Act Naturally

I know a song to sing on this dark night

Esce oggi Crazy Clown Time, di David Lynch: sebbene non si tratti della prima incursione del regista in ambito musicale (basti ricordare che Lynch ha messo le mani nello splendido Dark Night of the Soul, oltre che in svariati album, per non parlare delle colonne sonore dei suoi film e corti), questo è il primo disco firmato tutto da David Lynch, che lo suona insieme a Dean Hurley, ma soprattutto lo canta.

L’uscita del primo singolo, “Good Day Today” (che ha un video, non troppo bello, realizzato dal vincitore di un concorso indetto dallo stesso Lynch), sono stato sviato completamente: ero convinto che il disco si sarebbe rivelato completamente costruito su quei ritmi electro morbidi e che la voce di Lynch fosse un cameo, un’eccezione.

E invece, sebbene l’apertura del disco sia affidata alla riuscita “Pinky’s Dream”, con l’ormai onnipresente Karen O, le seguenti 13 tracce vedono un uso multiforme della voce dell’autore. Una volta è con l’eco, un’altra col vocoder, un’altra ancora resa metallica e quadrata. Ecco il vero debutto del disco: la voce di Lynch. Una voce che pensavo di non riconoscere, ma che ho individuato subito (con stupore) all’uscita della prima anticipazione dell’album.

Allora però non mi sbagliavo solo sulle parti vocali, ma anche sui timbri: Crazy Clown Time è basato spesso, sì, su tappeti e ritmiche elettroniche, ma ci sono diversi brani suonati: solo una batteria e una chitarra, spesso piena di riverbero, che incede lenta su accordi ondeggianti (“Football Game”, “The Night Bell With Lightning”, l’unico strumentale del disco), come se si trattasse di una versione agonizzante di un lento da ballare nella penombra dell’One Eyed Jacks o, chissà, nel nuovissimo Club Silencio, aperto da poco a Parigi.

Non è un caso citare il bordello di Twin Peaks, perché è impossibile separare la musica di Lynch dal suo mondo visivo, oltre che – ovviamente – sonoro. Tutto Crazy Clown Time è inquietante: il titolo del post è preso dal testo di “Noah’s Ark”, ma provate a sentire il brano (tutto il disco è ascoltabile sul sito della NPR), che arranca su una voce spezzata e poi risolve dicendo che la canzone di cui si parla “è la canzone dell’amore”.

O anche la titletrack, che narra il punto di vista di un bambino “su una festa in cortile”, dice la pur bella recensione della Radio Pubblica statunitense. Ehm, no: Suzy e Molly si strappano le camicie, Buddy rovescia addosso alle donne della birra e poi sputa e urla forte. Non si tratta esattamente di un barbecue tra vicini.

La voce di Lynch, quindi, è al centro di tutto, anche dell’ossessiva litania al vocoder di “Strange Unproductive Thinking”, del blues distortissimo di “I Know” (altro video, migliore, “realizzato” con la stessa modalità del primo), delle atmosfere “badalementiane” di “Speed Roadster”, di ogni storia narrata con assoluta serietà e normalità.

È proprio questa attitudine che attira da sempre l’ascoltatore e lo spettatore nel mondo di Lynch: dove sembra tutto normale, perché tutto viene presentato in maniera apparentemente canonica. Le canzoni hanno una struttura riconoscibile, i film sono girati con rispetto assoluto (scena per scena, si intende) per le regole basilari della grammatica: eppure, nascosto tra le ombre c’è un orecchio in un prato, un misterioso ciondolo a forma di gong, una stanza rossa, un sussurro inquietante, talvolta un cantato stridulo che parla d’amore.

Questi tipici indizi lynchiani sono arricchiti dal fatto che, in questo “artefatto”, Lynch non si limita a mettere in scena, ma interpreta: diventa l’amante depresso, il bambino, il folle, mettendosi in prima fila. Ecco perché la voce di Lynch è il vero debutto di questo disco.

