Dagli archivi: Neil Young: Heart of Gold (Jonathan Demme, 2006)

Nel 2005, Jonathan Demme non sa bene cosa fare. Qual è la vostra prima azione quando non sapete cosa fare? Forse tirate fuori il Sudoku, guardate un video su YouTube, tentate di abbracciare una religione o leggete l’oroscopo di Paolo Fox. Jonathan Demme, quando non sa cosa fare, tira fuori il cellulare e chiama Neil Young.
“Che fai, Neil?”
“È un periodaccio.”
“Anche io: mi annoio.”
“Ah, be’, sì. Io invece ho scoperto di avere un aneurisma al cervello, vorrei scrivere un disco, ma ho solo mezza canzone.”
“Uhm, sì. È che io mi annoio, sai…”
“E mio padre è morto da poco.”
“Senti, ma se un giorno venissi là, con la troupe?”
“Vieni pure.”
Tutto vero. Be’, almeno i fatti citati sono documentati.
Dopo un po’, Neil Young entra in studio con una serie di amici, che potrebbero essere definiti “i migliori musicisti di Nashville e dintorni”: ma ha sempre mezza canzone. E ha un aneurisma al cervello. Il primo giorno la canzone è fatta e finita. Neil Young torna in albergo e scrive una seconda canzone. Il giorno dopo la porta in studio. La arrangiano e la registrano. Va avanti così per dieci giorni, e l’album (denso di riferimenti alla sua malattia e alla scomparsa del padre) è finito.
Neil Young va a New York, si opera, fa un po’ di convalescenza. Poi chiama tutti, Jonathan Demme, la troupe, i musicisti con cui ha inciso l’album (Praire Wind), sua moglie, Emmy Lou Harris, e decide di fare una prèmiere mondiale del disco nella cattedrale del country mondiale, il Ryman Auditorium di Nashville. Quell’esibizione è gran parte del contenuto di Neil Young: Heart of Gold, il secondo film-concerto di Jonathan Demme, dopo il celeberrimo Stop Making Sense del 1984, un monumento ai Talking Heads.
Innanzitutto c’è da notare lo splendido lavoro alla fotografia di Ellen Kuras, che si è trovata nella difficile e stimolante condizione di dover illuminare un concerto come se fosse un film, tenendo però ben presente lo spazio quasi mitologico che lo ospitava. Si crea, con il procedere della scaletta (nella prima parte del tutto fedele all’ordine delle canzoni del disco) un’atmosfera quasi da sogno: il pubblico si sente, ma non è quasi mai inquadrato.
Le riprese sono lunghe, fluide, totalmente opposte allo stile ipercinetico abituale nei live. Neil Young parla con il pubblico, introduce i brani, totalmente rilassato, nonostante i soli dieci giorni di prove per il concerto. E’ una meraviglia, e i suoi musicisti non sono da meno. Si arriva alla seconda parte del live, formata da classici di Young selezionati, però, esclusivamente tra le canzoni effettivamente registrate a Nashville. Come mai questa scelta? Facciamo un passo indietro.
“Neil, scusa, permetti una parola?”
“Prego, Jonathan, ho un sacco di tempo, figurati.”
“Ecco, ho cronometrato le prove… Praire Wind, dal vivo, dura un’oretta… È un po’ poco. Non è che faresti qualche pezzo in più?”
“Quanti?”
“Eh, devo arrivare a… Dunque… Una mezz’ora, una quarantina di minuti al massimo. Eh? Grazie Neil, mitico, ciao.”
Gli aneddoti aumentano, ma Young è sempre sobrio e preciso, nel raccontare le storie dietro le canzoni, quando decide di farlo. Talvolta sembra che parli con la voce di alcuni grandi narratori nordamericani, dalla scrittura pulita e struggente al tempo stesso. Non è un caso che Demme chiuda il concerto con il nostro ripreso da dietro, di tre quarti, mentre canta, accompagnato dalla sua fedele chitarra, “The Old Laughing Lady”. Un finale struggente, appunto, ma sobrio per un film, documentario, concerto inaspettatamente emozionante.
Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011
Continuiamo a invocare il nome di Pier Paolo Pasolini con la stessa disperazione con cui lo fa un Paese bisognoso di eroi, nell’accezione brechtiana del termine; e proprio sulla voce un po’ nasale e severa del poeta, scrittore e regista, unita a immagini di repertorio che raccontano l’Italia dal secondo dopoguerra, è costruito il bel documentario del 2006 di Matteo Cerami e Mario Sesti, edito da Feltrinelli in un cofanetto con un libro che contiene i testi del film e altri ancora.
Esperimento: pensate forte a Klaus Kinski. Che vi viene in mente? Probabilmente il profilo di un pazzo o, se ne sapete di cinema, ma soprattutto se vedete i film, avrete ricordato l’attore tedesco in Aguirre, furore di Dio, o in Fitzcarraldo, o ancora in Woyzeck, Nosferatu o Cobra Verde. Questi sono i cinque film che hanno riunito Klaus Kinski e Werner Herzog tra il 1972 e il 1987. Apparentemente l’unione casuale di un geniale e folle regista con un geniale e folle attore. Ma, come si scopre in Kinski, il mio nemico più caro (1999), forse le cose non stanno così.
Jimi Hendrix, si sa, è una delle icone del rock: sembra una frase fatta, ma la parola “icona” può avere come significato quello di immagine condivisa e immediatamente riconoscibile. Ecco quindi che ci vengono in mente le copertine dei dischi o gli scatti dei concerti più famosi del chitarrista, spesso tratte dalle esibizioni a Monterey, Woodstock e all’Isola di Wight.
A Pieve Santo Stefano, un paesino di meno di quattromila abitanti in provincia di Arezzo, esiste da una quindicina d’anni l’Archivio Diaristico Nazionale. Il nome spiega tutto: in questa sede, aperta alla consultazione pubblica, vengono conservati diari, memorie ed epistolari inviati dalla gente comune. Chiunque, come si diceva, può sfogliarli: ogni testo, infatti, è catalogato e archiviato con estrema precisione.
Il detto “Nemo propheta in patria” è spesso abusato, ma non è un caso che l’unico documentario su una delle nostre glorie cinematografiche nazionali, Mario Bava, sia di produzione statunitense. Furono infatti per primi statunitensi, francesi e inglesi ad apprezzare i film di Bava, il cui riconoscimento in Italia è cosa tutto sommato recente.
Barbara Kopple è del 1946, quindi ha più o meno venticinque anni quando decide che il suo secondo documentario, dopo il film collettivo Winter Soldier, avrà a che fare con i sindacati dei minatori americani: c’è una lotta interna nel mondo corporativo di una delle categorie di lavoratori più sfruttate e sottopagate in assoluto. Barbara Kopple ha circa 30 anni quando vince un Oscar per il migliore documentario. Quello che accade in questi cinque anni è Harlan County, USA.
Due documentari non bastano per tracciare anche solo i contorni di una personalità artistica complessa come quella di Stanley Kubrick: crediamo sia interessante, però, giustapporre un prodotto ben confezionato, classico nella forma e nell’esposizione come
Stanley Kubrick’s Boxes, del 2008, ha un elemento comune, oltre al soggetto del documentario, con il titolo appena esaminato: il titolo è veritiero. Infatti Jon Ronson, conduttore radiofonico, giornalista, documentarista e autore – fra gli altri – del libro da cui è stato tratto il film L’uomo che fissava le capre, parla di un migliaio di scatole stipate in diversi spazi della residenza dei Kubrick il cui contenuto, organizzato maniacalmente dallo stesso Stanley, è pressoché sconosciuto.
Che cosa avete fatto il 24 luglio 2010? Io quel sabato, credo, non ho fatto nulla di eclatante, come è probabile, statisticamente, che sia vero per la stragrande maggioranza della popolazione del globo.
Nel dicembre 2010 TomDicillo scrive sul suo blog: “Quando mi sono svegliato stamane ho scoperto che When You’re Strange ha ricevuto una candidatura ai Grammy. La categoria è video di lungo formato (dvd), il che va bene, sebbene sia stato concepito, prodotto e distribuito come film”.