Act Naturally

Dagli archivi: tre documentari su Kurt Cobain

A settembre sono vent’anni che è uscito Nevermind, una pietra miliare, musicalmente parlando, ma anche probabilmente l’inizio della fine per Kurt Cobain, che meno di tre anni dopo morirà. Di materiale documentari sui Nirvana e Cobain ce ne sono tantissimi: scegliamo qui tre titoli diversi per approccio e stile. Eccoli in ordine cronologico.

Il regista e giornalista inglese Nick Broomfield ha diretto nel 1998 Kurt and Courtney. Stimolato dai misteri legati alla fine del leader dei Nirvana, Broomfield va per conto della BBC negli Stati Uniti occidentali, tra California e Washington, per capire che è successo davvero. Vorrebbe, ovviamente, intervistare Courtney Love, che per un periodo diventò una sorta di “Yoko Ono” perversa e distruttiva. Tutti la descrivono, nel documentario, come una persona orrenda: o meglio, Broomfield non ci mostra nessuno che la difenda, neanche il padre della musicista. La “sottotrama” del film è legata alle difficoltà finanziarie della produzione, che vanno di pari passo con la pressione che l’entourage della moglie di Cobain esercita sulla creazione del documentario. Broomfield intervista una serie di personaggi grotteschi, da Dylan Carlson degli Earth all’ultima babysitter che si è presa cura della figlioletta della coppia prima di quel tragico giorno dell’aprile del 1994. La parata di strani figuri fa pensare una cosa certa allo spettatore: qualcosa di strano sotto l’apparente suicidio di Cobain c’è. Broomfield ci lascia quindi con alcuni momenti struggenti, legati ai ricordi e ai cimeli della zia di Kurt, con qualche dubbio e con nessuna prova, se non quelle terribili coincidenze che hanno portato molte persone a fare delle congetture sulla scomparsa di Cobain. Si respira il clima cospiratorio di quegli anni, che però oggi pare lontano.

Nel 2004, invece, nel decennale della morte, esce il cofanetto With the Lights Out: in tre cd e un dvd si mette in luce il lato inedito della musica dei Nirvana. Cobain, ovviamente, domina la scena, ma è la musica che sta al centro del progetto. Il dvd, in particolare, è realmente emozionante: comprende video amatoriali e non girati tra il 1988 e il 2003. In quindici anni Cobain, nonostante tutto, è sorprendentemente costante. Certo, nelle prime prove filmate a casa della madre del bassista Novoselic, il ventunenne biondo è timido al punto tale da suonare e cantare rivolto al muro, spalle alla camera. In fondo Kurt è ancora in un momento di incertezza e crisi che dura da quando, a otto anni, i suoi hanno divorziato: da quel momento la sua vita è andata a rotoli sempre, dal punto di vista emotivo. Sempre nel dvd ci sono altri momenti eccezionali: uno su tutti è la prima esecuzione dal vivo di “Smells Like Teen Spirit”, una canzone che come poche altre segna gli anni ’90 e quelli a venire. Il live è dell’aprile del 1991, cinque mesi prima dell’uscita di Nevermind e della consacrazione planetaria della band.

Infine, Kurt Cobain: about a son. Diretto da A.J. Schnack nel 2006, è un documentario bellissimo. Oltre un’ora e mezza fatta solo di volti di abitanti delle zone di Aberdeen e Olympia, foto di concerti dell’epoca (soprattutto di altre band), paesaggi squallidi o incantevoli, traffico e periferie, diner e officine meccaniche. Tutto è commentato dalla voce di Cobain, tratta dalle registrazioni di numerose telefonate fatte dal giornalista Michael Azerrad per il libro Come as you are, tuttora considerato uno dei più belli in assoluto sui Nirvana. Le parole di Cobain, talvolta pronunciate con voce un po’ assente, o con la bocca piena, si intrecciano meravigliosamente con una colonna sonora più che notevole, formata dalle canzoni e dalle band che Kurt amava di più. Dai Vaselines ai Melvins, dagli Young Marble Giants ai Mudhoney. “Songs from the era”, si direbbe: una scelta azzeccatissima per un documentario che, non a caso è intitolato quasi come una canzone dei Nirvana. Schnack si sofferma molto sull’infanzia, vero snodo cruciale dello sviluppo emotivo di chiunque, Cobain compreso. Proprio lui continua a dirlo, nel corso del film: sono uno qualunque. Ma non si tratta di modestia. Sembra più una richiesta d’aiuto, di considerazione. Non pone tesi, About a son: racconta la storia di un personaggio, iconico suo malgrado, in maniera affascinante e originale, quasi astratta, abbracciando le contraddizioni di un grande artista così come la sua musica. Un ritratto commovente, consigliato a chi volesse tentare di conoscere, forse senza poterlo capire fino in fondo, Kurt Cobain.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel maggio 2011

