la nota università con le scale mobili

Una giornata niente male: la nuda cronaca di uno di quei giorni in cui è meglio rimanere nel letto. Di chiunque.

Io ci credo. Continuo a perseguire il mio programma, o almeno tento di farlo. Quindi: sveglia alle nove, una sana colazione e iniziamo con un po’ di studio. Poi mi ricordo: devo telefonare alla nota università con le scale mobili, perché devo capire cosa è successo con il mio contratto. Una parentesi esplicativa è necessaria. Infatti, qualche giorno fa, è arrivata, all’indirizzo al quale ufficialmente risiedo, a 300 e passa chilometri da Bologna, una missiva dalla suddetta università, che mi diceva di recarmi presso l’altra sede dell’università, ai piedi delle Dolomiti, per firmare il contratto.

Dopo infiniti tentativi di entrare in contatto con la magica università, allietati dal tema di “Momenti di gloria” (e se mai dovessi beccare Vangelis…), finalmente, con un paio di rapidi passaggi di persona, riesco a parlare con chi-mi-serve.
“Ma no, si tratta di un errore!”
“Ah, bene”, faccio io, “quindi posso passare a Milano per firmare il contratto…”
“Eh sì, però venga quanto prima. Prima firma, prima le paghiamo la prima tranche del suo compenso”
“Quindi quando dovrei venire?”
Silenzio. Dopo una lunghissima pausa la donna dice: “Vediamo, che ore sono…?”
Sospiro e dico: “Fa niente, magari vengo il ventotto, quando devo fare esami, posso firmare quel giorno, no?”
“Sì, poi però la paghiamo il aisfgaisfebbraio”
“Il venti febbraio?”
“Il ventisette febbraio”, precisa la solerte addetta all’amministrazione.
E io penso che, anche se avesse detto “il ventinove febbraio”, mi sarebbe andata di culo, ché tanto il 2004 è bisestile.

Pomeriggio. Devo andare al cinema per questo simpatico programmino, in particolare mi tocca andare a vedere un filmaccio per una rubrica significativamente chiamata “Il duro mestiere del critico”. La morte di cui devo morire si chiama Mona Lisa Smile. Ne parlerò sull’apposito blog, ma potete farvi un’idea dei miei sentimenti d’amore per Tori Amos messi alla dura prova, esattamente come i suoi.
Esco dal cinema. Devo ritirare i soldi dell’affitto (che ammonta a 300 euro per una stanza, così, ve lo dico). Prima di ritirare i soldi, però, chiedo al Bancomat l’estratto conto.

“Sicuro?” fa lui.
“Dammi lo scontrino”, dico io.
“A Fra’, guarda che poi ci rimani male, e ti rovina la giornata”
“A parte che sono le sei di sera, e la giornata va già male… fa’ il tuo dovere, dammi lo scontrino con su scritto quanto mi rimane, e non chiamarmi ‘a Fra’”
“Sicuro sicuro?”
“Dammelo, stampalo.”
Stampa dello scontrino in corso.
“Fallo uscire, maledetto.”
“Beccate questo”, dice il Bancomat.

Aveva ragione lui. Mi allontano tristemente dal Bancomat che sentenzia, come il Puffo Quattrocchi: “Telavevodetto, io”.

Sera. Siccome la trasmissione è domani e devo vedere un altro film, mi tocca cenare presto, anche perché dopo il film devo tornare in radio per il programma notturno di cui qui a sinistra, in basso, scorrete, scorrete. Il film prescelto, per doveri di cronaca, è L’ultimo samurai. E so già che si tratta di una vaccata colossale, ma tocca. Quindi decido di cenare in fretta. “Che mi faccio da mangiare?” penso. “Cappelletti in brodo”. Detta così, pare bellissimo. Ma non fatevi ingannare: allontanate dalla mente donne emiliane che fanno la sfoglia, cucine accoglienti, tramonti splendidi. Sostituite le donne emiliane con un pacchetto di cappelletti già pronti e un dado da brodo, la cucina accogliente con una cucina non poi così accogliente e il tramonto con una luce al neon. Ma tant’è. L’acqua bolle, tento di non pensare a niente, butto i cappelletti. Passa uno dei miei coinquilini, M., che nota una strana macchia verde su uno dei cappelletti. “Dev’essere il ripieno che è uscito”, dico io. “Secondo me è muffa”, dice lui. Ovviamente ha ragione lui. Mi immagino di andare al supermercato incazzato come una iena e protestare perché mi hanno venduto dei cappelletti ammuffiti, ma l’idea scompare, come i cappelletti verdi e il brodo, nel cesso. La mia cena consiste, quindi, di una scatoletta di tonno, due pacchetti di crackers, maionese, variamente combinati tra loro, e un’arancia. Ma poi ho un’illuminazione. Ho della ricotta. Prendo un cucchiaio di cacao amaro, un cucchiaino di zucchero e mescolo il tutto alla ricotta. Me la preparava sempre la mamma, questa merenda-dolce. Ma non ho tempo di commuovermi, devo andare a vedere il secondo probabile-film-di-merda della giornata.

