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Dagli archivi: tre documentari su Kurt Cobain

A settembre sono vent’anni che è uscito Nevermind, una pietra miliare, musicalmente parlando, ma anche probabilmente l’inizio della fine per Kurt Cobain, che meno di tre anni dopo morirà. Di materiale documentari sui Nirvana e Cobain ce ne sono tantissimi: scegliamo qui tre titoli diversi per approccio e stile. Eccoli in ordine cronologico.

Il regista e giornalista inglese Nick Broomfield ha diretto nel 1998 Kurt and Courtney. Stimolato dai misteri legati alla fine del leader dei Nirvana, Broomfield va per conto della BBC negli Stati Uniti occidentali, tra California e Washington, per capire che è successo davvero. Vorrebbe, ovviamente, intervistare Courtney Love, che per un periodo diventò una sorta di “Yoko Ono” perversa e distruttiva. Tutti la descrivono, nel documentario, come una persona orrenda: o meglio, Broomfield non ci mostra nessuno che la difenda, neanche il padre della musicista. La “sottotrama” del film è legata alle difficoltà finanziarie della produzione, che vanno di pari passo con la pressione che l’entourage della moglie di Cobain esercita sulla creazione del documentario. Broomfield intervista una serie di personaggi grotteschi, da Dylan Carlson degli Earth all’ultima babysitter che si è presa cura della figlioletta della coppia prima di quel tragico giorno dell’aprile del 1994. La parata di strani figuri fa pensare una cosa certa allo spettatore: qualcosa di strano sotto l’apparente suicidio di Cobain c’è. Broomfield ci lascia quindi con alcuni momenti struggenti, legati ai ricordi e ai cimeli della zia di Kurt, con qualche dubbio e con nessuna prova, se non quelle terribili coincidenze che hanno portato molte persone a fare delle congetture sulla scomparsa di Cobain. Si respira il clima cospiratorio di quegli anni, che però oggi pare lontano.

Nel 2004, invece, nel decennale della morte, esce il cofanetto With the Lights Out: in tre cd e un dvd si mette in luce il lato inedito della musica dei Nirvana. Cobain, ovviamente, domina la scena, ma è la musica che sta al centro del progetto. Il dvd, in particolare, è realmente emozionante: comprende video amatoriali e non girati tra il 1988 e il 2003. In quindici anni Cobain, nonostante tutto, è sorprendentemente costante. Certo, nelle prime prove filmate a casa della madre del bassista Novoselic, il ventunenne biondo è timido al punto tale da suonare e cantare rivolto al muro, spalle alla camera. In fondo Kurt è ancora in un momento di incertezza e crisi che dura da quando, a otto anni, i suoi hanno divorziato: da quel momento la sua vita è andata a rotoli sempre, dal punto di vista emotivo. Sempre nel dvd ci sono altri momenti eccezionali: uno su tutti è la prima esecuzione dal vivo di “Smells Like Teen Spirit”, una canzone che come poche altre segna gli anni ’90 e quelli a venire. Il live è dell’aprile del 1991, cinque mesi prima dell’uscita di Nevermind e della consacrazione planetaria della band.

Infine, Kurt Cobain: about a son. Diretto da A.J. Schnack nel 2006, è un documentario bellissimo. Oltre un’ora e mezza fatta solo di volti di abitanti delle zone di Aberdeen e Olympia, foto di concerti dell’epoca (soprattutto di altre band), paesaggi squallidi o incantevoli, traffico e periferie, diner e officine meccaniche. Tutto è commentato dalla voce di Cobain, tratta dalle registrazioni di numerose telefonate fatte dal giornalista Michael Azerrad per il libro Come as you are, tuttora considerato uno dei più belli in assoluto sui Nirvana. Le parole di Cobain, talvolta pronunciate con voce un po’ assente, o con la bocca piena, si intrecciano meravigliosamente con una colonna sonora più che notevole, formata dalle canzoni e dalle band che Kurt amava di più. Dai Vaselines ai Melvins, dagli Young Marble Giants ai Mudhoney. “Songs from the era”, si direbbe: una scelta azzeccatissima per un documentario che, non a caso è intitolato quasi come una canzone dei Nirvana. Schnack si sofferma molto sull’infanzia, vero snodo cruciale dello sviluppo emotivo di chiunque, Cobain compreso. Proprio lui continua a dirlo, nel corso del film: sono uno qualunque. Ma non si tratta di modestia. Sembra più una richiesta d’aiuto, di considerazione. Non pone tesi, About a son: racconta la storia di un personaggio, iconico suo malgrado, in maniera affascinante e originale, quasi astratta, abbracciando le contraddizioni di un grande artista così come la sua musica. Un ritratto commovente, consigliato a chi volesse tentare di conoscere, forse senza poterlo capire fino in fondo, Kurt Cobain.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel maggio 2011