Dagli archivi: The Black Power Mixtape 1967-1975 (Göran Olsson, 2011)

Locandina The Black Power Mixtape 1967-1975Tra i tanti capitoli da esaminare e riesaminare della storia contemporanea c’è sicuramente quello che ha portato all’emancipazione (almeno sulla carta) della popolazione afroamericana statunitense. Il movimento di liberazione, però, ha avuto tante sfaccettature, spesso in aperta contraddizione tra loro: come spesso capita in ambito storico, è quindi complesso stabilire la verità oggettiva di determinati processi sul lungo periodo o i risvolti e i retroscena di singole azioni dimostrative.

Sicuramente uno dei mezzi che abbiamo per saperne di più è il documentario The Black Power Mixtape 1967-1975, di produzione svedese, presentato all’ultima edizione del Sundance Festival, che nei prossimi giorni verrà proiettato per la prima volta in patria.

Un film svedese per comprendere il Black Power? La prospettiva geografica, oltre che culturale, storica e temporale, aiuta.

È proprio per capire meglio che stava succedendo negli USA alla fine degli anni ’60 che alcuni giornalisti svedesi si recarono negli Stati Uniti per realizzare dei reportage. Il materiale, rimasto proverbialmente nascosto in qualche soffitta, archivio o cantina, è stato riscoperto dal regista e produttore Göran Olsson che l’ha usato come base per questo documentario, organizzato per anno e, come vedremo, con radici ancorate anche nel presente.

Non sono solamente i grandi nomi del movimento a comparire sullo schermo: certo, c’è Angela Davis, ci sono membri delle Pantere Nere, poeti, scrittori e attivisti. Ma in TBPM sentiamo le voci degli abitanti di Harlem, l’Harlem di quegli anni, ben lontana dai processi di riqualificazione urbanistica che l’hanno investita negli ultimi decenni. Sentiamo le voce della base, si direbbe oggi, della comunità di colore, interrogate sui valori e le azioni esposte dai “dirigenti”.

Olsson, però, non dimentica la prospettiva temporale, come si è detto. Fa quindi commentare alcuni estratti e dichiarazioni dagli stessi protagonisti dell’epoca al giorno d’oggi, affiancandoli a nomi preminenti della cultura afroamericana contemporanea, come, ad esempio, Erykah Badu, forse uno dei personaggi più coerenti e convincenti di quello che, un tempo, si sarebbe chiamato panafricanismo. La distanza fa risaltare alcune cose e ne oscura altre: si percepisce la violenza esplicita delle Black Panthers da un lato e il sentimento genuino egualitario dall’altro; si comprende il razzismo all’interno di un processo orrendo e globale che pare non possa avere fine e ci si indigna per la sua costante presenza nella storia dell’uomo. Insomma, si capisce un po’ di più di quello che abbiamo vissuto e che viviamo: per un film non è poco.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011

Dagli archivi: Sulle tracce del terzo uomo (Frederick Baker, 2004)

Innanzitutto dividiamo voi lettori in due parti: chi ha visto Il terzo uomo e chi non ha mai visto il capolavoro di Carol Reed del 1949. No, non vale il solo sapere a memoria la famosa frase degli “orologi a cucù” di Orson Welles: è roba da bignami del cinema. Allora, chi l’ha visto si può mettere comodo sulla poltrona dei buoni, chi non l’ha visto se lo procuri. Bene, ora possiamo continuare.

