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Dagli archivi: School of Language – Old Fears

School of Language – Old Fears (Memphis Industries), 7 aprile 2014

7,5

I fratelli Brewis sono bravi e prolifici: insieme sono i Field Music, quattro validi dischi in meno di dieci anni. Peter da solo si fa chiamare The Week That Was: un buon album self titled sei anni fa. School of Language, invece, è il nome da solista di David, che ora ci regala Old Fears, dopo l’esordio del 2008. Il musicista del Sunderland dà alle stampe, per sua stessa ammissione, un disco pop: l’album riesce a cogliere magicamente la paura sospesa tra infanzia e maturità che si prova da giovani, combinando la distanza partecipe dell’età adulta a uno sguardo empatico.

Le dieci tracce (davvero ben cesellate) da un lato si tingono di funk e dall’altro richiamano momenti eterei di qualche decade fa, ma senza eccessivi citazionismi. Costruito su linee di basso/synth, chitarra e batteria, con voce spesso in falsetto (ma non fastidiosa), Old Fears è il risultato, immaginiamo, di ore passate in studio a sperimentare: loop di voci (“Suits Better”), stacchi nervosi di chitarra ripresi da synth che giocano a fare i clavicembali (“A Smile Cracks”), armonie sospese (“Between the Suburbs” farebbe la gioia di St Vincent & David Byrne), perfino un sassofono sulla finale e distesa “You Kept Yourself”. Old Fears, come tutte le produzioni dei Brewis, è un disco interessante, che hai voglia di ascoltare e riascoltare. Di questi tempi una vera rarità.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Tuxedomoon @ DOM, la Cupola del Pilastro, Bologna – 2 aprile 2014

La band di San Francisco torna a Bologna trentaquattro anni dopo il primo storico live europeo: tre serate sold out per dei concerti da vedere, oltre che da ascoltare, che confermano l’eccellente peculiarità dei Tuxedomoon e rinsaldano il loro legame con la città.

Poco dopo l’inizio della prima delle tre date bolognesi, le uniche in Italia di questo tour, Blaine L. Reininger dice: “Prima di andare further devo dire che siamo tanto tanto felici di essere qui… where it all started”. Nel 1980 infatti la band teneva, proprio a Bologna, il suo primo concerto al di fuori degli Stati Uniti. L’Europa (e soprattutto l’Italia) accolse a braccia aperte questi musicisti che avevano come unico motto quello di fare ciò che gli altri non facevano. Trentaquattro anni dopo lo spirito innovatore e unico dei Tuxedomoon rimane inalterato, così come l’affetto riservato dal pubblico alla band.

Sul palco ci sono tastiere, clarinetto, sax, tromba, flicorno, armonica, violino, basso e chitarra elettrica, suonati alternativamente dai quattro musicisti originali (oltre a Reininger ci sono Steven Brown, Peter Principle e Luc Van Lieshout), ma non solo. Una parte importante dello spettacolo sono i video di Bruce Geduldig, membro del gruppo a tutti gli effetti che trova anche il tempo di declamare in italiano un po’ stentato le didascalie che appaiono sugli schermi. Siamo lontani da un live nostalgico, la band guarda avanti: non è un caso che il pezzo di apertura sia “Dorian”, uno dei brani della sonorizzazione creata recentemente per il cult movie Pink Narcissus, di cui verranno proiettate alcune parti.

Ma il filo conduttore visivo è dato da una creatura bizzarra, fatta interamente di nastro magnetico che, nel corso del live, vedremo da un medico (Principle) che gli diagnostica una “bruttissima ossidazione”, poi perso nei suoi ricordi, alle prese con una bambola, e infine “strafatto” da una sorta di chemio casalinga. Lo spirito ironico, caustico e surreale dell’immaginario della band rimbalza tra il palco, dove i quattro suonano benissimo, dedicandosi alle composizioni più recenti e ripescando poco dagli esordi, e gli schermi, su cui ci sono immagini tratte da filmini amatoriali o video girati ad hoc nella lunga carriera multimediale della band. Un concerto di un’ora e quaranta emozionante e unico nel suo genere che fa capire come mai, alla domanda “Perché vi siete riuniti?”, l’ovvia risposta dei Tuxedomoon sia “Perché nessuno fa quello che facciamo noi”.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Arc Iris – ST

