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L'antica arte del fare le liste musicali di fine anno

Visto che tanto tra un po’ comparirà anche sul sito di Maps (in forma più ricca), anticipo qui le due liste musicali del 2008, dischi e concerti. L’anno scorso me l’ero cavata non mettendo dischi e concerti in ordine di importanza, quest’anno non posso usare quell’escamotage, quindi…

I dischi del 2008
Una nota: per lavoro, da gennaio a oggi, ho considerato qualcosa come 200 e rotti dischi. Questo vuol dire, in media, ascoltare un disco per un giorno e mezzo e poi basta. Ovviamente capirete che questo è impossibile. I dischi sono troppi, davvero. Ma ecco la mia decina:

1. Fleet Foxes – ST (SubPop/Bella Union)
2. Portishead – Third (Island)
3. TV on the Radio – Dear Science (4AD)
4. Bon Iver – For Emma, Forever Ago (Jagjaguwar)
5. Nick Cave & the Bad Seeds – Dig! Lazarus! Dig! (Mute)
6. Vampire Weekend – ST (XL)
7. MGMT – Oracular Spectacular (Columbia)
8. Black Mountain – In the Future (Jagjaguwar)
9. Why? – Alopecia (Tomlab)
10. Blake/e/e/e – Border Radio (Unhip)

I concerti del 2008
Altra nota: siccome sono maniacale, so esattamente quanti concerti ho visto in questi dodici mesi. Sono quarantaquattro. Per il sito di Maps ne ho selezionati cinque, qui mi allargo a dieci (ma venti sono davvero da ricordare, il che non è male, no?). Tra parentesi, come da tradizione, link a set fotografici, recensioni, video.

1. Bruce Springsteen & the E-Street Band (Stadio Meazza, Milano, 25.06.08) (foto, video, video, blog)
2. Fleet Foxes (Magazzini Generali, Milano, 15.11.08) (foto, blog)
3. Portishead (Saschall, Firenze, 31.03.08) (foto, video, blog)
4. Battles (Estragon, Bologna, 07.05.08) (foto)
5. Singer (Knitting Factory, New York, 29.04.08) (foto, blog)
6. Einstürzende Neubauten (Estragon, Bologna, 12.04.08)
7. Mondo Cane (Piazza Santo Stefano, Bologna, 18.07.08) (foto)
8. Explosions in the Sky (Estragon, Bologna, 26.05.08) (foto, blog)
9. R.E.M. (Futurshow Station, Bologna, 26.09.08) (foto, video)
10. Massimo Volume e Blake/e/e/e (Estragon, Bologna, 07.11.08) (foto, foto, blog)

Et voilà. Scannatevi nei commenti, dai.

I do know why

Quando li ho sentiti nominare per la prima volta, intorno a marzo di quest’anno, mi chiedevo che razza di nome fosse Fleet Foxes. Appena ho sentito il loro primo ep, Sun Giant, me ne sono sbattuto dell’onomastica e ho iniziato ad ascoltare a ripetizione le loro canzoni (secondo Last.fm sono la band che ho ascoltato di più, dopo Beatles e Nine Inch Nails, il che per me è un po’ come dire che è la cosa che ho fatto più frequentemente nella vita oltre mangiare e dormire). A Maps quell’ep è diventato il disco di una settimana corta: cinque pezzi, ci stava benissimo. Ma ho sempre avuto la sensazione che, forse, avevo in qualche modo sacrificato il loro talento. Sensazione confermata quando, poco dopo, ho avuto modo di ascoltare tutto il disco. Quando è stato eletto disco del mese da Mojo ero contento come se fosse stato il mio lavoro ad essere stato scelto. Insomma, miei piccoli lettori, amore allo stato puro.