Il film di Carol Reed è uno dei più belli del Ventesimo secolo, d’accordo? Questo lo si capisce anche solo seguendo la storia, scritta da Graham Greene, mica uno qualsiasi, e interpretata da Joseph Cotten e Alida Valli. Ma lo si comprende ancora meglio con Sulle tracce del terzo uomo, un documentario scritto, diretto e prodotto da Frederick Baker per la BBC. In realtà è il contenuto del documentario a essere prezioso, non tanto la sua forma: state pensando a un azzardo, a una messa in scena particolare? Tutt’altro.

Baker torna a Vienna, dove è ambientato il film, con Guy Hamilton (allora aiuto regista) e Angela Allen (la segretaria di edizione) a fare da guide. Dopo qualche considerazione da anziano in gita (“Com’è cambiata la città”) si cambia prospettiva e, grazie alla voce fuori campo del regista Carol Reed e a interviste a Greene e altri personaggi, si torna a un documentario classico. Dopo un po’, però, si cambia di nuovo rotta, accennando a uno dei produttori del film, quel David O. Selznick che, in quegli anni, era un altro modo di dire “Hollywood”. Si parla allora dei contrasti tra la produzione inglese (sotto la responsabilità di un altro grande, Alexander Korda) e quella statunitense? Sì, ma per poco: dopo avere rivelato che sia l’uno che l’altro si sparavano anfetamine sei giorni su sette per lavorare, lavorare, lavorare, si passa a un nuovo argomento, ancora una volta. L’argomento è Orson Welles, detto anche Citizen Kane, dal titolo del film su cui ancora campava. Scopriamo, per modo di dire, che Welles fa mille bizze: si presenta in ritardo sul set, dopo avere giocato a rimpiattino con la produzione tra Roma e Parigi. Poi scopre che deve girare nelle fogne e le fa ricostruire a Londra. Infine improvvisa letteralmente il breve monologo che voi, seduti sui ceci sotto il cartello “cattivi”, avete cercato di giocarvi come carta “io Il terzo uomo l’ho visto”. Che beffa, eh, che le battute più famose del film siano le uniche non scritte da Greene…

Insomma, di carne al fuoco ce n’è tantissima, in questo documentario: non ultima la considerazione che, in effetti, Reed è riuscito a “unire” il coevo neorealismo italiano, grazie all’uso di set reali e comparse prese dalla strada, con quel gusto neoespressionista ben sottolineato dalla strepitosa fotografia di Robert Krasker, grazie alla quale quest’ultimo vincerà un Oscar. Il problema è che tutto questo materiale è raccontato in maniera eccessivamente discontinua, spezzettata e singhiozzante. Un peccato, davvero.

E ora, tutti a ripassare Il terzo uomo.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011

Dagli archivi: Billy, ma come hai fatto? (Volker Schlöndorff, 1992)

Ogni tanto capita di leggere in giro sondaggi sul migliore film di tutti i tempi: i risultati cambiano, come è ovvio, di anno in anno e di generazione in generazione. Quando si parla, però, di “miglior commedia”, c’è un titolo che ricorre più degli altri, quello del celeberrimo A qualcuno piace caldo, del 1959, con Jack Lemmon, Tony Curtis e Marilyn Monroe. Alla regia uno dei più grandi del cinema hollywoodiano: Billy Wilder. È proprio il regista di origini austriache, scomparso nel 2002 a quasi 95 anni, la figura al centro di questo documentario costituito, fondamentalmente, da una serie di lunghe interviste realizzate dal regista tedesco Volker Schlöndorff.

Nelle quasi tre ore di film, Wilder è sempre prodigo di racconti e aneddoti: parla volentieri dei suoi film, ma pochissimo di sé. Un modo di fare, questo, che gli ha permesso di lavorare bene anche con attori difficili: “Non dovevo essere un padre per loro”, dichiara uno che, vera rara avis a Hollywood, è rimasto sposato per cinquant’anni con la stessa donna.