Arc Iris – Arc Iris (Anti-), 1 aprile 2014

8

Nel curriculum di Jocie Adams spicca, quasi più della militanza nei Low Anthem, un periodo passato alla NASA come ricercatrice: è il lato inaspettato, bizzarro, ma allo stesso tempo “serio” nella biografia di un’ottima musicista. C’è una sorta di corrispettivo di tutto ciò nel debutto solista a nome Arc Iris: si stende sulle undici tracce del disco, portando l’ascoltatore per mano in un viaggio in cui c’è una vera sorpresa ad ogni passo. Jocie mischia rock, jazz, folk, country, ma evita pasticci, barocchismi e virtuosismi, non forza la mano pur non disdegnando arrangiamenti complessi (basati principalmente su archi, fiati, armonie vocali e pianoforte) e richiami colti (uno su tutti, la musica da cabaret). Traccia la strada mentre la percorre e il paesaggio coloratissimo che si snoda canzone dopo canzone davanti ai nostri occhi muta di continuo, rivelando scorci inaspettati che fanno sobbalzare il cuore.

Arc Iris si muove avanti e indietro nel tempo e non ha paura di fare seguire l’ambiziosa “suite” in due parti “Honor of the Rainbows” da “Powder Train”, una canzone sulla cocaina (sic) che sembra provenire da un’altra epoca. Ma non c’è passatismo nell’album, né fastidiose strizzatine d’occhio: Jocie Adams, se ci dà di gomito, è per farci salire su una giostra. Un consiglio? Lasciatevi andare, il divertimento è assicurato.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: PAUS – Clar​ã​o

Paus – Clarão (El Segell del Primavera), 31 marzo 2014
7,5

Il secondo disco dei portoghesi Paus nasce sotto l’egida del prestigioso Primavera Sound, che ha ospitato per due edizioni di seguito i musicisti di Lisbona e che fa uscire questo album sotto la sua etichetta. Il quartetto ha una peculiarità: ci sono due batteristi che suonano lo stesso set (“siamese”, con la cassa in comune) uno di fronte all’altro. Clarão, però, non è un disco di puri ritmi, sebbene i battiti siano al centro delle dieci tracce che lo compongono. E non è neanche un album strumentale, per quanto le voci siano filtrate, spezzettate, usate come suoni in mezzo a chitarre, bassi e synth.

I Paus fanno rock come se fosse musica elettronica e viceversa: le canzoni, dalla struttura liquida e mutevole, sono rutilanti e rumorose, con cambi di tempo e ricchi fill-in. Sebbene ricordino band come Battles, Blk Jks, Tortoise e Fuck Buttons, i portoghesi ci mettono decisamente del loro, inserendo nel disco ritmiche poco occidentali: tuttavia i Paus non si abbandonano del tutto a tropicalismi o derive afrobeat. Nelle menti e nelle braccia dei componenti della band sono ben presenti i volumi e l’attitudine punk-hardcore, terreno comune dei musicisti. Il risultato è un ibrido molto interessante che sospettiamo sia ancora più efficace dal vivo: questa prima pubblicazione in Italia anticipa un imminente tour nel nostro Paese. Non perderemo i loro concerti.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di gennaio 2015 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Kisses from Mars – Not Yet

Kisses from Mars – Not Yet (New Model Label), 25 marzo 2014
7

Dopo due ep e un album (Birth of A New Childhood, del 2012) i ravennati Kisses from Mars si confermano con Not Yet una realtà coraggiosa e ambiziosa, per quanto immaginiamo (da ciò che abbiamo visto in rete) che la band dal vivo abbia un valore aggiunto notevole, grazie ai visual di Silvia Bigi e le coreografie e installazioni di Chiara Gamberini. L’album, con i dieci minuti dell’apertura “Dissolves”, mette subito le cose in chiaro: la voce di Massimiliano Gardini entra solo poco prima di metà pezzo, le chitarre e i synth di Luca Baldini rimandano allo shoegaze, ma non hanno paura di tornare all’inquietudine che scorreva sottile e costante nel post-rock di un paio di decenni fa.

Richiedono tempo, i Kisses from Mars, e un ascoltatore attento, concentrato e disponibile affinché i sei lunghi brani del disco gli si stratifichino lentamente intorno, stringendolo in una morsa di tensione e malinconia. Le dinamiche non si accontentano di crescere e esplodere: spesso c’è un su e giù continuo e pericoloso, perché se l’album si aggancia all’ascoltatore (e le possibilità ci sono, eccome) è fatta, altrimenti si rischia di arrivare ai quindici minuti della title-track che chiude il disco un po’ annoiati, più che tesi. Insomma, un lavoro per pochi (ma buoni), che necessita impegno nel riceverlo, tanto quanto è stato messo nell’idearlo.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di settembre 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: MiceCars – A S I M O / I