RobinPotevo quindi perdermi la data di ieri a Milano? No, non potevo. E sapevo anche che sarebbe stato un concerto eccezionale, che avrei avuto i lucciconi per tutto il tempo, che le loro armonie vocali sarebbero state scintillanti dal vivo come su disco. Quello che non sapevo è che, alla fine del concerto (con un preambolo durante il concerto) avrei scoperto che condivido con un membro della band una passione in comune, quella per Dario Argento, e che questo ci avrebbe fatto chiacchierare fitti fitti (sebbene per una decina di minuti) e scambiarci le mail, per continuare a distanza il discorso.

Insomma, ci sono serate perfette, dal viaggio in macchina con una delle mie band preferite, fino agli ultimi saluti: so il perché.

Fleet Foxes live@Magazzini Generali – Set fotografico

Anch'io accecato (dalla luce)

From the screenIl sospetto deve venire: perché tutti (tutti: fan, appassionati, gente capitata lì per caso, uomini, donne, bambini) ti dicono che assistere a un concerto di Springsteen è un’esperienza che va oltre il concerto, avvicinandosi a qualcos’altro di più totale e magnifico?
Eppure sono andato a Milano, ieri, cercando di non avere aspettative, di non pensare all’amico Morozzi e alle migliaia di persone nel mondo che, come lui, investono immani quantità di tempo e soldi per seguire il Boss in tutte o quasi le tappe dei tour europei. Non ho pensato al mito, ai dischi, alle immagini che lo ritraggono. Sono entrato a San Siro cercando – più che altro – di non svenire per il caldo. Poi ho visto quante persone c’erano e ho vacillato.

Alle otto e cinquanta di ieri sera è successo qualcosa: Bruce Springsteen e la E Street Band sono saliti sul palco dello Stadio Mezza di Milano, hanno suonato una cover (“Summertime Blues” di Eddie Cochran, per la cronaca) e si è aperto un squarcio temporale che è durato tre ore esatte, praticamente senza pause. Senza. Pause.
Part of the audience (a very little part)Oggi mi è arrivata una mail da un ascoltatore che sapeva sarei andato al concerto, che mi chiedeva con che parole avrei descritto in onda la serata di ieri. Figuratevi qua, che posso fare, mettendo passo dopo passo le parole nero su bianco…
È stato incredibile. Non ho mai visto nessuno, e dico nessuno, spendersi sul palco in quel modo, essere disponibile col pubblico, prendere richieste, stravolgere scalette per essere vicino alla folla che è venuta apposta per vedere e sentire lui e la sua band. Ma soprattutto – e qui sta il segreto, miei piccoli lettori – non ho mai visto nessuno divertirsi così sul palco.
Eravamo 65000, ieri. Anche secondo la Questura (il Boss unisce gli animi e i conteggi). E abbiamo letteralmente vibrato a tempo. Avete mai visto 130000 braccia agitarsi in sincronia? Avete mai sentito come 65000 persone cantano “Born to Run”? Avete mai visto un sessantenne buttarsi per terra, urlare, suonare, incitare pubblico e band per centottanta minuti, risultando sempre sincero e credibile? Avete mai visto lo stesso sessantenne finire il concerto, uscire di nuovo, prendere una tinozza e una spugna, bagnare tutte le prime file del pubblico, risalire sul palco e fare un bis di otto canzoni, finendo con “Twist and Shout”?
Io, fino a ieri, no.

The BossNon è stato un concerto, è stato decisamente qualcosa di più. Tanto che vorrei comprarmi una Smemoranda apposta per segnare la data di ieri. E basta.
Mi unisco agli accecati. E anche io vi dico, o voi che non siete mai andati ad un concerto di Springsteen: andateci. Andateci. Non vi pentirete assolutamente, perché, una volta tanto, “quello che si dice” è vero, ma in più c’è la musica.