È un’etica del lavoro (e forse anche della vita) molto teutonica quella che pervade Wilder: scrivere una buona sceneggiatura (ne ha firmate una settantina) è un compito da svolgere seguendo determinate regole, così come lo è girare un film. Ma non c’è freddezza nelle sue parole, il regista comunica entusiasmo, divertimento, ironia e leggerezza in ogni frangente di queste lunghe chiacchierate multilingue. Sì, perché i due comunicano tra loro passando dall’inglese al tedesco anche all’interno di una sola frase, come a voler sottolineare lo straordinario misto di solidità delle origini e sogno americano che davvero costituiscono la personalità di Wilder.

Billy, chiamato così dalla madre dopo che aveva fatto un profetico viaggio negli Stati Uniti, si forma infatti nella Berlino dei meravigliosi anni ’20. Il cinema della UFA, per il quale lavora, è importantissimo, ma non meno del cabaret e del teatro. Schlöndorff scopre insieme a noi che moltissime trame alla base di film eccezionali come L’appartamento erano ricalcate da commedie teatrali viennesi e tedesche, rigorosamente in tre atti. E il cotè di formazione permane in Wilder, anche sotto forma del famoso cartello appeso a una parete del suo studio, che recita: “Come avrebbe fatto Lubitsch?”. La ricerca della semplicità, dell’eleganza e dell’efficacia, il rispetto dello spettatore, la quasi totale scomparsa della macchina da presa: ecco alcune “regole” che espone il regista che Wilder snocciola spesso, per rispondere a una domanda o per esemplificare un suo pensiero, ma sempre con modestia e understatement. Si presta più volte a spiegare il significato e la funzione di un determinato movimento di macchina, o a giustificare uno scambio di battute: sentire la sua voce descrivere sequenze che ci vengono riproposte come “materiale di studio” supplisce alla ovvia mancanza di alcun suo commento nei dvd dei film che ha firmato, gran parte dei quali entrato a pieno diritto nella storia del cinema.

È forse questa la parte più entusiasmante di un documentario girato nella maniera più semplice e diretta possibile: Billy, ma come hai fatto? dà a ognuno di noi la possibilità di assistere a delle vere e proprie lezioni di sceneggiatura e regia. Insomma, si tratta di materiale da proiettare nelle scuole di cinema, da far mandare a memoria a chi vorrà anche solo tentare di lambire le vette conquistate da questo eccezionale cineasta.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel dicembre 2011

Dagli archivi: L’ultima sequenza (Mario Sesti, 2003)

Immaginate uno dei film più famosi, affascinanti, dibattuti e complessi del mondo, 8 e ½ di Federico Fellini. Immaginate che, dai soliti, mitici e magici scatoloni e archivi vengano fuori delle foto di scena che ritraggono gli attori sul set, in una scenografia inedita, quella di un vagone di un treno. Proprio l’ambiente che viene descritto in alcune versioni della sceneggiatura, nelle ultime pagine: scene che, però, non sono mai finite su pellicola.

Ci sono già elementi a sufficienza per un mistero: Mario Sesti, quindi, indaga. Per certi versi, L’ultima sequenza può essere visto come un’inchiesta-documentario in cui l’autore segue un principio logico, quasi da indagine poliziesca, appunto. Ci mostra le centinaia di foto, gran parte delle quali inedite, che Gideon Bachmann ha scattato sul set, e già queste immagini valgono il documentario. Non solo: Sesti intervista attori, tecnici e altri personaggi che, in qualche modo, hanno avuto a che fare con il film. E qui inizia la magia di L’ultima sequenza.

Già, perché molti di questi personaggi, semplicemente, non ricordano la sequenza, esattamente come tanti altri ricordano perfettamente di averla girata. Il documentario, anche grazie all’uso delle voci di Fellini, di Mastroianni e di altri grandi nomi del cinema italiano che non camminano più su questa terra, assume un tono da sogno, onirico, felliniano, appunto. Si torna con la memoria alla sequenza iniziale di 8 e ½, quella in cui Mastroianni fluttua nel cielo legato a una corda: “Ingegnere, venga giù…”

Ci si chiede come sia possibile che, nonostante gli intervistati abbiano lavorato in centinaia di film, non siano certi dell’esistenza o meno della sequenza, o neanche si ricordino davvero di averla girata. C’è quasi un senso beffardo in tutto, anche questo tipicamente felliniano: si dice che il Maestro fosse un tipo divertente, che amava fare scherzi e prendere in giro la gente, oltre che appropriarsi di aneddoti altrui facendoli propri. Lo scopo principale, per Fellini, era l’affabulazione: qualcosa di ben distante da preoccupazioni di veridicità o di “proprietà autoriale”. Il racconto era tutto.

