lingua italiana

Otto anni, tre mesi e una settimana fa

Ieri sera, mentre cercavo di mettere a punto alcune cose su questo nuovo sito, ricordavo ciò che scrissi quando aprii il blog su Splinder. Provavo funzioni di WordPress e mi dicevo: “In quel post hai descritto proprio operazioni simili a queste: vedere diverse anteprime del blog per scegliere lo sfondo, mettere a posto la testata, pensare alle categorie; e hai scritto anche delle sensazioni quasi entusiastiche nell’iniziare qualcosa di nuovo”. Le stesse leggere felicità che ho provato ieri.

Ma nel giorno di Ferragosto del 2003 scrivevo:

Dopo una giornata di tentativi, ce l’ho fatta e ho aperto anche io il mio blog personale. (…)
Sappiate che sono un fanatico della lingua italiana (l’unica lingua che sa di pizza e che suona il mandolino). Evitate abbreviazioni e “x” e “k”. Stendete le vostre parole lettera per lettera, come un bravo pizzaiolo fa di solito con la pasta. E non pensate di esagerare in quanto a sapore. Ma immagino che per qualche commento ci vorrà del tempo. Intanto vado a sproloquiare qua e là.

Buffo come pensassi di ricordarmi così bene di alcune parole quando invece avevo memoria di sensazioni.
Incredibile (e anche un po’ angosciante) come in tutto questo tempo queste parole siano appropriate per presentare anche la nuova versione di A Day in the Life.

Say the Word: manuale di difesa della lingua – 3

Proprio l’altro giorno mi è arrivata un’e-mail di invito per una festa a Milano. A un certo punto del testo c’è scritto: “i posti sono limitati, quindi affrettatevi a rsvppare”.
Sono inorridito.
“Rsvppare”? Ma come, perché? Perché utilizzare questo orrendo neologismo (per chi non ci fosse arrivato, deriva dall’acronimo R.S.V.P., cioè
Répondez, s’il vous plaît)?
L’ignobile espressione è solo l’ultima nata (e spero subito morta) della serie di neologismi che derivano dall’inglese. Si parla di calco linguistico, per distinguerlo dal prestito linguistico, che è il prendere una parola straniera per usarla così com’è nella propria lingua: “film” o “consommé” sono esempi di calco tratti dal linguaggio comune. Essendo legati ad aree semantiche molto legate alla cultura d’appartenenza originaria (quella anglosassone per il cinema e quella francese per la gastronomia), i due esempi che ho riportato hanno senso. Ma che dire dell’odiato (da me e da altri cinque individui, ormai) “step” per definire la fase di un lavoro o di un progetto?
Si potrebbe obiettare che quest’ultimo prestito ha a che fare con il fatto che i termini dell’organizzazione del lavoro sono anch’essi relativi all’inglese: forse è vero. Ma “fase” fa così schifo? Perché usare “step”? Questa è la domanda da porsi, che credo abbia più a che fare con la sociolinguistica che con la linguistica pura.
Ma torniamo ai calchi: sempre in ambito lavorativo ho sentito spesso “briffare”, che deriva dal verbo “to brief”. Il significato, o meglio, uno dei significati di questo verbo inglese è “mettere al corrente”. Pare così brutto dire “aggiornare”? In fondo è una lettera in più: un’argomentazione banale, questa, ma che pare vada per la maggiore tra chi, per esempio, scrive “pò”, invece di “po’”. “Risparmio un carattere”, dicono spesso gli interessati, chiamando in causa le perfide tariffe degli sms imposte dagli operatori telefonici.
Insomma, come diceva una vecchia pubblicità (réclame?) di un corso di lingue: “English is important for your job”, ma non dimentichiamoci dell’italiano.

Say the Word: manuale di difesa della lingua – 1

A quasi un anno di distanza, riprendo alcune considerazioni sull’uso sconsiderato della lingua italiana. Nell‘ottobre del 2009 ho parlato di “piuttosto che”, “quant’altro” e “importante”; oggi, invece, affrontiamo un termine che è buttato qua e là a cavolo: “esclusivo”.