Bruce Springsteen and the E Street Band – Milano 25.06.08. Tracklist: Summertime Blues (cover) – Out In The Street – Radio Nowhere – Prove It All Night – The Promised Land – Spirit In The Night – None But The Brave – Hungry Heart [Tour Premiere] – Candy’s Room – Darkness On The Edge Of Town – Darlington County – Because The Night – She’s The One – Livin’ In The Future – Mary’s Place – I’m On Fire – Racing In The Street – The Rising – Last To Die – Long Walk Home – Badlands
Girls In Their Summer Clothes – Detroit Medley – Born To Run – Rosalita – Bobby Jean – Dancing In The Dark – American Land – Twist And Shout (cover) [Tour Premiere]

Ancora non ci credete? Toh, allora, vedere per credere. Due pezzi minori, “Because the Night” e “I’m on Fire”, freschi freschi da ieri…

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=KCrNcGlLgI4&hl=it]
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=f46DmRxGNco&hl=it]

Down In It: Nine Inch Nails, Live@Alcatraz, Milano, 01.04.07

Esattamente otto anni dopo avere visto uno dei concerti più belli della mia vita, torno nello stesso posto, con lo stesso amico, a rivedere uno dei miei gruppi del cuore.
Quando passano così tanto tempo tra due eventi del genere, è evidente che la lunga attesa prima del concerto potrebbe essere riempita da pensieri come “L’ultima volta che li ho visti qua avevo 21 anni”, ma queste meditazioni sono interrotte dall’incubo che mi perseguita in tutti i concerti a cui tengo di più: come era successo già all’ultimo concerto dei Karate a cui ho assistito, ecco che si presentano puntuali quelli che io chiamo “gli ultras dell’Andria”. In quell’occasione, infatti, un gruppo di veneti ubriachi aveva cantato per tutto il concerto gli inni della loro squadra del cuore sulle melodie dei Karate. Encomiabile, come tentativo, penosa e fastidiosissima la riuscita della cosa.
I Ladytron si sono appena esibiti, la folla aspetta i NIN, ed eccoli, i tifosi: sono in tre, e si devono reggere insieme per non cadere per terra. Ovviamente, spingendo qua e là, si piazzano accanto a me. Dopo qualche sguardo interrogativo, vedo che uno ha un bicchiere di plastica pieno e lo tiene a mezz’aria, dritto davanti a sè. Fa per rovesciarlo per terra (in uno spazio di un metro quadro in cui ci sono almeno dieci persone), ma prima mi guarda. Io gli faccio “no” con la testa, lui mi prende come arbitro morale della situazione e mi dice “No, eh?”. Gli suggerisco di passare il bicchiere ad altri, in modo tale che raggiunga i limiti della sala. Lo fa.
Dopo poco mi pone un altro grande interrogativo etico. Biascica: “Ma se uno dovesse venirgli da pisciare (sic), la farebbe qua, no?” e nel chiedermi questo inizia ad armeggiare coi pantaloni. Sudo freddo. Riesco solo a scuotere la testa, sperando di mantenere il ruolo appena acquisito. Miracolosamente rinuncia. O se la fa addosso, non so e non voglio sapere.
Un altro po’ di tempo e uno dei tre, quello più basculante di tutti, inizia a strusciarsi su una ragazza di fronte a me. Nessuno fa niente e io conquisto la seconda onorificenza sul campo, togliendo la ragazza dal pesante ed etilico abbraccio del barcollante giovane.
Si spengono le luci, inizia “Pinion” e quindi, non appena partono le prime note di “Mr Self Destruct”, non capisco più niente. Una violenza inaudita travolge il pubblico, con un attacco di concerto memorabile. I tifosi dell’Andria, probabilmente, vengono calpestati dalla folla, la temperatura emotiva si innalza a dismisura, ma mai quanto quella fisica: dopo due pezzi siamo tutti sudati e distrutti.

La folla mi spinge da una parte all’altra e godo come un riccio: la scaletta sembra quasi quella di un set di The Downward Spiral, non si fa in tempo ad esultare per un brano che ne parte un altro. Così mi trovo, fortunello, in un’altra zona del locale, dove faccio la conoscenza di uno strano personaggio. Capelli lunghi, barba lunga, occhi spiritati, fa headbanging facendo roteare la chioma e inondando di sudore chiunque si trovi nel raggio di qualche metro dalla sua seminuda persona. E’ coperto da uno strato viscido di sudore, e quando, approfittando del macello incessante, gli do una bella spinta, torna indietro, incrocia le braccia all’altezza dei polsi, sfodera due belle corna metal e rovescia gli occhi mostrandomi la lingua.
All’ennesima ondata di sudore mi allontano.
Lo vedrò, un po’ dopo, mentre, immobile in mezzo alla folla, tiene il cellulare all’orecchio. Ho pensato che, forse, si chiedesse se la voce che risponde facendo il numero 666 (“Il numero che lei ha composto è inesistente”) sia quella del Principe delle Tenebre in falsetto. O forse è la prova che l’Inferno non esiste?