Che, puntualmente, si rivela un film-di-merda. Non mi rimane altro che andare a prendere l’autobus, per andare in radio. Non ho il biglietto, ma tanto l’ATC sta pubblicizzando questa grande trovata di mettere i distributori di biglietti automatici in ogni autobus. Ovviamente l’autobus che devo prendere ha i distributori guasti. Quindi entro in modalità ansiosa, per cui ogni persona che sale che vagamente assomigli ad un controllore mi mette uno stato di agitazione terribile. Non essendoci una tipologia fisiognomica di controllore dell’autobus, qualsiasi persona che salga sull’autobus mi fa sudare freddo. Decido di tirare fuori il libro e di mettermi a leggere, quindi. Solo che la lettura mi prende talmente tanto che non mi accorgo di avere passato la mia fermata. Me ne accorgo, fortunatamente, poco dopo. Scendo e mi trovo in un luogo che per me ha significati profondi. Un luogo legato ad uno degli ultimi momenti di armonia passati con la mia ex-ragazza (che suppongo ormai abbia dato le dimissioni – oltre che da ragazza del sottoscritto – anche dal genere Homo Sapiens). Un luogo magico. Un incrocio nella periferia occidentale di Bologna in cui io, lei e l’ormai mitico V. abbiamo rilevato il passaggio delle macchine, negli ultimi giorni di dicembre del 2002. Abbiamo rischiato il congelamento contando le macchine che passavano in quell’incrocio. Un lavoro di merda, se non si era capito.

La trasmissione in radio va bene, considerando l’orario. Nessuna telefonata in diretta, tre mail dalla stessa persona. Nella prima mi richiede un pezzo. Nella seconda me ne richiede un altro, che però non ho e non trovo. Nella terza mi dice “va bene lo stesso quello che hai messo, buonanotte”. E così mi sembra di fare l’ultima mezz’ora di trasmissione (dall’una e cinquanta alle due e venti) parlando al nulla.

Il 61, quando arriva, alle due e quaranta, è popolato da cinque individui, che scendono due fermate dopo quella in cui sono salito io. Faccio il viaggio da solo, leggendo con un occhio il libro, con l’altro stando attento a non scazzare la fermata, ché se scazzi la fermata del notturno rischi di ritrovarti nel centro di Casalecchio alle tre del mattino. E di rimanerci.
Scendo e percorro la solita strada. Sono a pezzi. La vetrina del negozio di Armani di via Farini è cambiata. I manichini sono seduti su delle specie di panchine sospese e hanno l’aria stanca anche loro. Per educazione, quando passo loro davanti, gli auguro la buonanotte.
Sono finalmente a casa. Stanco morto. Umanamente morto (la retorica, eh?).
Ma tanto io nei prossimi giorni mi trasformo in cartone animato.

