trent reznor

Tre dei miei fantasmi

I reading, accidenti. Sembra una cosa facile, scegliere dei brani da leggere: se si ha a cuore l’essere umano (in forma di pubblico del reading stesso) e la sua sopravvivenza, be’, non è cosa semplice. Quando, quindi, Malicuvata mi ha chiesto di metterne in piedi uno, io mi sono trovato in difficoltà. I miei padrini Egle e Gianluca non erano disponibili, e quindi… (Riceviamo e pubblichiamo)


Tre dei miei fantasmi
nasce dalla musica, o meglio, dalla mancanza di musica che volevo avere con me per questa mezz’oretta di letture. I musicisti che mi hanno accompagnato finora nei reading erano occupati: l’ho scoperto proprio mentre riascoltavo Ghosts I-IV, la monumentale opera strumentale di Trent Reznor, forse la cosa più vicina all’ultima premiatissima colonna sonora per The Social Network che Reznor ha scritto con Atticus Ross. Ho pensato che quella poteva essere la musica giusta per la lettura. Quindi ho scelto tre dei miei racconti che, in qualche modo, parlassero di fantasmi, sebbene non nel senso classico del termine. “Il biglietto” e “La guerra in cucina” sono stati ripubblicati recentemente nella mia ultima raccolta di racconti. “La rottura del ghiaccio sottile”, invece, ha visto la luce in un’antologia edita da Manni e credo sia la prima volta che viene letto in pubblico.
Domani sera allo Zammù, via Saragozza 32, Bologna, dalle 2130. Essiateci, se vi va.

Tutti i NIN minuto per minuto

Dopo il Golden Globe, ora Trent Reznor e Atticus Ross concorrono per l’Oscar come migliore colonna sonora. Qui si giubila solo all’idea, e nel frattempo segnalo un sito che è l’ulteriore conferma che la comunità di fan intorno ai NIN è calorosa, numerosa e tecnologicamente avanzata.
In Reflecting the Chrome ci sono centinaia di live dei NIN dal primo all’ultimo tour.
Da scaricare gratis, ovviamente.
E il giubilo aumenta.

È tornato, e non è da solo


E te pareva che Trent Reznor se ne stesse buono per un po’. Impossibile. Dopo l’annuncio dato alla fine di aprile, è apparso ieri il primo brano della nuova creatura del leader (o ex?) dei Nine Inch Nails. Il nome, How To Destroy Angels, è preso da un disco dei Coil (buono). Insieme a lui ci dovrebbero essere vecchi compagni di avventura (buono) e sua moglie Mariqueen Maandig (meno buono).
Comunque, qua potete sentire “A Drowning”, un brano che anticipa un ep la cui data d’uscita è fissata per quest’estate.
Speriamo bene…

Year Zero Posse

Li ho attesi tanto entrambi, sono il prodotto di artisti più o meno coetanei, che hanno iniziato la loro carriera più o meno nello stesso periodo, e che hanno anche collaborato, e, infine, li ho anche sentiti per bene nello stesso momento. Per cui ecco cosa penso di American Doll Posse e di Year Zero, gli ultimi dischi, rispettivamente, di Tori Amos e dei Nine Inch Nails, anche se, una volta di più, sarebbe il caso di dire Trent Reznor.

Nelle rispettive discografie, arrivano dopo una delusione, quasi completa, per quanto riguarda il lavoro precedente di Tori Amos, The Beekeeper, e parziale, a proposito di With Teeth, dei Nine Inch Nails. E la prima bella notizia è che sono entrambi album migliori dei loro predecessori.
Musicalmente parlando, innanzitutto, sono una sorpresa: Trent Reznor riprende in mano completamente un disco, suonandolo e producendolo, come non faceva dai tempi dell’esordio, Pretty Hate Machine, ma in maniera meno controllata e dando sfogo a se stesso, alle sue fantasie, pur mantenendo una produzione ineccepibile (non è una novità, ma anche questo disco dei NIN ha dei suoni, una produzione e un missaggio pressoché perfetti). Tori Amos, invece, si butta decisamente sul rock, con una presenza delle chitarre che non si era mai sentita prima, suonate da un certo Mac Aladdin (secondo qualcuno si tratta di Mark Hawley, sound engineer e marito della cantante).
Curioso il fatto che in entrambi ci sia un richiamo agli anni ’80: alcuni inizi delle tracce di American Doll Posse sembrano provenire dall’AOR dell’epoca, e anche alcuni suoni, soluzioni ed arrangiamenti di Year Zero sono riferiti direttamente a quel periodo. Ma Reznor fa un passo in più: dopo essere stato in tour, negli ultimi due anni, con TV on the Radio, Saul Williams, Peach e Ladytron a fare da supporto, è evidente, ascoltando l’ultimo disco dei NIN come questi suoni siano stati assorbiti e riproposti (senza scimmiottature) in Year Zero. Il che, personalmente, mi rende felice: da un lato perché vuol dire che Trent Reznor è ancora capace di guardarsi intorno (un atteggiamento che da sempre ha fatto la fortuna di Bowie) e dall’altro perché Return to Cookie Mountain, l’ultimo disco dei TV on the Radio, è secondo me il disco più bello del 2006.