La prima volta di "Smells Like Teen Spirit"

Devo avere sentito la canzone cardine degli anni ’90, per la prima volta, intorno alla fine del 1992: i dischi arrivavano lentamente in provincia, come tartarughe spiaggiate. Ma, oltre ai Nirvana e al loro entourage, altri esseri umani la sentirono per la prima volta nell’aprile del 1991, il 17 per la precisione, in un concerto all’OK Theatre di Seattle, mesi prima dell’uscita di Nevermind. Se i miei ricordi rispetto al primo incontro con “Smells Like Teen Spirit” sono confusi, non penso possano esserli quelli degli spettatori che si vedono nel video qua sotto.
Sì, lo so che era meglio scrivere questo post il 17 di aprile, ma fate che sia lo stesso, eh.

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Record Store Day, ovvero: un'altra scusa per parlare di musica e ricordi

Sabato si celebra (soprattutto nei Paesi anglosassoni, a dire il vero) il Record Store Day: una ricorrenza probabilmente necessaria, visto che oggidì è assai bassa la percentuale di musica che ascoltiamo nelle nostre case che arrivi effettivamente da un negozio di dischi.
Gli amici di Vitaminic mi hanno chiesto di scrivere un post su questa peculiare giornata, e io non ho potuto fare a meno di pensare al Music Shop di Gorizia, la mia città natale.

Negli anni ’90, quando montò in me e nei miei amichetti, la passione per la musica suonata, sentita, illustrata, c’erano diversi negozi di dischi a Gorizia: ma sentivamo che il gestore del Music Shop era il solo che ne capisse effettivamente di musica. Era un tipo allampanato e gentile, alto e magro, con gli occhi azzurri ma perennemente arrossati e la barba sempre incolta. Oggi, col famoso senno di poi, avrei almeno una decina di ipotesi per passare una serata affinché questo aspetto governi la faccia di chiunque per il giorno successivo, ma allora le caratteristiche fisiche del gestore erano tutt’uno con quelle del suo negozio: la disposizione dei dischi negli espositori, l’odore dell’aria, il tintinnio del campanello che segnalava l’entrata o l’uscita di un cliente.
Di certo il gestore del Music Shop aveva dei suoi gusti precisi, che lo portavano a disapprovare in silenzio molte delle cose che compravo: d’altro canto ero un ragazzino dai gusti (allora come oggi) molto eclettici, che un giorno comprava la cassetta di Icon dei Paradise Lost e qualche giorno dopo cercava A love supreme di Coltrane in cd.
Ma ci sono due dischi legati in maniera indissolubile a quel negozio: due dischi usciti entrambi nell’annus mirabilis 1994, tra i miei 15 e 16 anni. Il primo è Live through this delle Hole, il secondo Unplugged in New York dei Nirvana. Comprai il secondo disco delle Hole e fu una delusione, non tanto per la qualità dei brani, ma per il rapporto quantità/prezzo: trentasettemila lire per trentotto minuti di musica. Ci rimasi malissimo e la delusione bruciò a tal punto che, ancora oggi, quando lo sento non riesco a non immaginare un contatore con la faccia della Montessori che cambia, rimanendo identica a se stessa, una volta ogni sessanta secondi e rotti.
Il secondo, invece, fu lungamente atteso: passavo e ripassavo per vedere se era arrivato (ma vi immaginate una cosa del genere oggi?), finché una volta entrai nel negozio e il gestore lo tirò fuori da una scatola. Il testamento di Kurt Cobain, morto qualche mese prima, era nelle mie mani. Lo portai a casa, lo scartai e venni invaso dall’odore di carta del libretto, ruvido, composto da foto e illustrazioni con i colori saturi, che stridevano con la tristezza del disco.
Lo annuso sempre, quel cd e, credetemi, l’odore di carta c’è ancora, solo un po’ affievolito dagli anni.
E c’è ancora il Music Shop, a Gorizia, e mi hanno detto sia gestito dalla stessa persona, ma non ci sono più tornato da quando, nel 1996, ho lasciato la mia città natale. L’ultima volta che sono stato a Gorizia era chiuso, ma ho evitato di sbirciare l’interno del negozio, per non sapere. Alla prossima occasione farò tintinnare il campanello, varcherò la soglia del Music Shop  e mi proietterò di nuovo nel 1994. Mi piace immaginare che tutto sia rimasto identico, a parte, forse, il mio sguardo un po’ più consapevole che incontrerà quello (ancora arrossato, ci potrei giurare) del gestore, prima di iniziare a parlare, con una scusa qualsiasi, di musica.