Nel documentario di Sesti, allora, ci troviamo improvvisamente in un film di Fellini: l’oggetto dell’indagine diventa l’indagine stessa. Alla fine dell’ora scarsa di durata ne sappiamo meno di prima sull’ultima sequenza di 8 e ½: o meglio, ne intuiamo i contorni, grazie alle foto di Bachmann e alle testimonianze a favore della sua esistenza; ma allo stesso tempo dubitiamo di quello che abbiamo sentito, quando ricordiamo le parole di chi nega che questa sequenza sia mai stata girata.

L’indagine è finita, non abbiamo appurato la verità, ma abbiamo sentito un sacco di belle storie. E Fellini, da qualche parte, ne siamo certi, se la ride.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011

Dagli archivi: The Fog of War: La guerra secondo Robert McNamara (Errol Morris, 2003)

C’è un nome che ricorre nella storia statunitense della seconda metà del secolo scorso: quello di Robert McNamara, nato nel 1916. Un uomo che ha svolto dei ruoli fondamentali nella politica estera USA e, di conseguenza, negli equilibri mondiali, in uno dei periodi chiave della storia dell’umanità: quello che va dal secondo conflitto mondiale alla Guerra fredda. Ottavo segretario della difesa degli Stati Uniti, si trova a ricoprire il delicato incarico proprio nella prima fase della guerra del Vietnam.

Immaginate ora di avere quest’uomo, laureato ad Harvard, già ai vertici della Ford, presidente della Banca Mondiale, davanti a una videocamera per 30 ore, che parla a ruota libera. Il risultato (ovviamente montato e ridotto a poco più di un’ora e mezzo di lunghezza) è The Fog of War, diretto da Errol Morris nel 2003, che nell’anno successivo ha collezionato una quantità di premi, tra cui l’Oscar come miglior documentario. McNamara parla di fronte alla camera, lo vediamo mentre ascolta dei nastri di conversazioni storiche o mentre è in macchina e risponde alle domande incalzanti di Morris. Spesso il regista lo riprende in primissimo piano, come per cercare i segreti nascosti di quest’uomo, ma, lo dice McNamara stesso, “preferisco essere bastonato per una cosa che non ho detto, piuttosto che dirla.”

Non pensate, però, di vedere un uomo che fa sfoggio di potere e che gioca sulle sue evidenti abilità dialettiche: McNamara, che all’epoca delle riprese ha quasi novant’anni (morirà nel 2009), è pacato, riflessivo, brillantissimo nell’eloquio senza però neanche sfiorare la retorica. Il documentario tocca vertici davvero alti, grazie alla bravura di Morris e con l’aiuto “emotivo” delle musiche di Philip Glass, quando si affrontano i capitoli legati alla figura di Kennedy, il presidente che lo volle al suo fianco. McNamara si commuove e ricorda con intensità una delle crisi internazionali che più fecero tremare i blocchi contrapposti durante la Guerra Fredda, quella della “Baia dei porci”. Quei giorni, raccontati da lui, si trasfigurano in due direzioni opposte: da un lato c’è la sensazione (peraltro reale) di sentire parlare uno che in quel momento era presente e aveva enormi responsabilità. Dall’altro l’episodio diventa quasi una parabola filosofica e politica sul conflitto come concetto storico.