Dal punto di vista dei testi, altra comunanza: si tratta, in entrambi i casi, di concept album. Il che, ancora una volta, non è una novità per questi artisti. Ma soprattutto Year Zero è programmaticamente un concept album a differenza di altri dischi, quali The Downward Spiral, che potevano essere letti come tali, anche se non era esplicita la cosa.
E da questa prospettiva, ancora comunanze: in entrambi i casi (e di nuovo la vera novità è data dal disco dei NIN) questa struttura è stata esplicitata in rete prima dell’uscita del disco, con l’incredibile campagna di marketing virale che ha accompagnato Year Zero e con il solito corredo web che ha lanciato il disco di Tori Amos: in quest’ultimo caso, addirittura, sono stati creati appositamente (con risultati non eccellenti, a dire il vero) dei MySpace “tenuti” dai personaggi in cui la Amos si sdoppia per dare vita alla sua posse.
Ovviamente in entrambi i dischi la politica ha un peso maggiore: i vaghi accenni di With Teeth diventano qua una vera e propria distopia su un mondo destinato all’autodistruzione: una sorta di collettivizzazione di “Mr Self Destruct”, che, proprio per questo, assume caratteri politici, sebbene in forma piuttosto semplificata.
Per quanto riguarda American Doll Posse, questo intento è chiaro fin dal primissimo pezzo, meno di due minuti voce-e-piano, intitolato “Yo George”. Poi Tori Amos ci infila sempre gli stessi temi: la condizione femminile, la violenza (“Fat Slut” è un pezzo veramente sorprendente, con una chitarra distortissima che fa da base alla traccia vocale: ma, anche qua, siamo sotto i due minuti), la sessualità.

E anche il packaging non è da meno: Tori Amos non rinuncia alla versione deluxe con dvd, su cui, a dire il vero, c’è poco (ma io l’ho comprato lo stesso), mentre Reznor fa uscire Year Zero su un normale supporto audio, ma sensibile al calore, cioè fatto dello stesso materiale del cofanetto dei singoli dei Massive Attack, per chi se lo ricorda: dopo averlo suonato, compaiono le informazioni su copyright e altro. Quando il dischetto ritorna freddo, rimane solo la scritta Year Zero.

Ma i due dischi hanno in comune un problema: la durata. Se si sente troppo la lunghezza dei singoli pezzi di Year Zero, in cui ogni traccia ha una coda rumoristica che in sè sarebbe anche positiva, se questa caratteristica non fosse ripetuta per tutti i brani del disco, il minutaggio di American Doll Posse sfiora l’ora e venti. Troppo, decisamente troppo.
Ma pare che la questione durata sia una caratteristica comune dei prodotti dello show business oggi: ormai i film non durano praticamente mai meno di due ore, e moltissimi dischi, appunto, hanno minuti e minuti che potrebbero essere eliminati, o, perché no, messi in un altro disco (in là nel tempo, furbetti, se no siamo punto e a capo).

Comunque, tutto sommato, sono contento: i due più che quarantenni ancora se la cavano, e non solo su disco. Dopo avere visto il concerto dei NIN, e avendo visto Tori Amos più volte (e aspettando la data del 30 maggio a Firenze), posso tranquillamente dire che offrono degli ottimi concerti. Adesso mi prendo una giornata di ferie e ascolto American Doll Posse e Year Zero un’altra volta.