La temperatura aumenta, e Trent Reznor, mosso a pietà, lancia delle bottigliette d’acqua sul pubblico. Il frontman dei NIN è un po’ troppo pompato, ma chi se ne importa: continuano a suonare come una macchina, senza tregua, senza sosta, e soprattutto senza fare brani troppo recenti.
Il ritmo, infatti, cala solo nei due pezzi del prossimo disco, Year Zero, che però il buon Trent ci invita tranquillamente a “rubare”.

E poi arriva il momento che mi aveva fatto levitare, nel novembre 1999, dalla decima alla seconda fila, “con una forza dentro che neanch’io so come”. Ancora una volta, “Hurt” (versione solo voce e piano, fino all’entrata finale delle chitarre) distrugge nel senso migliore del termine tutti i presenti (e forse fa finire in lacrime anche i veneti ubriachi e l’emulo di King Diamond). Ma il finale è per “Head Like a Hole”, durante la quale credo siano stati concepiti diversi pargoli, vista la ressa mostruosa a cui nessuno è riuscito a sfuggire.

Quindi, che dire? Che sono una live band fenomenale, che, rispetto al concerto del ’99 sono mancate le parti combinate strumentali-video, che probabilmente parte della creatività che Reznor aveva raggiunto con The Downward Spiral e The Fragile se n’è andata, che inizio a tifare contro l’Andria Football Club e che, se il Diavolo c’è, ha cambiato numero.

Nine Inch Nails – Alcatraz, Milano, 01.04.07 – Setlist:
Pinion – Mr. Self Destruct -Terrible Lie – Heresy – March of the Pigs – The Frail – The Wretched – Closer -The Becoming -The Beginning of the End – Wish – Gave Up – Help Me I’m in Hell – Eraser – Reptile – No You Don’t – Survivalism – Only – Down in It – Hurt – The Hand that Feeds – Head Like a Hole

A year in the life

Un anno fa pensavo di trasferirmi a Milano. C’era la prospettiva di un lavoro là. Milano mi appariva come una città ostile e inospitale, a meno che uno non abbia molti soldi. Attendendo notizie sulla mia nuova vita, progettavo piani di rapine a gioiellerie del centro e bevevo Bacardi Breezer. Nessun maledettismo. Ho detto Bacardi Breezer, non whisky liscio, insomma. Ogni volta che racconto del mio agosto 2003 passato in parte da solo a bere Bacardi Breezer, la gente mi guarda come se avessi confessato loro la mia zoofilia. Quella non l’ho mai confessata a nessuno. A parte ad un paio di veterinari. Pensavo che, una volta a Milano, facendo un certo tipo di lavoro, la cosa difficile sarebbe stata mantenere una certa abitudine alla scrittura. Come fare? Un blog, semplice. Avrei scritto quotidianamente di un giorno della vita di un non milanese a Milano. Che idea geniale, eh? In quel momento hanno suonato alla porta. Era Sting, che mi ha cantato An Englishman in New York. “Pirla”, mi ha detto poi, in perfetto italiano. Dopo un iniziale momento di smarrimento, gli ho rinfacciato che era stato lui a sciogliere i Police, e che dopo si era messo a fare dischi di merda. Se n’è andato senza salutare. Sono cose che capitano.
Invece sono rimasto a Bologna, ho lavorato saltuariamente a Milano, che mi è sembrata meno inospitale ed ostile di quanto pensassi, anche se ogni volta che la lasciavo per tornare a Bologna, mi trovavo attaccato sulla schiena un biglietto che diceva “Pirla”. Ho sempre sospettato che fosse Sting, non Milano, il colpevole di questo scherzo.

