miei lavori. Intendiamoci, niente di imprevisto o di illegale: semplicemente, mi scade un contratto. Credo che, in dieci anni di lavoro, sia la decima volta che mi scade un contratto il cui rinnovo è incerto. Una situazione logorante, che condivido con molti di voi, e che noi abbiamo in comune con tante altre persone che conosciamo. Ma non con tutte.
Eh già: perché chi come me lavora in ambiti che vanno dal giornalismo all’intrattenimento, dai media alla pubblicità, dal cinema al teatro ha una tara in più. Noi, semplicemente, non siamo produttivi. I libri, le trasmissioni radiofoniche, le sculture, le personali di pittura non aumentano il PIL. Gli articoli di giornale non si mangiano, i dischi non procurano carburante, non ci si può vestire con un copione teatrale. Una minuscola parte di questi prodotti viene scambiata a cifre altissime (vedi il budget plan provvisorio della sezione fiction RAI 2010 postato nel blog della SACT), ma per il resto, non ci sono che briciole.
Niente di male, eh. Voglio dire che è del tutto ovvio che un medico (che salva vite umane e quindi mantiene la forza lavoro) venga pagato più di uno sceneggiatore televisivo: ma quello che manca, a chi lavora nel campo culturale, è la dignità. La dignità viene tolta accettando di scrivere cose per altri senza il diritto di firma, sopportando (perché non c’è altra scelta) stipendi ridicoli, non avendo contratti, continuando a subire soprusi nel nome di un “mestiere” che, in quanto “divertente” e non legato a orari (secondo le logiche comuni), può essere fatto gratis. Ma perché, dico io. Qualunque mestiere dovrebbe avere dignità: lo dice la Costituzione, no? Poi, non è detto che chiunque abbia il diritto di fare tutto: dovrebbe entrare in campo la meritocrazia. Io ho il diritto di studiare medicina, poniamo, ma se i risultati che conseguo non sono sufficienti, bene che vada (e non è detto) andrò a fare l’infermiere. Non tutti sanno scrivere, per fare un altro esempio, c’è che si farlo meglio di altri, e va bene. Però è corretto, eticamente, che chi scrive, per dire, e lo fa con merito (un traguardo che è ben lungi dal raggiungimento, per quello che mi riguarda), abbia un compenso adeguato a una vita dignitosa. E invece mille euro al mese sono spesso un miraggio: non è un’esagerazione.
Ma, giusto, ho parlato di meritocrazia, la grande assente (assieme a molti diritti) nel panorama nazionale. D’altro canto, direte voi, se uno è bravo, e quindi offre un prodotto di qualità, perché non mantenerlo: conviene, giusto? Certo, se della qualità importasse davvero qualcosa a qualcuno in Italia. Ormai nel Paese la prospettiva che hanno le classi dirigenziali è quella di un miope stanco che ha perso gli occhiali. Non si riflette sul lungo termine, ma neanche sul medio: gli investimenti (che parolona) si fanno sull’hic et nunc, si pensa a rattoppare di continuo, senza considerare l’idea che mille toppe costano più, a conti fatti, di un rifacimento totale della struttura (qualunque essa sia, rimanendo nella metafora da carpentiere). E perché accade questo? Perché gran parte delle decisioni viene presa da persone che hanno davanti a loro, considerando la media dell’aspettativa di vita italiana, da dieci a vent’anni per scorrazzare su questo mondo. Non importa se il prodotto è più scarso di prima, l’importante è che costi meno, e che quindi i margini di guadagno siano più alti, per garantire ricche vecchiaie, sostanziose eredità e onorevoli funerali a chi comanda. Quindi è facilissimo, in questi campi di lavoro che dall’esterno paiono così divertenti e fichissimi, che tu venga sostituito da uno che ne sa molto meno di te, ma è disposto a lavorare per la metà di quello che prendi, sebbene il tuo salario sia già una cifra ridicola. E se si guarda bene, nella fila che si srotola fuori dalla porta del tuo ufficio (se ce l’hai), forse c’è qualcuno che farebbe gratisquello che fai tu, anche se non sa come si usa un congiuntivo.
Non leggete quello che ho scritto come uno sfogo personale: io, per alcuni versi, sono fortunato. E gli esempi che faccio esulano dal mio quotidiano, sebbene non siano del tutto distanti dalle mie esperienze. Ma io, come tanti altri, sono uno che produce qualcosa di impalpabile. “Un cazzo”, direbbe Brunetta, con il suo imprescindibile savoir faire, ed è questa l’idea che ormai passa. Chi fa cultura non fa un cazzo. Vero, tanto più che questo è un Paese dove ormai la panza ha soppiantato del tutto l’anima: a che servono i libri, i film, le canzoni non da Sanremo? A che serve investire sulla creatività giovanile, dare spazio a chi ha meno di trent’anni (e con la scuola così ridotta, i giovani si mantengono ignoranti, che genialata)? A chi importa di curare chi può portare delle nuove idee (da quanto tempo l’Italia non produce idee innovative, per non parlare di tutto il resto?): è la panza che va nutrita. E io, sempre di più, mi sento uno stuzzicadenti usato per togliere i resti di carne dalla bocca di chi (ci) mangia.