Down In It: Nine Inch Nails, Live@Alcatraz, Milano, 01.04.07

Esattamente otto anni dopo avere visto uno dei concerti più belli della mia vita, torno nello stesso posto, con lo stesso amico, a rivedere uno dei miei gruppi del cuore.
Quando passano così tanto tempo tra due eventi del genere, è evidente che la lunga attesa prima del concerto potrebbe essere riempita da pensieri come “L’ultima volta che li ho visti qua avevo 21 anni”, ma queste meditazioni sono interrotte dall’incubo che mi perseguita in tutti i concerti a cui tengo di più: come era successo già all’ultimo concerto dei Karate a cui ho assistito, ecco che si presentano puntuali quelli che io chiamo “gli ultras dell’Andria”. In quell’occasione, infatti, un gruppo di veneti ubriachi aveva cantato per tutto il concerto gli inni della loro squadra del cuore sulle melodie dei Karate. Encomiabile, come tentativo, penosa e fastidiosissima la riuscita della cosa.
I Ladytron si sono appena esibiti, la folla aspetta i NIN, ed eccoli, i tifosi: sono in tre, e si devono reggere insieme per non cadere per terra. Ovviamente, spingendo qua e là, si piazzano accanto a me. Dopo qualche sguardo interrogativo, vedo che uno ha un bicchiere di plastica pieno e lo tiene a mezz’aria, dritto davanti a sè. Fa per rovesciarlo per terra (in uno spazio di un metro quadro in cui ci sono almeno dieci persone), ma prima mi guarda. Io gli faccio “no” con la testa, lui mi prende come arbitro morale della situazione e mi dice “No, eh?”. Gli suggerisco di passare il bicchiere ad altri, in modo tale che raggiunga i limiti della sala. Lo fa.
Dopo poco mi pone un altro grande interrogativo etico. Biascica: “Ma se uno dovesse venirgli da pisciare (sic), la farebbe qua, no?” e nel chiedermi questo inizia ad armeggiare coi pantaloni. Sudo freddo. Riesco solo a scuotere la testa, sperando di mantenere il ruolo appena acquisito. Miracolosamente rinuncia. O se la fa addosso, non so e non voglio sapere.
Un altro po’ di tempo e uno dei tre, quello più basculante di tutti, inizia a strusciarsi su una ragazza di fronte a me. Nessuno fa niente e io conquisto la seconda onorificenza sul campo, togliendo la ragazza dal pesante ed etilico abbraccio del barcollante giovane.
Si spengono le luci, inizia “Pinion” e quindi, non appena partono le prime note di “Mr Self Destruct”, non capisco più niente. Una violenza inaudita travolge il pubblico, con un attacco di concerto memorabile. I tifosi dell’Andria, probabilmente, vengono calpestati dalla folla, la temperatura emotiva si innalza a dismisura, ma mai quanto quella fisica: dopo due pezzi siamo tutti sudati e distrutti.

La folla mi spinge da una parte all’altra e godo come un riccio: la scaletta sembra quasi quella di un set di The Downward Spiral, non si fa in tempo ad esultare per un brano che ne parte un altro. Così mi trovo, fortunello, in un’altra zona del locale, dove faccio la conoscenza di uno strano personaggio. Capelli lunghi, barba lunga, occhi spiritati, fa headbanging facendo roteare la chioma e inondando di sudore chiunque si trovi nel raggio di qualche metro dalla sua seminuda persona. E’ coperto da uno strato viscido di sudore, e quando, approfittando del macello incessante, gli do una bella spinta, torna indietro, incrocia le braccia all’altezza dei polsi, sfodera due belle corna metal e rovescia gli occhi mostrandomi la lingua.
All’ennesima ondata di sudore mi allontano.
Lo vedrò, un po’ dopo, mentre, immobile in mezzo alla folla, tiene il cellulare all’orecchio. Ho pensato che, forse, si chiedesse se la voce che risponde facendo il numero 666 (“Il numero che lei ha composto è inesistente”) sia quella del Principe delle Tenebre in falsetto. O forse è la prova che l’Inferno non esiste?

La temperatura aumenta, e Trent Reznor, mosso a pietà, lancia delle bottigliette d’acqua sul pubblico. Il frontman dei NIN è un po’ troppo pompato, ma chi se ne importa: continuano a suonare come una macchina, senza tregua, senza sosta, e soprattutto senza fare brani troppo recenti.
Il ritmo, infatti, cala solo nei due pezzi del prossimo disco, Year Zero, che però il buon Trent ci invita tranquillamente a “rubare”.