Mi si è accapponata la pelle quando, qualche giorno fa, ho sentito alla televisione (ero girato di spalle) Antonella Clerici che magnificava le qualità di un dessert dicendo che il suo aroma alla vaniglia era “esclusivo”. La prima cosa che ho pensato è stata: “Hanno monopolizzato un gusto? La Ferrero e solo lei potrà fare cose alla nocciola, la Nestlè al cioccolato…”. Ma poi ho capito: era un uso decisamente improprio di un termine che deriva dal latino excludere, cioè “chiudere fuori”. Chi chiuderà mai fuori l’aroma alla vaniglia? Quello alla menta, per esempio. O al limone. Ma non divaghiamo.
Tutto, ormai, è esclusivo: non solo un ristorante o un club (che, notate bene, sono luoghi e quindi hanno in sé il senso proprio del termine), ma anche una macchina (soprattutto se ha la chiusura centralizzata, e io ho le chiavi, no?), un colore e, appunto, un aroma. E invece no: escludere vuol dire una cosa ben precisa ed esclusivo è semplicemente un suo derivato. Come “importante”, anche “esclusivo” ormai viene usato come accrescitivo, o come magnificatore di positività. Una sorta di “additivo” che ha perso ogni contenuto per diventare un “più” da appiccicare qua e là, come una marca fasulla su un abito contraffatto.
E difatti mi sa che quella cosa alla vaniglia fa pure schifo.

Di |2010-09-30T08:34:00+02:0030 Settembre 2010|Categorie: The Word|Tag: , , , |4 Commenti

Se questo post vi fa cacare è perché c'è di mezzo la Crusca

Non ne posso più. Non ne posso più di vedere e sentire la nostra lingua schiaffeggiata, derisa, talvolta stuprata. Non ne posso più del po’ scritto pò (e c’è gente che dice “risparmio un carattere”: ma per favore), di “qual’è” e simili, di “attimino”. Ma, soprattutto, non ne posso più di tre cose, che hanno una caratteristica comune: si sono diffuse nel linguaggio ordinario come indizio di raffinatezza, di alto profilo del discorso. No: quelli che elenco sono niente di più o di meno che errori.
1. Piuttosto che. Allora, mettiamo le cose in chiaro. “Piuttosto” è un avverbio che mette i due termini che lega in una condizione di disparità, non di uguaglianza, che il locutore usa per “prendere una parte”, non per elencare. “Piuttosto che piangere, fa’ qualcosa.” “Dammi dei soldi o, piuttosto, prestami il bancomat”. Usarlo come se fosse “o” (inteso come “vel” latino, come congiunzione, non disgiunzione – “aut”) è sbagliato. Non si può dire: “Ho fame. Potremmo andare a mangiare la pizza, piuttosto che una pastasciutta” intendendo che pizza o pasta pari sono. No. “Ho fame e non ho soldi: piuttosto che una pizza, mi preparo una pastasciutta”. Chiaro? Piuttosto che usarlo a cavolo, usatelo bene.
2. Quant’altro. Ormai lo si usa completamente a sproposito, per dire “eccetera” e tutti i suoi sinonimi, a conclusione della frase. No. No. No. L’espressione “quant’altro” è legata a un termine, che di soito è esplicito, ma che comunque è ben preciso. Esempio: “So che hai fame, per questo ti ho messo da parte del pane e quant’altro ti possa servire”. Quanto-di-altro, capito? Se no uno dice “eccetera”. Che vuol dire “e tutte le altre cose che fanno parte di un elenco potenzialmente infinito e non sto qui a numerare”. Come si dice qui, l’et cetera è una dissolvenza, un fade out, il quant’altro è uno che preme “stop” per sbaglio. Un gesto goffo, una gaffe sciocca, uno scivolone… eccetera.
3. Importante. L’uso di questa parola è tale che “importante” sta rischiando di diventare una sorta di “termine ombrello assolutizzante”. Quindi diventa importante il motore di un’automobile, ma non rispetto alle prestazioni della stessa: magari solo perché ha una grossa (importante…) cilindrata. Il costo di una casa è importante, ma no, è elevato, conveniente. A meno che uno non dica: “Ecco, signori Rossi, la catapecchia che volete vedere. Non sottovalutate, però, il costo della suddetta: è importante, perché la capanna, qua, vi viene solo 3000 euro.” Ha senso usare “importante” quando l’aggettivo serve a valorizzare il sostantivo (o il termine) a cui è associato, rispetto ad altri termini. Allora “importante” ha una sua giustificazione. Se no usate dei sinonimi. Sembrano piccole cose, ma (rispetto ad altre) sono importanti. Facciamo uno sforzo.