Infatti sono gli eventi bellici a occupare il centro del documentario, che in Italia è uscito non a caso con il sottotitolo La guerra secondo RobertMcNamara. Negli undici capitoli che compongono il film il conflitto è sempre presente, sia quello reale della Seconda guerra mondiale, sia quello più astratto, ma non meno distruttivo, tra ragione di Stato e umana razionalità. Ed è la guerra che vince, alla fine: il sogno di McNamara, anticomunista ma umanista allo stesso tempo, pragmatico e idealista insieme, è svanito. Le conseguenze si leggono sui giornali ogni giorno e rimangono impresse nello spettatore di The Fog of War nell’espressione triste di quest’uomo potentissimo sulla quale si chiude il documentario.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel gennaio 2011

Dagli archivi: Flightplan – Mistero in volo (Robert Schwentke, 2005)

Di Robert Schwentke
Con Jodie Foster, Peter Sarsgaard, Sean Bean, Kate Beahan, Greta Scacchi
Durata 98’
Distribuzione Buena Vista International Italia

La storia: Kyle Pratt, ingegnere aeronautico, sta volando da Berlino a New York con la figlia Julia, insieme alla salma del marito, morto accidentalmente, che deve essere seppellita negli Stati Uniti. Durante il volo la bimba scompare, e Kyle inizia una ricerca, aiutata dall’addetto alla sicurezza di bordo Gene Carson e dai membri dell’equipaggio.

Leggendo la trama e il cast di Flightplan, vengono in mente altri due thriller di ben altro spessore, La signora scompare di Hitchcock e di Panic Room di Fincher. Ma la scomparsa misteriosa di un personaggio in un luogo chiuso, e “Jodie Foster con la figlia in un luogo chiuso” sono gli unici due elementi che aprono e subito esauriscono i paralleli con questa opera seconda del tedesco Schwentke. Flightplan, infatti, è carente proprio nei due punti che hanno fatto la forza dei film citati.

Tipico di Hitchcock è il “mcguffin”, un espediente che innesca e mantiene il meccanismo narrativo, e la tensione che ne deriva. La sparizione di Julie Pratt, così come quella di Miss Froy nel film di Hitchock, vorrebbe funzionare proprio in questo senso, ma non riesce nello scopo. Un difetto non proprio trascurabile di un prodotto che vorrebbe essere un thriller, infatti, è proprio la mancanza quasi assoluta di tensione: ce n’è un accenno nella prima parte, ma poi scema fino al necessario e annunciato colpo-di-scena-di-tre-quarti-di-film. La sceneggiatura, però, non riesce a tenere insieme tutti gli elementi, e quindi la loro soluzione nel finale appare davvero improbabile e forzata.

L’elemento chiave di Panic Room, invece, era lo spazio (cinematografico) e la sua gestione. Le scenografie di Alec Hammond in Flightplan, per quanto convincenti nel mostrarci un enorme aereo di linea a diversi piani, con salotti, salottini, scale e posti per quasi quattrocento persone, non sono sfruttate dalla macchina da presa di Schwentke, che si limita a qualche scolastico virtuosismo con immagini riflesse e superfici lucenti varie. Il senso spaziale è, insomma, annullato, tant’è che ci si dimentica presto di essere in/su un aereo: lo spazio si caratterizza semplicemente come un “luogo dell’azione” anonimo e viene privato di alcun tipo di forza narrativa o di tensione.

L’unico tentativo di opposizione a questo appiattimento progressivo dell’ambientazione del film è dato da alcuni richiami alla situazione dei voli dopo l’undici settembre. Mano a mano che la tensione tenta di crescere, nascono paranoie e razzismi vari tra i passeggeri, che sfociano in un attacco dell’esasperata Kyle nei confronti di un arabo. Ma anche quel tipo di tensione, se sulle prime rischia di trasformarsi in lapidazione collettiva, viene facilmente risolta dall’arabo che tende una mano verso la protagonista, in un finale che più lieto non si può.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, dicembre 2005

Dagli archivi: Concorso di colpa (Claudio Fragasso, 2005)

Di Claudio Fragasso
Con Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti, Antonella Ponziani, Luca Lionello, Massimo Bonetti
Durata 95’
Distribuzione Luce

La storia: Il commissario di polizia Francesco de Bernardi, in seguito al suicidio di un extraparlamentare di sinistra, si trova ad indagare su un presunto omicidio politico ai danni di un estremista di destra ucciso venticinque anni prima. Questo caso lo obbligherà a fare i conti con il passato e con quelli che erano i suoi amici di allora.