E poi arriva il momento che mi aveva fatto levitare, nel novembre 1999, dalla decima alla seconda fila, “con una forza dentro che neanch’io so come”. Ancora una volta, “Hurt” (versione solo voce e piano, fino all’entrata finale delle chitarre) distrugge nel senso migliore del termine tutti i presenti (e forse fa finire in lacrime anche i veneti ubriachi e l’emulo di King Diamond). Ma il finale è per “Head Like a Hole”, durante la quale credo siano stati concepiti diversi pargoli, vista la ressa mostruosa a cui nessuno è riuscito a sfuggire.

Quindi, che dire? Che sono una live band fenomenale, che, rispetto al concerto del ’99 sono mancate le parti combinate strumentali-video, che probabilmente parte della creatività che Reznor aveva raggiunto con The Downward Spiral e The Fragile se n’è andata, che inizio a tifare contro l’Andria Football Club e che, se il Diavolo c’è, ha cambiato numero.

Nine Inch Nails – Alcatraz, Milano, 01.04.07 – Setlist:
Pinion – Mr. Self Destruct -Terrible Lie – Heresy – March of the Pigs – The Frail – The Wretched – Closer -The Becoming -The Beginning of the End – Wish – Gave Up – Help Me I’m in Hell – Eraser – Reptile – No You Don’t – Survivalism – Only – Down in It – Hurt – The Hand that Feeds – Head Like a Hole

Con le unghie e con i denti

“Nine Inch Nails is Trent Reznor”. Questa era una delle frasi scritte sul libretto di Pretty Hate Machine, il primo disco dei NIN.
Anche l’ultimo With Teeth, in un certo senso, riporta questa frase. Nel senso che all’interno del cd, che manca di libretto (qui le considerazioni di Trent sul perché di questa scelta), c’è una foto di Trent Reznor, che sfuma riducendosi in linee, che a loro volta si rifanno all’artwork del disco. Immagine azzeccatissima.
Perché in questo lavoro più che in altri c’è Trent al centro di tutto, e il suo precario equilibrio. Nei sei anni passati dall’uscita di The Fragile, ultimo lavoro in studio dei NIN, Reznor non è stato bene per niente. Ha ammesso una dipendenza da alcol, ha avuto problemi seri con manager ed etichetta, è stato male. Speriamo che questa incertezza che trapela in tutte le tracce di WT sia un ricordo di quello che è stato, l’ultimo passaggio per liberarsi definitivamente di un periodo difficile.
In tutto il disco le parole che ricorrono più spesso riguardano il senso di appartenenza (“belong”), e l’amore, ma sono sempre altri che amano e sono amati, e l’appartenenza e la sicurezza del cammino sono degli insetti, o di altre persone. Il “you” che prevale nel disco è generico, ma non si tratta più del segnale di schizofrenia presente nel capolavoro The Downward Spiral. Con quel disco siamo dalle parti del romanzo in terza persona, questo è autobiografia, un’intima confessione di un’ora.
La struttura musicale ha due richiami forti: una parte più elettrica e violenta (“You Know What You Are”, “The Hand That Feeds”, “Getting Smaller”, tanto per fare degli esempi), e alcuni pezzi che si rifanno direttamente a Pretty Hate Machine, come “Only”, prossimo singolo. In verità, però, c’è anche un terzo richiamo, trasversale a tutto il disco, che coincide con la forma canzone in “Right Where It Belongs”, la traccia che chiude WT. Sono queste le parti in cui viene fuori Reznor stesso, senza filtri (metaforici e reali), senza unghie e senza denti. Debole in maniera commovente, come forse non lo era mai stato.
Come dicevo, Reznor è il centro di questo disco, in tutte le sue sfaccettature. In quella più politica (“The Hand That Feeds“), quella più solitaria e pensierosa (“All the Love in the World“), quella più rabbiosa, simile per suoni e testi all’accoppiata Broken/Fixed (“You Know What You Are“). Certo, ci ci si potrebbe chiedere chi sia il “tu” (“pieno di merda” e che “non ha mai sentito una mia parola”) a cui Trent si riferisce. E si potrebbe anche pensare che, in fondo, c’è una canzone dolce e quasi positiva quasi al termine dell’album, come “Beside You in Time“, che potrebbe ribaltare l’ossessione dei testi precedenti, e che dà anche una notevole apertura musicale, dolce e intima. Ma non è quello l’ultimo momento di WT.
Reznor, infatti, chiude il suo nuovo album con una delle canzoni più belle che abbia mai scritto, “Right Where It Belongs“, in cui tutte le supposizioni vanno a farsi benedire, ed emerge da testi e musica una rassegnazione ed un’angoscia di cui possiamo trovare un precedente solo nella chiusura di The Downward Spiral, cioè “Hurt”. Alla fine di With Teeth, Trent si rivela dubbioso di tutto, cantando sommessamente e chiudendo il suono. La voce e la musica riprendono corpo solo quando emerge, inquietante e pervasivo, l’urlo della folla ad un suo concerto. Un urlo che fa venire i brividi, e quasi copre il cantato, che recita:

What if everything around you,
Isn’t quite as it seems?
What if all the world you think you know,
Is an elaborate dream?

Un dubbio che non è, come hanno sostenuto in molti, capzioso e adolescenziale (lo dice in “The Line Begins To Blur“, canzone chiave e adulta come non mai), ma ontologico, che riguarda la vita più appariscente di Reznor, quella dei Nine Inch Nails, appunto, la massa urlante che copre il singolo sul palco. Una massa urlante necessaria. E quasi per dare forza ai suoi fan (mi verrebbe dire, esagerando, per sentirli più vicini), Trent Reznor ha regalato loro il suo singolo più facile, smontato (qui i pezzi per Mac, qui quelli per PC*) per poi essere remixato da chiunque a piacere, dando ad altri (me compreso, come potete ascoltare qua sotto) la possibilità di fare quello che lui ha reso una pratica attesa dei suoi dischi, visto che ogni lavoro in studio è stato seguito da un disco di remix e rielaborazioni.
Non posso definire With Teeth un capolavoro. Ma non importa. Quando si sente qualcuno parlare sinceramente, non si fa caso alle pause e agli errori. Si ascolta, e basta.

*grazie al prolifico lavoro dei membri del Nine Inch Nails Forum Italia.

1994

Jar of Flies degli Alice in Chains, Ill Communication dei Beastie Boys, One Foot in the Grave, ma anche Mellow Gold, entrambi di Beck, Parklife dei Blur, il primo disco omonimo dei Future Sound of London e dei Korn, il disco omonimo (ma non primo) dei Kyuss, il primo disco di Marilyn Manson, Far Beyond Driven dei Pantera, Crooked Rain Crooked Rain dei Pavement e poi Dummy dei Portishead, Superunknown dei Soundgarden e Experimental Jet Set, Trash and No Stars dei Sonic Youth. E, ovviamente, come dimenticare lo “sdoganamento” “punk” di NOFX e Green Day (Punk in Drublic e Dookie) e il viaggio nel corpo umano di Vitalogy dei Pearl Jam. Il primo disco dei Weezer. L’ultimo concerto dei Nirvana. La nuova edizione di Woodstock.
Basterebbero questi titoli e questi eventi, e chissà quanti me ne sono dimenticati, per stabilire l’importanza di un anno cardine per la musica, la società e la cultura del decennio. Ma ne aggiungiamo un altro, The Downward Spiral, il capolavoro dei Nine Inch Nails.
Trent Reznor ha fatto uscire alla fine dello scorso novembre una versione deluxe del suo TDS dieci anni dopo la sua pubblicazione. A guardare bene, però, Reznor non celebra soltanto il decennale del disco, ma del suo 1994. Nel secondo cd della confezione, infatti, troviamo tracce pubblicate in quell’anno dai NIN con demo, remix, b-sides e pezzi scritti per o finiti nella colonna sonora de Il corvo e di Natural Born Killers (se dovessimo parlare anche dell’importanza extra-cinematografica di alcuni film di quell’anno non la finiremmo più). Quindi non solo una celebrazione di un disco, ma proprio di un momento nella musica popolare in senso lato.
Si dovrebbe fare un discorso lungo e articolato sulla forma di remixing che Reznor ha dei suoi pezzi: si tratta spesso, anche se non sempre, di vere e proprie seconde lavorazioni, come se il pezzo “normale” fosse materiale grezzo, e il mix (o il remix) sia il prodotto finito. Il remix a cui è stato sottoposto TDS per questa nuova versione deluxe non è stato assolutamente invasivo (visto che l’album del 1995 dei NIN, Further Down the Spiral, è già un remix di TDS), ma ha sfruttato le possibilità tecniche per fare del disco ancora di più un’esperienza sonora.