Sting che aspetta con ansia l'arrivo di un carico di Bacardi Breezer

Il 15 agosto di un anno fa faceva caldo. Caldo a Ferragosto. Ha dell’incredibile. E ho aperto lo stesso un blog, nonostante il mio veterinario me lo sconsigliasse. Perché mi piaceva l’idea che le mie parole si facessero dei giretti, di tanto in tanto.
In quest’anno le mie parole hanno girato un sacco, si sono trovate bene, talvolta sono state molestate, ma in generale sono state ricoperte d’affetto, e io di conseguenza. Per questo: grazie a tutti voi, davvero.
In quest’anno sono cambiato. Ho buttato via i piani di rapina, non bevo più Bacardi Breezer, e ieri mi è arrivato un messaggino di Sting. Adesso lo beve lui, è in difficoltà e vuole che io gli dia una mano ad uscirne.
Quindi me ne vado in giro con lui, tenterò di fargli aprire un blog. Ci si risente tra una settimana scarsa.

La rivolta degli oggetti – parte quarta

Avrei dovuto capirlo che non era giornata, da quando stamattina il cellulare ha rifiutato di accendersi, senza alcun motivo. Ho fatto la solita cosa inutile di togliere la pila e rimetterla, che ha molto più dello sciamanico che del sensato. Niente. Poi, senza dirmi nulla, si è acceso, ed è comparso un messaggio sul visore: “Paura, eh?”. Devo tenere il mio cellulare lontano dal televisore.
Faccio le mie cose, mi metto al portatile a scrivere. Si blocca. Control Alt Canc non funziona, quindi a mali estremi, estremi rimedi. Siccome l’usuale martello non c’è, lo spengo dal pulsantino. Toc. Zzzzzz. Spento. Lo guardo. Riaccendo. VVVvvvvvvv. Schermata nera.

“Vuoi avviarmi in modalità provvisoria, bel maschione?”
“Ma, veramente mi accontenterei del solito, caro.”