Pregiudizi e stereotipi

Ci si cade, ogni tanto, c’è poco da fare. E ovviamente ci cado anche io. Iniziamo.
Gli studenti della nota-università-con-le-scale-mobili sono tutti fighetti. Falso. Premessa. Ah, intanto la prima rampa di scale mobili non funziona. Eh. E poi: gli studenti del mio corso sono, fortunatamente, persone normalissime. Certo, sulle suddette scale mobili ho visto un paio di personaggi che sembravano usciti da Vogue: patinati e bidimensionali. Ma questo capita quasi ovunque. Sono quindi orgoglioso di fare parte del corpo insegnante della nota-università-con-le-scale-mobili. E ho anche il registro. Che vuole, signò, so’ soddisfazioni…
A Milano corrono tutti e tutti hanno fretta e tutti devono lavorare. Non ci ho mai creduto. Ma in un noto locale per l’aperitivo sono andato al bancone e sono stato lì un minuto di orologio ad aspettare, guardandomi intorno. Locale e bancone abbastanza affollati. Il ragazzo dietro il bancone, ad un certo punto, dà uno scappellotto sulla nuca di un altro barista (un “sottoposto”?) e gli dice: “Oh, ma allora! Hai visto che quello lì [io] è da due ore al bancone? La tua area è questa (fa gesto con le mani per indicare il bancone), non questa (fa gesto con le mani per indicare il resto del locale)”.
Poi mi chiede cosa voglio e mi prepara il Martini cocktail. Nel frattempo il ragazzo malmenato mi dice “Seiecinquanta” e io pago. “Mi dispiace di essere stato causa di questo”. E lui: “Ma tanto mi vendico”. Io faccio una risatina, lui no. Il Martini è buono, ma mi viene servito in un bicchiere tondo. Per non incentivare la spirale di violenza, non dico niente, figuriamoci.
Chi ha un blog rimorchia di più. Falso. Speravo, io. E se no perché l’ho aperto? Invece niente. Che delusione.
I troll sono il Male. Ma no. È carino allevarseli. E poi, mi hanno detto a Milano, è molto molto cool averne almeno un paio. Tipo che se hai un blog e aprono un blog che sembra il tuo ma non lo è, anzi, ti prende anche in giro, diventi immediatamente una blogstar. Che è un po’ la massima aspirazione della mia vita, dopo, ovviamente, la conquista del primo posto nel Grand Prix Classic di Napa Valley.

Un weekend postmoderno

Domani, finalmente, inizierò il seminario nella nota-università-con-le-scale-mobili. Ovviamente il mio portatile non si poteva fare sfuggire la ghiotta occasione, e quindi adesso ha deciso che ogni volta che c’è un’animazione in PowerPoint lui emette un rumore che, perdonatemi, assomiglia a quello di un peto con sordina. “Prrfft”. Gli studenti saranno entusiasti, e inizieranno a sghignazzare, sempre composti nei loro abitucci firmati e senza che un filo di trucco si sposti. Se mi chiederanno dove ho scaricato l’incredibile petosuoneria, indicherò loro questo sito. Sconvolgerò le loro abitudini-per-bene? O mi troverò ad ordinare orrendi cocktail alla fragola con loro?

Nei giorni passati ho tenuto tre incontri in tre scuole diverse. Momenti topici:

  • alla fine di una lezione a Gorizia, posto dove sono nato e ho vissuto fino a qualche -sette- anno fa, si avvicina un giandone di due metri e mi dice: “Ciao Francesco, forse non ti ricordi di me, sono F., il fratello di F., eravate amici da piccoli”. Quando io e F. ci frequentavamo, F. era piccolo piccolo, e secondo me manco molto sveglio. Non so se adesso sia sveglio, ma mi avrebbe potuto uccidere con una mano. Speriamo che non si ricordi di eventuali mie prese in giro che possano avere turbato la sua infanzia;
  • incontro a Udine; i ragazzi hanno letto un mio racconto che si intitola “Puttana” e parla di un ragazzino la cui madre fa la prostituta, appunto. Una ragazza alza la mano e mi chiede: “Il racconto è autobiografico?”;
  • durante l’incontro a Trieste mi sono portato dietro V. , e l’ho presentato, ridacchiando, come la “mia guardia del corpo”. In una pausa una ragazza viene da me e mi fa: “Ti posso chiedere una cosa? Ma tu e la tua guardia del corpo siete fratelli?”

Ho visto amici a Gorizia, ho sbevazzato allegramente, stimolando la parte friulana che evidentemente da qualche parte alberga (o bivacca) in me. E ho anche mostrato a V. la cassapanca. Mi sono commosso anche io, era anni che non rivedevo il comodo giaciglio.
Sono anche andato al Chocofest di Gradisca d’Isonzo, una cosa quanto meno imbarazzante. Soprattutto la Chocogallery, e il Palachoco. Mi sembrava di stare a Topolinia o nella città dei Puffi. Nel Palachoco la situazione è agghiacciante. Non è né più né meno che un tendone da giardino sotto il quale ballano qualche orripilante melodia discolatina tre elementi. Il Maestro di Cerimonie (M.C.), una mamma e la sua bimba. Il resto della gente guarda e sorride, forse inebetita dalla cioccolata. Mi sposto, ma nella Chocogallery (identica al Palachoco, solo di forma allungata) l’M.C. della situazione urla in un microfono cose come “No alla dieta” (giuro).