Molti, infatti, hanno definito TDS un concept album sulla follia, o meglio, sugli ultimi momenti della vita di un pazzo. I testi, in effetti, lasciano poco spazio ad altre interpretazioni. Già dalla prima “Mr Self Destruct” (che riprende il campionamento di un pestaggio del film THX 1138), si parla di uno sdoppiamento psicotico: “I am the voice inside your head / And I control you”. Ma la spirale del titolo la percorriamo anche noi ascoltatori: Reznor ha un senso visivo piuttosto spiccato e grazie cinematografico remix surround 5.1 riusciamo ad addentrarci nella mente del protagonista, tra momenti quasi sognanti e altri più violenti, per non uscirne più. Al massimo si può seguire Mr Self Destruct in qualche delirio pseudo onirico (“Piggy” e “March of the Pigs”), per piombare poi in spietate autoanalisi (“Ruiner” e “The Becoming”). C’è un tema musicale ricorrente (ovviamente discendente, che mima la struttura narrativa dell’album) e delle parole che compaiono più volte nel disco. “Nothing can stop me now” è l’espressione più presente, e pare un presagio continuo della fine, una fine annunciata già dal titolo della prima traccia (“Mr Self Destruct”), ma anche una liberazione. Se ogni canzone, infatti, vede il protagonista che agisce o subisce qualcosa in senso violento e assoluto (la differenza è di poco conto, visto il solipsismo imperante), il “niente può fermarmi, ora” dà un senso di libertà di percorrere la spirale discendente fino in fondo, senza costrizioni e impedimenti.
“Eraser” è preceduta da “A Warm Place”, l’unica traccia strumentale del disco, ed è una canzone rilassata e tremenda: “ho bisogno di te / ti sogno / ti trovo / ti assaggio / ti scopo / ti uso / ti taglio / ti rompo / lasciami / odiami / sbattimi / cancellami” e nel libretto non è riportato l’ultimo “kill me”, urlato tra i rumori. Ma l’ultimo pensiero prima del suicidio, che avviene “fuori campo”, è per una donna (“Reptile”), che la mente del protagonista, ovviamente, vede come dolce e infetta allo stesso tempo. L’ultima frase del testo è “I am so impure”, e poi si passa alla title track, in cui sembra che ci sia qualcuno che parli della scena del suicidio dal di fuori, con un brusco cambio di focalizzazione. La canzone si conclude con quello che potrebbe essere un nuovo accenno di follia (“The deepest shade of mushroom blue / All fuzzy / Spilling out of my head”), ma il disco non è finito. “Hurt” è l’ultima canzone di TDS, e credo sia una delle più belle canzoni degli ultimi vent’anni (non credo assolutamente di fare un’affermazione rivoluzionaria, sia chiaro): ma a chi attribuirla? Al suicida, come fosse un ultimo pensiero? Alla voce della traccia precedente, ormai presa anch’essa dalla spirale discendente? A Trent Reznor stesso?
Chi è che muore, alla fine di TDS? Forse Trent Reznor stesso, che si è reso conto, per sua stessa ammissione, di avere fatto un album definitivo, dal quale sarebbe stato difficile tornare indietro, un disco difficile e complesso nei temi, ma che è rimasto il più grande successo dei NIN, sia dal punto di vista del pubblico che della critica. TDS rimane un album duro, che fornisce costantemente materiali per i live, compreso quello di Woodstock del 1994, dove su quindici pezzi solo tre arrivavano da TDS. Ma, estrapolati dal contesto, questi pezzi hanno una forza che si esaurisce nella loro stessa durata, pur rimanendo dei gioielli. Ascoltare e leggere con attenzione la spirale discendente dall’inizio alla fine è tutt’altra cosa. Non credo che Trent Reznor avrà mai il coraggio di ripercorrerla tutta dal vivo: molti dicono che una volta arrivato in fondo alla spirale (e nel secondo disco c’è anche un pezzo che si chiama “TDS: the Bottom”), per Trent non sia stato facile risalire. Ci sono infatti voluti cinque anni per il suo disco successivo, non per niente intitolato The Fragile.
Se si potesse intuire qualcosa della vita di un musicista dai titoli dei dischi che scrive, però, dovremmo dire che Trent è rinato, o che comunque la sua rabbia è di nuovo rivolta all’esterno: With Teeth, il prossimo album dei NIN, è in uscita tra poco più di due mesi.