Apparizioni (e sparizioni): il ritorno degli Slint

Brian McMahan

Ci sono degli accadimenti che, appena vengono annunciati, diventano “eventiimperdibili”. Ovviamente il concerto al T.P.O. degli Slint è uno di questi. Prima per molti motivi concordavo con lei, soprattutto perché, intorno a me, si pompava la cosa come non mai, e quando le cose si pompano come non mai, divento automaticamente sospettoso. E quindi, il sapere che il tour europeo degli Slint, dopo l’annullamento della data di Barcellona, prevedeva Bologna come unica data del sud Europa; sapere che avevano chiesto un bel po’ di soldi, e quindi il biglietto non sarebbe stato a prezzi popolari; sentire persone che dicevano “è meglio essere lì verso le nove”, quando mai al T.P.O. ci sono andato prima delle dieci; sentire dagli organizzatori che c’erano oltre ottocento prenotazioni, anzi, sentire che c’erano delle prenotazioni per un concerto al T.P.O… Insomma, mi stava passando la voglia di andarci.
Ma mi sono trovato dentro, con un bel po’ di euro in meno, un timbro verde sulla mano destra, e l’idea comunque di vedere qualcosa di bello, ma in maniera disagevole. E invece…

E invece, grazie a C., e soprattutto ai suoi amici fonici, mi sono visto tutto il concerto seduto praticamente sul palco, ad un paio di metri dagli Slint. Ma andiamo con ordine.
Ad aprire, i Radian, un gruppo che basta sentirlo per un paio di minuti per capire che sono germanici (austriaci, in questo caso), nel migliore senso del termine. Non li conoscevo, ma mi hanno affascinato. Vicino a me e a C., seduto fumante e bevente birra di continuo, un non ben identificato ciccione. Abbastanza brutto, ma mansueto: comunque un po’ inquietante.
Finalmente salgono sul palco gli Slint. Già, il palco. Dopo il concerto dei Radian, il palco viene preparato dall’entourage degli Slint, in questo modo. Ogni amplificatore viene segnato con un nastro rosa fosforescente, ogni sporgenza, idem. Non solo: viene anche segnato con delle frecce rosa il percorso che va dal “backstage” al palco, andata e ritorno (da notare che il percorso è lo stesso). Guardo e non capisco. Comunque.
Il concerto degli Slint è potente, e mi rendo conto che il ciccione birra-e-sigarette è il bassista del gruppo. Già, infatti, chi li conosceva gli Slint? Io ammetto la mia ignoranza musicale, ma Spiderland l’ho sentito per la prima volta un paio di anni fa, come molti di voi che state leggendo, credo (e se non l’avete, compratelo, veramente: se non vi piace vi restituisco i soldi di tasca mia). Immediatamente, anche senza etichette preventive (tipo “ha dato il via al post-rock”), ci si rende conto che è un capolavoro, esattamente come mi bastano le poche note iniziali del primo pezzo per capire che questi Slint vengono da qualche altra parte e da qualche altro tempo. Credo siano uno di quei gruppi che, anche se venissero ibernati e poi scongelati tra vent’anni, per un’altra reunion, lascerebbero comunque tutti a bocca aperta. Mi godo il concerto da seduto, e ogni tanto i fonici portano pure da bere a me e a C. Noti volti della scena musicale bolognese mi guardano, dalla platea e da bordo palco, con un’espressione che pare dire: “Cazzo è quello? Che ci fa lì lui?” Io me ne sbatto e mi beo di David Pajo ad un paio di metri da me.
Brian McMahan è messo in modo tale da essere rivolto proprio verso di me, quando canta. Mi sento come se fossi nella loro sala prove, in certi momenti del concerto, ed è una sensazione incredibile. Perché sembra proprio di vederli, questi quattro ragazzini, mentre pensano e provano quattordici anni fa la manciata di pezzi dei loro due album. Silenziosi e perfetti, così diversi dal gruppo che veramente esplose nell’anno in cui uscì Spiderland, i Nirvana.
Non riesco a seguire i diversi pezzi, mi sembra che sia un’unica canzone (e qui sta la grande differenza della mia percezione della serata rispetto al resto del pubblico: è stato un concerto continuamente interrotto, tra un pezzo e l’altro, da almeno cinque minuti di pausa), come un respiro.
E i respiri possono finire di colpo, senza alcun avviso. Gli Slint, dopo l’ultima nota, sono usciti senza dire una parola, niente di niente, ma proprio niente.
Immagino siano tornati nel luogo e nel tempo da dove sono venuti, seguendo delle frecce colorate.