MiceCars – A S I M O / I (Black Lodge), 24 febbraio 2014

7

Dieci anni fa un ep, quindi l’album I’m the Creature, premio Fuori dal Mucchio per il migliore esordio. Poi nulla fino allo scorso giugno, quando è comparsa “Volunteer”, ora posta a chiusura di A S I M O / I, l’atteso ritorno dei MiceCars. “You should not play with my heart tonight / And praise our love with another lie”, dice la canzone: le parole e il cantato in falsetto rimandano al 2004, ma Little P. e Peter T. (che suonano insieme ad Andrea Mancin, Oliviero Farneti, Pasquale Citera e Marco Caizzi) sono ancora più disillusi e amaramente ironici sin dall’apertura “Mutual Destruction Assistance”, che riporta alla sfera intima e relazionale l’annientamento reciproco paventato nell’era nucleare richiamato dal titolo.

Nell’album, prodotto dal duo insieme a Andrea Sologni, si percepisce un senso di isolamento e abbandono nei confronti di se stessi e dell’umanità. Un concetto su cui i MiceCars sperimentano a modo loro, per fortuna: se alcuni finali sono prolissi e stride un po’ il rap di “In da Ghetto”, convincono gli arrangiamenti su “Interlude”, i richiami “mellotronici” alla “Mr Kite” beatlesiana in “Sloth” e quel senso di torpore psichedelico à la MGMT, mischiato con l’Albarn più agrodolce, di cui il disco è intriso. I MiceCars sono tornati più disincantati, consapevoli della vita e della loro musica; questa maturazione in A S I M O / I si sente tutta. Attendiamo quindi il secondo capitolo, sempre simbolicamente ispirato al robottino della Honda.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Depeche Mode, Unipol Arena, Casalecchio di Reno (Bologna), 22 febbraio 2014

La band torna nel nostro Paese dopo le due date estive del luglio 2013: ecco quello che è accaduto nella terza e ultima serata italiana dell’European Winter Leg del tour di Delta Machine, a Bologna. Può bastare un grande nome, un frontman iconico e dei pezzi immortali per rendere un live indimenticabile?

Foto da Flickr @sybell3

Tre schermi con visual spesso di ottima qualità, file e file di luci, piattaforme e proiezioni: è imponente la scenografia del palco montato all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno, appena fuori Bologna. Una delle venue indoor più capienti del Paese ospita i Depeche Mode per l’ultima data italiana del tour invernale di Delta Machine, dopo i concerti tenuti a Torino e Milano nei giorni immediatamente precedenti.

Il live è sold out, come il 99% delle date dei Depeche: più di undicimila persone sono pronte ad acclamare Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher, che salgono sul palco (insieme a Peter Gordeno e Christian Eigner) poco dopo le 21. L’inizio è dedicato all’ultimo album: “Welcome to My World” è una canzone che pare scritta anche come opener perfetto per il tour. Da quel momento in poi la scaletta (una ventina di tracce, uguali data dopo data in questa parte di tournée) è un mix calibratissimo di estratti dagli ultimi dischi e grandi classici, con una precisione matematica quasi prevedibile.

E forse la prevedibilità del set è uno dei punti dolenti del concerto bolognese della band: per quanto infatti i Depeche suonino bene (nonostante la pessima qualità del primo terzo di concerto) e concedano un paio di versioni alternative e remixate (“Halo” è notevole) non c’è un momento in cui si rimanga davvero sorpresi. Anche gli intermezzi acustici (“Slow” e “Blue Dress”) sono funzionali: lasciano il palco a Gore per fare riprendere fiato a Gahan, il vero protagonista della serata. Il frontman sfoggia anello con teschio e gilet nero d’ordinanza e, onore al merito, non si risparmia: suda copiosamente, struscia il pacco sull’asta del microfono, dirige il pubblico in cori infiniti su “Enjoy the Silence” e mostra tutto il repertorio da rockstar qual è.

Ma appunto è tutto come ci si aspetta, come se le quinte (nonostante la scenografia) fossero nascoste maldestramente e si percepisse il necessario lato “business” dello show a cui abbiamo assistito. I fan duri e puri dei Depeche non ce ne vogliano, ma ci aspettavamo qualcosa di più. O qualcosa di meno. Insomma, una sorpresa, che sia una, perché per quanto sia bello cantare insieme a migliaia di persone “Just Can’t Get Enough”, c’è un problema se si pensa che, a un certo punto, “enough is enough”.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di aprile 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Jimmy Villotti. Memorie di un musicista ambulante

Per me Jimmy Villotti era “Jimmy, ballando”, era il nome annunciato da Paolo Conte in Concerti, quando presenta la band, era un preciso suono di chitarra, era un nome che vedevo talvolta sui giornali e sui manifesti affissi in città, ma non era un volto, né una voce.