Nine Inch News

22 maggio. Lo spostamento è completo. Il lavoro è incominciato. Trent ha una lavagna a secco, sul muro della stanza dove lavora. In alto c’è scritto a grandi lettere: avidità, diritto acquisito, delusione. Poi ci sono scritte un po’ di altre cose.

In questo periodo di ondivaga malinconia, sapere che l’adorato Trent Reznor è tornato al lavoro mi dà una gioia infinita. Era tantissimo tempo che il sito dei Nine Inch Nails era inerte, immobile. Una pagina nera, o sfumata. E io che perdevo le ore, passandola in maniera certosina con il mouse per cercare link nascosti. E poi le voci, da quelle più inutili a quelle più serie: il progetto Tapeworm che svanisce nel nulla, gli scazzi con Brian Warner (a.k.a. Marilyn Manson), le crisi depressive di Trent, eccetera. Insomma, iniziavo a temere il peggio. Poi, qualche giorno fa, ho digitato l’indirizzo. Incredibile. Tutto si muove, e molto meglio di prima.
Un layout bianco, font (fatto a mano) tipo macchina da scrivere scassata. Parole, immagini. Il tutto, come sempre, di una raffinatezza sublime.
Ma non è solo questo. Andate a vedere qua cosa succede. I fan dei NIN pongono a Trent delle domande assolutamente non banali e non solo sul nuovo disco, ma su questioni complesse e originali. Qualcuno addirittura gli dice (a modo suo) di prendersela con calma, che non c’è fretta per fare uscire questo nuovo Bleedthrough (con o senza la lineetta), consiglio che pare sia stato preso alla lettera, visto che l’ultimo disco in studio risale al 1999. Trent parla a ruota libera della sua musica, degli strumenti che usa, risolve problemi matematici, e scherza pure con un finto Billy Bob Thornton. E non manca una lettera della “mamma”.
La sezione dei link è curatissima. Oltre ai classici rimandi a siti musicali, di “vintage synth”, e a webzine varie, c’è una parte molto più politica. Anche i fan si sono chiesti come mai questa presa di posizione esplicita. Trent risponde, dicendo che in questo momento l’apatia politica è un lusso che non ci si può permettere.
Sento qualcosa di nuovo nell’aria, oltre ad avere la conferma che Trent Reznor rimane una delle menti più fini nel panorama musicale contemporaneo.

BowieSpots

Siccome non ha molto senso che io vi faccia una recensione del concerto: sicuramente c’è qualcuno che la farà – o l’ha già fatta – meglio di me. Lascio solo delle piccole macchie, cose che ho visto, sentito, intuito, prima, durante e dopo uno dei concerti più emozionanti che ho visto nella mia vita.

In fila, un po’ sotto la pioggia un po’ no. Dei ragazzi alla mia sinistra discutono se si dica “boui” o “baui”. Al che uno inizia a cantare la canzoncina della “bauli” usando il nome storpiato di Bowie. Due donne di fianco a me parlano del concerto. Una dice: “No, perché io, lo ammetto, ho solo il The Best of, però, beh, lui è un personaggio…”.

Dentro il Filaforum. Dopo cinque minuti vedo sorella e madre della mia ex-ragazza. Ricordo di avere frequentato un corso per corrispondenza di intelligenza e intuisco che ci dev’essere anche lei. Prima di farmi prendere dal malessere che mi sale quando penso a quell’essere, mi ricordo di avere frequentato un corso di corrispondenza per agente segreto e mi mimetizzo da pavimento-del-Filaforum. E passo inosservato.

Concerto dei Dandy Warhols. Diciamolo. Mi preoccupava il fatto che, oltre a “Bohemian Like You”, non ho mai sentito niente della band. Ma così sembrava anche per la maggior parte delle persone venute là. E anche per i Dandy Warhols stessi, che però sono simpatici, suonano bene e se ne fottono allegramente. Quando attacca il riff di “Bohemian Like You” il pubblico impazzisce, loro sorridono nervosetti e siamo tutti felici e contenti.

Pausa pipì. Vado in bagno prima che inizi il set di Bowie. Fila enorme. Quando, finalmente, entro nei bagni, c’è un quarantenne, ma forse anche qualcosa in più, che piscia nel lavandino. Sente che la gente lo sta guardando ed esclama: “Ma sì, dai, ché in fondo io sono sempre stato un po’ punk”. Lo guardiamo con aria commiserevolincazzata. Se ne va fischiettando “Anarchy in the WC”.