Niente. Non si vuole avviare. Metto venti euro nel cassettino del cd rom. Niente. Non ne vuole sapere. Il panico inizia ad impadronirsi di me. Mi tocca chiamare… l’assistenza. Ora, questo per me equivale ad una sconfitta. Vincono sempre loro.
Mi risponde una voce lentissima e depressa, da impiegata cinquantenne triste che inizia ad avere i sentori della menopausa. E la voce è registrata, non vi dico altro: le scelgono bene. Inizio a seguire le istruzioni del caso, digitando i numeri richiesti. Dopo avere collezionato una ventina di cifre sul display del mio telefono, finalmente mi risponde una voce. Una umana, dico.
“Pronto, sono Carmelo, mi dà un cognome?”
Penso che abbia problemi di identità, Carmelo, e inizio ad inventare un cognome che gli possa stare bene. Ma Carmelo X richiama la mia attenzione.
“Insomma, come si chiama?”
Do il mio cognome e lui mi dice dove abito, che numero di telefono ho, che scarpe porto in quel momento e anche qual è il mio cane di razza preferito. Però Carmelo non sa quale sia il numero di serie del mio portatile. E non lo so neanche io.
“Sta sotto il portatile”, suggerisce Carmelo Esposito. Dico a Carmelo Ming di attendere. Guardo sotto il computer. C’è un’etichetta con almeno sei serie di numeri diverse. Provo con la più difficile e la trascrivo. Torno da Carmelo Blissett.
“Non so se sia questa. Le detto una serie di trenta numeri e lettere”
“Inizia con ventotto?” chiede Carmelo.
“Veramente no”
“Allora non è quello”
Alla fine ce la faccio, e Carmelo mi identifica e mi dà anche dei numeri da giocare al lotto, ma solo sulla ruota di Aversa verso la metà del 2005. Non sto lì a dire che la ruota in questione non esiste e finalmente giungiamo al problema.
“Le posso dare prima soluzione”, dice Carmelo, “ma di più non posso dirle. Siccome suo computer non è più in garanzia, per sapere altro deve pagare venti euro. Ha carta di credito?”
Mi verrebbe da dirgli: “Ma Carmelo, santiddio, lo sai benissimo che ho una carta di credito, sai anche il numero di serie, sai dov’è il cassetto dove la tengo e anche il cognome da nubile di mia madre”. Invece mi accontento della prima soluzione, quella gratis. Che ovviamente non dà alcun esito. Richiamo. Carmelo è visibilmente soddisfatto, e me lo immagino tutto blu, con gli occhiali e delle ridicole mutandine bianche. “Te l’avevo detto, io. Dai, caccia il numero di carta di credito. So’ ventieuri, alla fine quanto ti costa una pizza? Dai, caccialo”.
E io glielo do. Carmelo impazzisce di gioia, mi dà tre soluzioni diverse al problema, ventilando, però, che potrebbe essere qualcosa di grave.
“Ma no”, dico io, toccando le palle ad un cavallo ben ferrato, salato e ornato di cornetti rossi che tengo sempre vicino a me in occasioni del genere. Niente. Neanche stavolta le soluzioni servono. Richiamo, e ormai penso che le mie telefonate siano passate al vivavoce e che intorno a Carmelo ci sia un party con i fiocchi. Ogni tanto, in effetti, quando mi parla, sembra che abbia la bocca piena di fonzies. Quando sento rumore di leccata di dita non ho dubbi: mi stanno prendendo per il culo e si sono già sputtanati i miei venti euro in chinotto e pop corn. Bastardi.
Dagli altri dati che Carmelo ha, il “tecnico” giunge ad una conclusione atroce.
“Qui è problemo di riformattamento disco.”
“Come?”
“Come si dice in italiano?”
“In italiano?”

E allora capisco che Carmelo proviene da un altro paese. Cosa ci faccia al centro di assistenza Sony (ma sì, diciamolo) del capoluogo lombardo è un mistero. Forse è un calciatore brasiliano in esubero al Milan, che ne so. Comunque la diagnosi di Carmelo è atroce. Perdita completa dei dati, dovuta a danneggiamento del disco rigido.
“Ma quanto mi costa? Cioè, quanto mi costerebbe rimetterlo a posto?”
Ladies and gentlemen: il climax di Carmelo! “Tra virgolette, con un punto di domanda, insomma, per il trasporto sono venti euro, la riparazione sono almeno duecento, più il pezzo…” Esita, lo stronzo. “Diciamo che sono duecento cinquanta trecento trecento cinquanta… Insomma, sui quattrocento euro”
Lo fermo, prima che alzi la posta, e scoppio in lacrime.
Torno in camera dal portatile. Mi avvicino e lo accarezzo. Provo ad accenderlo, recitando dei salmi in aramaico (imparato grazie al film sulle torture a Gesù). Tutto funziona. Miracolo (come nel film sul ritorno del Cristo vivente).
E compare una scritta sullo schermo: “Paura, eh?”.
E sento in lontananza il mio cellulare che ridacchia piano, nell’ombra.