Fino a qualche mese fa, quando Massimo Sterpi (che conoscevo di nome e di vista per il lavoro fatto con l’Antoniano di Bologna) mi ha chiamato proponendomi di realizzare una lunga intervista con Jimmy, per raccontare la sua vita e il suo percorso artistico.

“Non sta bene di salute, purtroppo”, mi aveva anticipato Massimo, ma quando siamo andati a casa sua, se non fosse stato per le medicine sparse sul tavolo, non avrei detto che fosse malato. Stanco forse, anziano, senza dubbio, ma pieno di voglia di raccontare, di ricordare. “Se avessimo tenuto acceso un registratore”, ci siamo detti scherzando io e Massimo mentre uscivamo dal palazzo dove abitava Jimmy, “avremmo avuto già almeno una puntata”.

Era il 27 ottobre 2023: nel giro di due settimane abbiamo finito le registrazioni e, neanche un mese dopo l’ultimo “stop, buona”, Jimmy è morto. Credo che, tra tutte le persone che sono andate a salutarlo al funerale e lo conoscevano personalmente, io fossi quella che lo conosceva da meno tempo.

Mi sono reso conto, quindi, l’incredibile privilegio che ho avuto nel raccogliere, per l’ultima volta, la sua voce. Oltre a essere un privilegio raro, intervistare Jimmy Villotti è stata per me una delle esperienze professionali più intense che abbia mai vissuto.

Sin dal nostro primo incontro ho percepito quanto fosse non solo un artista di enorme levatura, ma anche una persona davvero speciale dal punto di vista umano. Nel podcast “Jimmy Villotti. Memorie di un musicista ambulante”, disponibile in versione audio e video, abbiamo cercato di fare emergere al meglio due dimensioni, quella personale e quella artistica di un uomo versatile, sensibile e intelligente come pochi altri nel panorama nazionale.

Oltre a ringraziare Massimo Sterpi e l’Antoniano, ringrazio anche Sergio Marzotti, che ha curato le riprese video, e Alessandro Renzetti, responsabile di produzione e postproduzione audio.

Dagli archivi: Bombino + Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat, Locomotiv Club, Bologna, 13 febbraio 2014

Una serata all’insegna di musiche ancestrali e desertiche, dei loro mescolamenti e delle loro naturali proiezioni, quella di giovedì 13 febbraio al Locomotiv Club di Bologna: due set del musicista tuareg, uno acustico e uno elettrico, e la nuova incarnazione di Above the Tree per oltre due ore di musica di buonissima qualità.

Bombino live

“È molto bello suonare in Italia”, dice Omara Moctar e forse il ringraziamento sentito del musicista va oltre il cliché, visto che il nome d’arte Bombino è la storpiatura del nostro “bambino”: Omara in effetti ha un viso giovanissimo, luminoso e felice, che pare non soffra il caldo del club che ospita una delle date italiane del tour invernale di Nomad, uscito l’anno scorso per la Nonesuch.

Prima dei musicisti tuareg, però, c’è spazio per un support act di tutto rispetto: Marco Bernacchia, cioè Above the Tree, presenta il nuovo album Cave_Man insieme a Enrico “Mao” Bocchini e Edoardo Grisogani. Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat affascina il pubblico mischiando con intelligenza percussioni “primitive”, suggestioni tribali, linee di elettronica e chitarra, risultando originale e personale, antico e modernissimo allo stesso tempo.

Non poteva esserci introduzione migliore ai set di Bombino: insieme ai suoi tre musicisti, Moctar sale sul palco per un raffinato live acustico che mostra subito la padronanza che il nostro ha del suo strumento. Una chitarra che, già nell’introduzione al secondo brano, scivola verso il blues: il concerto svela da subito il leit motiv della serata, banalissimo a parole, ma non nei fatti. E cioè che dobbiamo all’Africa la stragrande maggioranza della musica che ascoltiamo.

Se, infatti, il primo set è più tradizionale, quando gli strumenti (due chitarre, basso, batteria) vengono collegati agli amplificatori, veniamo trasportati in un vortice che si allontana e torna continuamente al Sahara, sporcandosi di reggae e garage e, talvolta, diventando quel misto di blues e rock che ha fatto andare in brodo di giuggiole Dan Auerbach, produttore di Nomad, da cui proviene una buona parte dei brani in scaletta. I pezzi, rispetto al disco, si allargano e viaggiano liberi, vanno da ritmi in battere a quelli in levare; la chitarra di Bombino chiacchiera, urla, sputa grappoli di note che vibrano tra la musica tradizionale tuareg e tutte le contaminazioni attuate e subite in secoli di storia e migrazioni.