Il ritorno al cinema di Nuti avviene con quello che si può tranquillamente definire un film di genere, che si rifà ad un periodo difficile da trattare per il nostro cinema, anche se i tentativi non sono mancati. Ispirandosi, seppur vagamente, ad alcuni fatti di cronaca degli anni ’70, Fragasso prova a costruire una storia intricata, con rimandi continui al passato e al presente, usando dei ponti espliciti o dei richiami più velati per tentare un rimando continuo tra la realtà odierna e quella degli anni di piombo, senza cadere nell’assurdità di metterle in qualche modo in parallelo. Sebbene il film non abbia alte pretese, ha degli ottimi spunti e, qua e là, delle trovate originali che tuttavia rischiano di perdersi lungo lo svolgimento della trama.

Innanzitutto Concorso di colpa soffre della malattia comune del cinema di genere italiano, cioè la mancanza di una struttura scritta solida. La sceneggiatura di Rossella Drudi, infatti, se talvolta è valida (basti pensare ai dialoghi tra Nuti e Benvenuti, in un contesto assai diverso da quello a cui eravamo abituati vederli), in altri momenti crolla. Questo accade nella definizione di ambienti (case di gente-di-sinistra con libri Adelphi in vista e foto di Berlinguer) e, soprattutto, dei caratteri. Basti pensare al personaggio del figlio di Nuti, rivoluzionario di oggi, cioè (?) no-global, al quale vengono messe in bocca frasi che neanche un brigatista fanatico dell’ipotassi si sarebbe mai sognato di pronunciare a quei tempi. Altri simbolismi, come l’eterna partita a scacchi che giocano il commissario e il giudice, finendo sempre in pareggio, appesantiscono un film che ha, invece, ben più di qualcosa da dire. Prima di tutto, bisogna riconoscere a Fragasso una capacità registica non indifferente: il ritmo è elevato dall’inizio alla fine, con la macchina da presa che raramente prende posizioni non giustificate o giustificabili, senza cadere in manierismi. Il tutto è ben esemplificato nel finale, in cui se da un lato c’è la necessità di tirare i fili di uno script che non sempre risulta essere compatto, dall’altro il passo del film aumenta e riesce quasi a fare dimenticare, con la semplice forza di alcune immagini, gran parte delle lacune incontrate precedentemente.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2005

Dagli archivi: Cursed – Il maleficio (Wes Craven, 2004)

Cursed

Di Wes Craven (Usa 2004)
Con Christina Ricci, Jesse Eisenberg, Joshua Jackson, Judy Greer
Durata 96’
Distribuzione Buena Vista International Italia

La storia: I fratelli Ellie e Jimmy Hudson, nella stessa notte, assistono ad un incidente stradale. Mentre tentano di soccorrere una ragazza ferita, una creatura li assale, sbrana la ragazza e li ferisce entrambi. Da quel momento le loro vite non saranno più le stesse, perché la creatura è un lupo mannaro e il suo morso li ha contagiati.

Ritorna l’accoppiata Craven/Williamson, quella di Scream per intenderci, e un modo per leggere questo Cursed è forse proprio quello di avvicinarlo alla serie di metahorror creazione dei due, anche se di tempo ne è passato per l’horror contemporaneo. Ci sono stati due sequel di Scream, subito dopo tre film parodia dell’horror (Scary Movie), una serie di remake di classici degli anni Settanta e, contemporaneamente, l’invasione di prodotti orientali e i loro rifacimenti. Nonostante questa abbondanza, c’è da dire però che l’immaginario orrorifico classico occidentale ha tuttora qualche crisi di identità, e gli autori di Cursed lo sanno bene. Decidono quindi di puntare sulla tradizione pura, creando un film di lupi mannari schietto e semplice.