Mi sa che dico sempre le stesse cose

Non per altro, ma perché l’immagine qua sopra, gentilmente elaborata e donatami da Vito Hi-NRG Mc per l’altro blog, e che immagino possiate usare liberamente, però dicendo che è opera di Vito Hi-NRG Mc, sintetizza il mio ultimo post e il primo in assoluto che ho scritto.
Che uomo palloso. Io, eh, mica Vito Hi-NRG Mc.

Di |2007-01-23T21:46:00+01:0023 Gennaio 2007|Categorie: I Me Mine, The Word|Tag: , , |5 Commenti

Eh?

Negli ultimi giorni mi è capitato di intervistare per la trasmissione tre persone diverse. Non posso scendere in particolari, come capirete, ma si tratta di persone abbastanza “in alto”, per così dire. Non personaggi famosi, ma uomini e donne in posizioni che comportano un certo potere, quanto meno culturale.

Uno era tra i curatori della mostra su un fotografo del passato. Prima di intervistarlo mi sono documentato con una (una) pagina di Wikipedia sul fotografo in questione, tanto per. Quando gli ho chiesto qualcosa di più specifico oltre alla cartella stampa, ho sentito chiaramente il rumore delle sue unghiette sul vetro – e badate bene che un’intervista non è e non dev’essere un interrogatorio. Alla mia domanda sull’evidente importanza e rivistazione dei temi del fotografo oggi, con una finta l’intervistato mi ha parlato del fatto che “prima o poi tutto viene ripreso dalla moda”. Mi mancava solo che mi parlasse della completezza di uno sport come il nuoto, come mi ha detto prima FedeMC.

Una era la direttrice del luogo dove veniva esposta una collettiva di fotografi del presente. Ha definito “inglese” uno nato a Dublino, e ha raggruppato diversi paesi dell’Europa del nord, da dove provenivano altri artisti, dicendo “da nord”. Hic sunt leones. Con quel freddo.

Uno era il responsabile di un’importante galleria milanese. Ha citato un film sbagliandone la data. Ne ha citato un altro sbagliandone la pronuncia (e non stiamo parlando dei capolavori della cinematografia ungherese). Ma soprattutto ha usato continuamente l’espressione “mentre che” completamente a caso, messa in mezzo alle frasi, così, come si lanciano i coriandoli. Per non parlare dell’uso ormai diffusissimo di “piuttosto”, adoperato alla stessa maniera di un “o” congiuntivo.

Lo so, sono discorsi spocchiosi e pallosi. Ma così non solo si parla male, ma lo si fa credendo di essere colti. L’esempio di questo “piuttosto” usato a cazzo è evidente. Semplificando al massimo:
– qualcuno, in una posizione culturale di potere X, usa “piuttosto” nel modo sbagliato (per motivi che non ci è dato di sapere);
– un altro, in una posizione X-1, riprende l’uso sbagliato senza porsi domande, perché il signor X vuoi che parli male? Inizia ad usare quindi “piuttosto” in quel modo, sentendosi anche quasi manzoniano, colto, all’altezza di tutto quello (esagero) che il signor X rappresenta.
E la catena è infinita.

Sì, ci sono problemi più grossi al mondo, è vero. Ma non posso pensare che, anche in questo, siamo un paese approssimativo, arretrato, per molti versi orrendamente borbonico. E ciò si vede anche dalle parole, e da come sono usate per esprimere dei contenuti, per di più talvolta inesistenti.

Mentre che, piuttosto, eh?
Appunto.

L'inizio

Dopo una giornata di tentativi, ce l’ho fatta e ho aperto anche io il mio blog personale. Potrei dirvi che l’ho fatto perché non mi sentivo al passo coi tempi senza averne uno. O che passare il ferragosto in città è molto cool (!) ma anche molto poco cool (!!) e noioso. Potrei dirivi che l’ho aperto perché avevo bisogno di distrarmi dalla perdita d’acqua che penso farà crollare il tetto della mia cucina a breve. Ma tanto io me ne sto dall’altra parte.
Potrei. E invece, boh. Intanto vediamo come vanno le cose.
Sappiate che sono un fanatico della lingua italiana (l’unica lingua che sa di pizza e che suona il mandolino). Evitate abbreviazioni e “x” e “k”. Stendete le vostre parole lettera per lettera, come un bravo pizzaiolo fa di solito con la pasta. E non pensate di esagerare in quanto a sapore. Ma immagino che per qualche commento ci vorrà del tempo. Intanto vado a sproloquiare qua e là.
A presto.

Di |2003-08-15T17:49:19+02:0015 Agosto 2003|Categorie: I Me Mine|Tag: , |4 Commenti
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