Talvolta, forse, c’è troppa indulgenza in alcune code o passaggi, ma quando uno è bravissimo a suonare è facile perdonare che possa provare piacere e divertimento nell’ascoltarsi tanto quanto chi lo acclama sotto il palco.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di marzo 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Damo Suzuki: “Faccio la musica dell’oggi”

Il 18 gennaio 2008 Damo Suzuki si esibiva, con il suo progetto Damo Suzuki Network, al Locomotiv Club di Bologna. Quel pomeriggio ho avuto la possibilità di ospitarlo in Maps, la trasmissione musicale pomeridiana di Radio Città del Capo. In occasione della recente scomparsa del musicista, ho trascritto e tradotto l’intervista.

Ti conoscono tutti come il cantante dei Can, ma ormai sono passati 35 anni da quell’esperienza, quindi parliamo del presente, del Damo Suzuki Network. Di che si tratta?
Per lavoro viaggio in tanti Paesi del mondo e cerco volta per volta, nello spazio e nel tempo in cui sono, di creare qualcosa con i “sound carrier locali”. Sono musicisti, ma io li chiamo “sound carrier” [“portatori di suono”, ndr] perché “musicista” è una parola vecchia, perché negli ultimi venti-trent’anni tutto è cambiato nel panorama musicale e noise. Suono ovunque, incontro persone senza fare prove, faccio la musica dell’oggi. Funziona, non è mai noioso perché ogni giorno posso fare cose diverse e incontro persone dalle mentalità molto diverse tra loro. Insomma, il menù del giorno cambia sempre.

Si tratta di improvvisazioni?
Non proprio, non mi piace tanto quella parola. Sì, è una specie di improvvisazione, ma il termine è utilizzato soprattutto dai musicisti jazz, e nel jazz, anche quando si improvvisa, non si fa davvero musica sul momento. Perché comunque nel jazz ci sono strutture definite, i solisti… Ognuno di noi, invece, fa nello stesso momento cose diverse.

Cosa succede quando, suonando, accade qualcosa di talmente bello e particolare che ti va di ripeterlo?
Di solito non ripeto nulla perché ogni volta ho a che fare con musicisti diversi. E poi ripetere significa copiare se stessi: non è proprio cosa per me.

In quanti Paesi diversi sei stato con il tuo progetto e che musicisti hai incontrato?
Non tanti, forse 27 Paesi diversi, e ho suonato con musicisti di ogni tipo: free jazz, hip hop, bande di ottoni…

Com’è stato suonare con gli Zu?
Gli Zu hanno un’energia incredibile ed è la cosa che davvero mi piace di loro. Anche nei miei concerti c’è molta energia, la condivido con il pubblico e me ne torno a casa con una bella sensazione.

Ci sono artisti o dischi interessanti che hai ascoltato di recente?
È una domanda difficile, perché per me ogni sound carrier che suona con me è interessante.

I sound carrier sono molto orgogliosi di suonare con te…
E io lo sono di suonare con loro, perché è davvero speciale. Prima di cominciare a suonare non ci conosciamo di persona e poi comunichiamo con la musica, è molto bello. Per comunicare non mi serve imparare l’italiano, una lingua per molto difficile: con la musica comunico ovunque. Ed è anche un motivo per cui porto avanti questo progetto: voglio usare la musica come arma contro ogni tipo di violenza. In questo mondo c’è molta violenza perché le persone non comunicano tra loro e la musica permette di farlo anche meglio [che con le parole].

Ci hai parlato della diversità dei Paesi che visiti e dei musicisti con cui suoni, ma che mi dici del pubblico?
Ti faccio un esempio: lo scorso aprile [2007, ndr] ho suonato a Londra con un quartetto d’archi, con musicisti classici, in un posto dove almeno l’80 per cento del pubblico era composto da appassionati di classica. Per me è stata un’esperienza interessantissima e la reazione del pubblico è stata magnifica: c’è stata una standing ovation e abbiamo fatto due parti, la prima da due pezzi, per un totale di 45 minuti e la seconda con un pezzo solo da 77 minuti.

Intervista andata in onda originariamente in diretta su Radio Città del Capo di Bologna il 18 gennaio 2008

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