The sun was setting by the time we left. We walked across
the deserted lot, alone. We were tired, but we managed to smile.

Però non hanno neanche sorriso.

Slint, live at TPO, Bologna, Italy – Photoset

Bring your friends

Ci vuole tanto tempo per ascoltare i tre cd e per vedere il dvd del cofanetto With the Lights Out. Ogni canzone è difficile da sentire, il suono è spesso sporco e lontano anche dalla raffinata produzione di Nevermind, e da digerire. È istintivo cercare di intravedere nei video il viso di Cobain, ma non è facile. Sembra sempre nascosto, e spesso lo è. Come ha scritto Bertoncelli sul numero di dicembre di Linus, ascoltando i dischi si prova un senso di disagio. Sì, perché per quanto ne sapessimo delle difficoltà private di Cobain, sfociate nel gesto più intimo e privatamente doloroso che si possa immaginare, si sapeva poco della sua musica, del suo modo di sentirla. Non basta avere sentito e letto le sue dichiarazioni di amore e di riconoscenza nei confronti di Melvins, Beatles, Dinosaur Jr e Sonic Youth, tanto per fare quattro nomi. Quando si sente Kurt suonare a casa sua, provare le canzoni, quando lo si vede suonare ventenne a casa di Krist Novoselic sempre rivolto contro il muro, come se volesse sfondarlo con la voce, ecco che penetriamo con violenza una sfera che Cobain stesso ha sempre voluto mantenere privata, a prezzo della vita. E si sente un disagio e un dolore diverso da quello che ci ha colpiti dieci anni e mezzo fa.

Non intendo fare il fighetto. Non sapevo cosa fosse Bleach, prima dell’uscita di Nevermind. La maggior parte di noi ha sentito l’immediatezza di “Smells like teen spirit”, e si è accodata ai suoi accordi iniziali, sentendoli veramente come propri, o solo usandoli per prendere il ritmo e saltare verso altre persone ed altre camicie a quadri svolazzanti. Avevamo bisogno di Kurt Cobain, perché non avevamo nessuno, in quel momento. Dovevamo rifarci al passato, a qualcosa di lontano, che aveva il fascino della morte. E mi fa strano adesso vedere come si pongono di fronte a Cobain gli adolescenti con cui talvolta lavoro. Kurt è come Jim. Niente cognomi, niente gruppi. Solo nomi. Idoli. Qualcuno di appartenente ad un altro tempo, che è morto violentemente e con la coscienza di farlo. Qualcuno che, con Grohl e Novoselic, non dimentichiamolo, ha veramente segnato un’epoca, in sette anni. Sette anni, la gente si stupisce, si meravigliano anche i recensori. “Soli sette anni”, dicono. I Beatles hanno avuto una carriera di otto anni in un periodo in cui i percorsi musicali potevano tranquillamente durare il doppio. I Nirvana hanno avuto un percorso di sette anni quando i percorsi musicali iniziavano ad essere di qualche decina di mesi. Adesso i tempi sono cambiati, due diciottenni su tre (secondo quanto scritto nelle note del disco) non sanno chi sono i Nirvana. Facciamo loro ascoltare qualche canzone, cercando di non sentirci vecchi. Anzi, alziamo il volume e facciamogli sentire “Smells like teen spirit”. Noi, almeno, quella canzone ce l’avevamo.