La settimana è però iniziata male. Svegliatomi il lunedì mattina, dopo cinque minuti cinque vado in cucina, dove i miei sorseggiano caffè pensierosi. Piccola premessa. Da qui al ventuno dicembre sarò sballottato qua e là come una palla da flipper, saranno giorni intensi e faticosi. Con questo pensiero sono andato in cucina per iniziare questa settimana.
“Ngionno”, faccio io, forse ancora un po’ ubriaco.
“Buongiorno”, dicono loro. E, subito dopo, con dei tempi che manco Ben Johnson quando diceva “Ma che me frega, me pijo anche ‘ste artre pillolette, anvedi che scatto poi”, aggiungono: “Sai, il tuo conto in banca è un disastro”.
Tento di ricominciare da capo, pensando che a volte quando il portatile mi si blocca, basta resettare.
“Ngionno (dicevo)”
“Ma dove li metti i soldi?”
Ho tentato inutilmente di premere alt+ctrl+canc, ma non c’è stato nulla da fare.

La rivolta degli oggetti – parte terza (detta anche "Revolution": ma li mortacci dei Wachowski)

Oggi mi si prospettava una giornata di lavoro. Devo preparare dei seminari da tenere in una nota-università-con-le-scale-mobili. Visto che là sono tecnologicamente avanzati, mi sono detto: “A Francè, qui devi usare PowerPoint, ché fa fico”. E vabbè, usiamo PowerPoint. “E poi, per fare vedere i pezzi di film, mi raccomando, non le vecchie e squallide vhs: divx e dvd”. Va bene. Martedì tutto bene. Mercoledì (oggi secondo il mio orologio biologico, ieri secondo quello di Splinder… e a pensarci bene anche secondo altri) un disastro.
Apro PowerPoint, inizio a comporre una diapositiva e, senza dire nulla, il programma muore. Poff. Se ne va. Riavvio il computer e penso di dare una pulita al disco. Ma la pulizia disco non ne vuole sapere. Inizio a sudare (e sto attento a non sgocciolare sulla tastiera). E ripenso alla prima rivolta. Ma lì era per causa mia.

Riprovo: come prima. Ma stavolta, avendo attaccato le casse, viene emesso quel bellissimo stacco d’archi sintetici che Windows usa come messaggio d’errore. Senza che appaia alcun messaggio d’errore.
Allora esco e lascio che vada di nuovo la pulizia disco. Vado in edicola a comprare qualcosa e vedo il DVD di Moulin Rouge. Manco ci penso. Lo compro.
Spendo, tra giornali e altro, una trentina di euro. L’edicolante fa il conto e quando vede il risultato mi dice:
“Bravo”.
“Grazie”, rispondo io. E torno a casa. Insomma, ho comprato il DVD di Moulin Rouge e sono contento.

La pulizia disco non va. Ma riprovo con PowerPoint e, magicamente, funziona. Ovviamente salvo il mio lavoro ogni cinque secondi. Un po’ stressante, ma sapete. Intanto ho perso tutto il pomeriggio, ho fame.

Si fanno le dieci. Vado a vedere Matrix Revolution. Non me ne frega niente, ma lo faccio per dovere, diciamo… E poi, penso, non sarà brutto come Matrix Reloaded.

Infatti è peggio. Ma da questi qua che ci si può aspettare? ‘Fanculo.

Torno a casa incazzato. Entro in camera e accendo la luce. Niente. Svito e avvito la lampadina. Niente. Sono tutt’ora quasi al buio. Mi siedo davanti al pc, mi accendo una sigaretta e inizio a smanettare sul blog. Sono loggato, ma quando lascio i commenti qua e là mi segna come anonimo. Non capisco. Mi riconnetto. Funziona. Mah. Poi aggiorno il template. “Ok”. Non si aggiorna. Riprovo. Niente. Aririprovo. Va. Arimah. Guardo perplesso lo schermo del portatile, faccio un gesto sbagliato e il contenuto del portacenere finisce sul mouse e sul tappetino.
Per sicurezza ho spento il cellulare. E adesso vado a letto. Sempre che questo post sia pubblicato.

P.S. Giuro che è la terza volta che lo scrivo e lo correggo, questo post maledetto. Ma che succede? Sono le tempeste elettromagnetiche?

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