Lo spettatore smaliziato, che conosce le derive interpretative di Craven e Williamson, si trova sempre superato a destra da un proliferare di elementi e situazioni a lui note, come se il film diventasse un esplicito e divertito breviario, una specie di manuale. Il quadro è sempre ricolmo di elementi noti all’appassionato, basti pensare alla sequenza ambientata nel locale di Jack, una sorta di “Planet Hollywood” dell’orrore, in cui spicca ovviamente Lon Chaney nelle vesti di licantropo e fa capolino anche Freddy Kruger. In quest’ottica il film è compatto, non si perde in contaminazioni con altri sottogeneri dell’horror e rispetta le regole fissate da Curt Siodmak (L’uomo lupo, 1941). Regista e sceneggiatore rendono omaggio a una figura che è stata in gran parte fissata dal cinema nelle sue caratteristiche fisiche e caratteriali, a differenza di altre icone dell’horror classico di derivazione letteraria. E, ovviamente, si ricordano della sofferenza e della profondità psicologica che ha donato Landis al suo lupo mannaro americano a Londra (gli effetti speciali sono dello stesso Rick Baker). Infine è da segnalare il rimando al teenage movie: i cenni a I was a teenage werewolf (1957) e a Voglia di vincere – Teen Wolf (1985) sono evidenti e suggellati dalla presenza, nei panni di se stesso, di Scott Baio, il “Chucky” di Happy Days; e quest’ultimo entra un ulteriore cortocircuito con Joshua Jackson, uno dei protagonisti di Dawson’s Creek.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, luglio 2005

Dagli archivi: Ocean’s Twelve (Steven Soderberg, 2004)

Ocean’s Twelve

Di Steven Soderbergh (USA/Australia 2004)
Con George Clooney, Brad Pitt, Matt Damon, Catherine Zeta-Jones, Julia Roberts, Andy Garcia, Vincent Cassel
Durata 125’
Distribuzione Warner Bros.

La storia: Terry Benedict ha rintracciato gli undici di Ocean, la banda che lo ha rapinato. E adesso rivuole indietro i soldi che gli sono stati rubati. Più gli interessi. La banda si riforma, ma entra subito in competizione con “il ladro più bravo del mondo”, Night Fox.

La storia la conosciamo bene: esattamente come è successo per Ocean’s Eleven, anche per il suo seguito Steven Soderbergh ha raccolto intorno a sé i suoi amici, che hanno lavorato per un compenso nettamente inferiore a quello per cui sono abituati a recitare, e addirittura ha girato a casa di uno di loro, la villa sul lago di Como di George Clooney. Il senso che Ocean’s Eleven lasciava allo spettatore era quello di puro divertimento, percepito anche nel film. Sembrava che gli attori si stessero veramente divertendo, mentre stavano girando, che il loro cazzeggio splendidamente cool (dio mi strafulmini se uso ancora una volta queste tre parole insieme) trasudasse dalla pellicola. E sono sicuro che tutti loro l’hanno ammesso, magari nei documentari allegati al dvd, che spesso diventano sempre di più una ripetizione, in salse diverse, della medesima affermazione: “È il set più bello sul quale ho lavorato.”

Il divertimento si percepisce anche in Twelve, senza dubbio. Sia a livello microscopico, con alcuni dialoghi tra Clooney e Pitt o tra Clooney e Damon ironici e leggeri, quasi da commedia sofisticata. Ma anche a livello macroscopico alcuni nodi della trama sono ingegnosi e, allo stesso tempo, ammiccanti: uno su tutti, il ruolo del personaggio interpretato da Julia Roberts nel piano finale, quando finge di essere una famosa attrice hollywoodiana (indovinate chi?), ma non riesce a trattenere l’emozione quando le si para davanti il suo “amico” Bruce Willis.
Il problema con questo film è, però, che il pubblico non si diverte più di tanto. La stilosità degli stilemi (perdonate il bisticcio) di Soderbergh diventa fastidiosa e fine a se stessa: zoom, fermo immagine, profusione di scritte, sono decisamente pesanti. Così come è macchinosa e intricatissima la trama. Un film-con-piano non può e non deve essere lineare, per carità; allo stesso tempo, però, un film che parla di una truffa non dovrebbe truffare a sua volta lo spettatore con una svolta finale troppo tesa al coup de théâtre che al rigore narrativo. Peccato, perché comunque Ocean’s Twelve rimane un film godibile, ironico e scanzonato. Esattamente come può essere (talvolta) una rimpatriata di vecchi amici particolarmente riuscita.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, febbraio 2005

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