Pregiudizi e stereotipi

Ci si cade, ogni tanto, c’è poco da fare. E ovviamente ci cado anche io. Iniziamo.
Gli studenti della nota-università-con-le-scale-mobili sono tutti fighetti. Falso. Premessa. Ah, intanto la prima rampa di scale mobili non funziona. Eh. E poi: gli studenti del mio corso sono, fortunatamente, persone normalissime. Certo, sulle suddette scale mobili ho visto un paio di personaggi che sembravano usciti da Vogue: patinati e bidimensionali. Ma questo capita quasi ovunque. Sono quindi orgoglioso di fare parte del corpo insegnante della nota-università-con-le-scale-mobili. E ho anche il registro. Che vuole, signò, so’ soddisfazioni…
A Milano corrono tutti e tutti hanno fretta e tutti devono lavorare. Non ci ho mai creduto. Ma in un noto locale per l’aperitivo sono andato al bancone e sono stato lì un minuto di orologio ad aspettare, guardandomi intorno. Locale e bancone abbastanza affollati. Il ragazzo dietro il bancone, ad un certo punto, dà uno scappellotto sulla nuca di un altro barista (un “sottoposto”?) e gli dice: “Oh, ma allora! Hai visto che quello lì [io] è da due ore al bancone? La tua area è questa (fa gesto con le mani per indicare il bancone), non questa (fa gesto con le mani per indicare il resto del locale)”.
Poi mi chiede cosa voglio e mi prepara il Martini cocktail. Nel frattempo il ragazzo malmenato mi dice “Seiecinquanta” e io pago. “Mi dispiace di essere stato causa di questo”. E lui: “Ma tanto mi vendico”. Io faccio una risatina, lui no. Il Martini è buono, ma mi viene servito in un bicchiere tondo. Per non incentivare la spirale di violenza, non dico niente, figuriamoci.
Chi ha un blog rimorchia di più. Falso. Speravo, io. E se no perché l’ho aperto? Invece niente. Che delusione.
I troll sono il Male. Ma no. È carino allevarseli. E poi, mi hanno detto a Milano, è molto molto cool averne almeno un paio. Tipo che se hai un blog e aprono un blog che sembra il tuo ma non lo è, anzi, ti prende anche in giro, diventi immediatamente una blogstar. Che è un po’ la massima aspirazione della mia vita, dopo, ovviamente, la conquista del primo posto nel Grand Prix Classic di Napa Valley.

Regalo (per voi che leggete)

Se fossi giulio mozzi, vi racconterei per filo e per segno cosa sto andando a fare a Milano per il fine settimana. Anche perché un po’ giulio mozzi c’entra. Invece, siccome me ne sarò via fino a lunedì, vi lascio un dono culinario. No, nessun link da cliccare e poi vi viene fuori dal lettore cd una torta al cioccolato. Ma questo. Che, in parte, c’entra con uno dei motivi per cui sono a Milano.

Pasta col cavolfiore al forno

Dosi per quattro persone: 400 grammi di pasta corta (dipende da quanto mangiate, ovviamente) tipo tortiglioni, penne rigate, sedani; 900 grammi circa di cavolfiore molto fresco; due spicchi d’aglio; sei filetti d’acciuga sott’olio; una manciata di capperi sotto sale; olio e parmigiano quanto basta.

Pulire il cavolfiore togliendo le foglie esterne e il torsolo più duro, tagliarlo a cimette, sbucciare la parte tenera del torsolo e tagliarla a fettine. Mettere tutto a lavare in acqua fredda. In un tegame basso e largo mettere l’olio, i capperi ben lavati le acciughe e l’aglio (non tritato), quindi aggiungere il cavolfiore senza scolarlo troppo. Porre il tegame sul fornello a fiamma media e mescolare per distribuire bene gli ingredienti. Quando l’olio si è ben scaldato, abbassare la fiamma e mettere sul tegame un coperchio. Lasciare cuocere lentamente mescolando di tanto in tanto, badando che non si asciughi troppo. Le acciughe, l’aglio e parte del cavolfiore si devono disfare, ma senza che si spappolino. Assaggiare per regolare di sale (che va messo dopo).
Cuocere la pasta al dente, scolarla e mescolarla al cavolfiore. Ungere una teglia con un po’ di olio, versare la pasta condita, livellare e cospargere di parmigiano grattato. Mettere nel forno caldo e fare gratinare.

Fatemi sapere. Buon appetito e a lunedì.

Francesco prepara il suo famoso piatto, i testicoli di porco flambè, ad una simpatica coppia di clienti nel suo ristorante di Pasadena. O di Seattle. Non ricorda.

Di |2003-11-07T02:15:00+01:007 Novembre 2003|Categorie: I Me Mine, Savoy Truffle|Tag: , , , |7 Commenti
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