Veneriamo le icone. Si spengono le luci e inizia ad essere proiettato il video introduttivo del Reality Tour. Un cartone animato della band di Bowie che suona. Quando compare il Bowie-cartone la gente si alza in un boato. Non credo ci sia da aggiungere altro.

Bowie, finalmente. A Lucca due anni fa aveva iniziato con “Life on Mars”, stavolta inizia con “Rebel rebel”. Mi viene da piangere.

Tradimenti. Accanto a me una coppia, lei un po’ freddina, lui l’abbraccia, lei ricambia poco, lui la solleva per farle vedere meglio il palco e la coccola, lei tenta di resistere alle coccole di lui. Ad un certo punto la vedo armeggiare al cellulare. Sentite, lo ammetto, ho guardato il messaggio che le era arrivato. “Mi manchi, ho voglia di sentirti, mi chiami dopo?”. La sua risposta? “OK”. Mi è venuto un magone allucinante.

The Show Must Go On. “Under Pressure” non mi è mai piaciuta tanto come canzone. Ma la melodia che era cantata da Mercury viene cantata dalla bravissima bassista di Bowie, Gail Ann Dorsey (grazie Z., sai com’è, quando uno posta a tarda ora si dimentica delle cose…) (un plauso a tutta la band: sono eccellenti). Alla fine della canzone il pubblico è tutto per lei.

Love, love, love. Amore, amore, amore. Bowie parla di amore, prima quando dice che il suo batterista si è fidanzato in Italia (non con un’italiana): ah il paese dell’ammmoure. Mi sa che mi hanno adottato. Oppure vivo in un’enclave. Boh. Poi dice, prima di suonare “5:15 the Angels Have Gone” che è la storia di uno che ha perso la speranza e la fiducia nell’amore. Qualcuno in prima fila dice anche io. Bowie sorride e dice “Really? Shit”. E gli dedica la canzone.

“Scusate, ho qualche problema alla gola”. Dice proprio così, il duca. Ma aggiunge che è talmente contento della serata (e continua a ringraziare il pubblico in italiano, a scusarsi di sapere solo poche parole in italiano, ad inchinarsi ad ogni pezzo) che vuole lo stesso fare una canzone. Una versione di “Loving the Alien” solo voce e chitarra. Alla fine si sente il brivido del pubblico. Quest’uomo non ha cinquantasei anni. No. Impossibile.

L’altra faccia della medaglia. Dopo avere infiammato la platea con la solita versione rullo compressore di “I’m Afraid of Americans” (la adoro, quella canzone, si sente lo zampino del mio adorato Trent, altro che), dice che ogni medaglia ha due facce, e parte “Heroes”. Che da quando l’ha dedicata ai pompieri, poliziotti e altro dell’11 settembre la canzone sia ormai da intendersi in un solo modo? Mah.

B – O – W – I – E. Dopo due ore di concerto, in cui ho urlato e mi sono emozionato, ho cantato e ballato come un ossesso, in cui i pezzi da “Heathen” sono stati due o tre, e altrettanti quelli da “Reality”, ’ultima canzone non può che essere “Ziggy Stardust”. Quasi non si sente. Il pubblico tutto la canta per intero. Alla fine del pezzo una scritta enorme compare sullo schermo. “BOWIE”. Non c’è da aggiungere altro. A parte il fatto che si pronuncia “boui”.

“Monologo interiore”. Metropolitana dopo il concerto. I vagoni sono riempiti praticamente solo da gente che è stata al Filaforum. Noto una signora di una certa età che parla da sola. Si fa proprio dei discorsi. Ma senza emettere alcun suono. Forse era al concerto e se lo sta ricanticchiando. Forse.

P.S. Per chi fosse interessato, questa è stata la scaletta.

1 Rebel Rebel
2 New Killer Star
3 Fame
4 Cactus
5 China Girl
6 Fall Dog
7 Hallo Spaceboy
8 Sunday
9 Under Pressure
10 Ashes to Ashes
11 Fashion
12 NGO
13 The Motel
14 5:15
15 Loving the Alien (Acustica)
16 I’m afraid of Americans
17 Heroes
18 Heathen (The Rays)

Encore:
19 Slip Away
20 Changes
21 Let’s Dance
22 Hang on to yourself
23 Ziggy Stardust

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