Viva la gente, la trovi ovunque vai

Martedì sono stato al cinema, obbligato a vedere per la trasmissione quella schifezza di Amore senza confini. Durante l’intervallo due signore, che chiamerò Iole e Gina (completamente a caso), intorno all’ottantina, chiacchierano sul film, arrivando alle seguenti conclusioni. Primo: per fortuna che ci sono i medici senza frontiere, ché loro (la Iole e la Gina) quelle cose non le farebbero mai. E ci credo. Secondo: la colpa è dei governi, che sfruttano il popolo. “Bisognerebbe dirglielo”. Mi vedo la Iole e la Gina ricevute, che ne so, da Pol Pot. O da Bokassa. Previa telefonata. Faccio esempi del passato, per evitare facili satire. Terzo: le mentine fanno bene alla bronchite. Bisogna portarle sempre nella borsetta, perché servono a frenare la tosse, molto fastidiosa a teatro. Quarto: alla fine il fascismo in Etiopia ha fatto del bene. La Iole ha qualche difficoltà a pronunciare la parola “tucul”, ma la Gina scandisce benissimo “negretti”.

Intermezzo.
Oggi ero in Sala Borsa, che, tra le altre cose, è anche una mediateca. Nel senso che ci sono CD, DVD, VHS e anche libri (ovviamente) in prestito. Scartabellavo con poca convinzione all’inizio della sezione “contemporanea straniera”, che comprende tutto, dai Kiss fino a Johnny Cash, passando per Ray Charles e la World Music, quando un ragazzo vicino a me mi dice:
“Oh, se ne vedi uno dei Nirvana…”. Per la serie: avvisami. Ma che siamo a fare la caccia al tesoro e siamo in squadra insieme?
“Guarda che i Nirvana sono sotto la N”, gli dico indicando una zona vaga alla mia destra. Lui mi guarda come se gli avessi raccontato una barzelletta in dialetto siriano. “Cosa?” “I Nirvana, dico, sono sotto la N”. Lui mi guarda come se non capisse dove c’è da ridere, nella barzelletta in dialetto siriano. “I CD sono in ordine alfabetico”, sussurro. “M?” fa lui, solo intuendo il raffinato gioco di parole della barzelletta. “N”, dico. “Nirvana. Là”. La zona indicata è sempre alla mia destra, ma il ragazzo, sconsolato, se ne va dall’altra parte verso la sezione “Umorismo dialettale siriano”.
Fine dell’intermezzo.

Stasera a Porta a Porta (è la seconda volta che lo vedo: ne parlo come se fosse un evento, perché lo è), c’è Berlusconi S. Quando parte la musica di Via col Vento (ma dico io, non potevano usare quella di un brutto film? Che ne so, la musica di Amore senza confini?), Silvio B. è inquadrato in controluce mentre legge fintissimo un opuscolo. Avete presente quando uno fa finta di leggere il giornale in modo tale da non dovere alzare lo sguardo per salutare qualcuno? Entra nello studio Vespa B., saluta quello seduto che, quindi, deve rispondere, e i due iniziano a duettare amabilmente. Bruno V. fa la parte di quello che deve mettere in difficoltà l’altro, che improvvisa un po’ troppo. Il pezzo inizia con la storia del lifting e Silvio V. dice che il presidente del consiglio deve apparire in forma, perché lavora dalle sette e mezzo del mattino fino alle due e mezzo di notte. La logica mi sfugge. Il richiamo a luci-mai-spente no. Poi parla di una dieta che ha fatto, per dire che il lifting, alla fine, non è stato poi decisivo. Bruno B. gli chiede che dieta abbia seguito, ma quella non si rivela, come il trucco (nel senso di gioco di prestigio, non di make-up: meglio precisare). A SBVB è bastato ridurre l’apporto calorico per qualche settimana in gennaio. Proprio come me. Con due differenze: intanto, non l’ho fatto proprio volontariamente. E poi, lo ammetto, io lavoro decisamente di meno.

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