Il viaggiatore costretto

Chiaramente, uno si lamenta, et voilà, arriva un libro scritto in lingua italiana – anche se non scritto da un’italiana – che fa gridare al miracolo. Si chiama La mano che non mordi ed è opera di un’albanese di neanche quarant’anni, che ha vissuto dal 1990 in poi in diversi paesi d’Europa, Italia compresa, Ornela Vorpsi.
Quando ci sono altri autori che mandano alle stampe centinaia di pagine, di cui almeno la metà sono inutili, e altri autori che scrivono libri piccolissimi che sono ancora più piccoli, viste le numerose (e poeticissime) pagine bianche che intercorrono tra un capitolo e l’altro, la Vorpsi riesce a colpire e aggrapparsi all’anima del lettore in meno di 90 pagine, con un romanzo che non ha una trama vera e propria, ma che sprigiona tutto tra le righe. Quando dico tutto, intendo veramente ogni cosa, dai profumi agli stati d’animo, dal dolore all’infanzia, dai sapori di casa ai detti della nonna. Senza dimenticare la Storia, quella più vicina e dimenticata, che riguarda i Balcani e i loro innumerevoli conflitti.
La protagonista del libro si sposta da una parte all’altra d’Europa, fisicamente e con i pensieri, da Parigi a Milano, da Roma a Sarajevo, e viaggia nel suo tempo, nell’intimità del ricordo, riuscendo ad essere personale senza essere privata, e parlando di tutti i popoli balcanici senza citarli e senza pretese di ecumenismo.
Quello che risalta è il continuo senso di spiazzamento: non c’è uno dei personaggi che incontriamo nelle pagine del libro che sta dove deve stare. E’ proprio questa sensazione di vagabondaggio forzato e perenne, che prima di tutto l’autrice ha vissuto sulla sua pelle, di spostamento, di viaggio senza essere viaggiatori (come si dice nell’incipit del libro), che emerge nella scrittura della Vorpsi. Si sente il disagio di non essere a casa propria e il senso di estraneità quando si torna a casa dall’Occidente ricco, la fatica di trovare la lingua giusta per comprare dei dolci e il senso di inadeguatezza e di non appartenenza a quei sapori e odori, che pur rimangono nella memoria.
E il tutto, badate bene, viene solo suggerito, attraverso una lingua mobile, dinamica e agile, che tuttavia evita ogni forma di sperimentalismo “tanto per fare”.
Siamo noi occidentali ad essere rappresentati nel romanzo come una massa indistinta, rovesciando una prospettiva che ci vede spesso parlare di “altri” con sostantivi collettivi o terze persone plurali. Ecco quindi che la Vorpsi fa storia, capovolgendo un punto di vista, e, attraverso i numerosi personaggi albanesi, bosniaci, serbi che incontriamo nelle pagine del libro, ricordandoci che la polveriera balcanica, scoppiando, ha creato una vera e propria diaspora, spargendo brandelli delle sue popolazioni ovunque in Europa.
Un grande, grandissimo libro.

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