Crazy Clown Time non è un capolavoro, perché è troppo lungo, tanto per citare il primo difetto che balza alle orecchie, e non tutti i brani sono riusciti: è un album faticoso, che però ripaga l’ascoltatore quanto più egli vi si lascia andare.

Così come non si può guardare una puntata di “Rabbits” stirando, né perdere l’attenzione durante la visione di un qualsiasi lungometraggio di Lynch, è fuorviante cercare di capire questo disco senza dedicargli completamente l’ora abbondante della sua durata, magari cercando di capire o intuirne i testi mentre lo si ascolta. Dopo ciò, a prescindere dal vostro giudizio, di una cosa sarete certi: questo album non è un bluff, o il curioso hobby di un geniale e bizzarro visionario.

Questo album è David Lynch, come lo è The Alphabet, INLAND EMPIRE e le previsioni del tempo che ha curato. Prendere o lasciare.

Telefon

Telefon è un film con Charles Bronson che non ho mai visto, ma che vorrei vedere. Ecco a voi il trailer.

Come avrete capito, il film narra di una serie di cittadini statunitensi, “cellule dormienti” del KGB, che vengono “svegliati” e resi operativi da una telefonata in cui vengono pronunciate alcune parole-chiave.

Il titolo della versione on-line di Libero di ieri pomeriggio è un capolavoro di demenzialità. Però mi chiedo se l’espressione “abbassare-tasse” non sia altro che una parola-chiave tanto quanto “comunisti”, tanto sbraitata da Berlusconi.

Mamma, mamma, sono alla tivù

Questo pomeriggio alle 17 su La3 (canale 143 di Sky) o in streaming sul sito dell’emittente, ci sono io che parlo di Seconda Visione, il blog e la trasmissione.

Se proprio mi perdete, non potrete sfuggire alle repliche: sabato 9 alle 16, domenica 10 alle 1630 e da lunedì a giovedì sempre alle 17.

Mi ero pettinato: speriamo bene.

Nuovi metodi per dimenticare l’Alice di Tim Burton

Scoprire per puro caso un film per la televisione del 1966, diretto da Jonathan Miller, con Peter Sellers e Alan Bennett.

Una puntata di “The Wednesday Plays”, serie che andava in onda sulla BBC ogni mercoledì, nella seconda metà degli anni ’60. Questa versione di Alice è realmente impregnata di quell’epoca: musica indiana (composta da Ravi Shankar, mica uno a caso), richiami al cinema europeo d’autore e uno stralunato umorismo che diventa l’ennesimo semino dal quale è nata la pianta dei Monty Python.

Scusate la metafora.

Insomma, se lo volete vedere per intero è qua.

Rivivere scene di film

Una piccola vineria, all’ora dell’aperitivo. Al tavolo dietro il nostro, quattro adolescenti che chiacchierano a ruota libera: parlano di presunte stranezza nel comportamento, legate alla provenienza geografica. La parola rimbalza tra loro, quando uno esclama: “Però i veneti sono davvero assurdi.” Nessuno ribatte, lui continua: “I veronesi, poi, non ne parliamo”.

Silenzio.

“Mia mamma è di Verona”, dice uno dei quattro. Ha la faccia innocente di uno pronto allo strapazzo. Una faccia un po’ alla Trintignant.

Tradurre Gadda

In un libro di cui abbiamo parlato qua, si discute delle radici comuni che hanno le parole “tradizione, “tradire” e “tradurre”: indicano un portare qualcosa a qualcuno, in senso ampio. Non è un caso che io abbia menzionato un testo che parla di teatro, perché l’altra sera ho visto uno spettacolo notevole. L’eccellente Fabrizio Gifuni ha portato in scena L’ingegner Gadda va alla guerra, tratto dagli scritti del grande scrittore milanese e del bardo di Stratford: i ricordi di Gadda combattente della Grande Guerra si fondono, grazie a un semplice gioco di luci creato su una scenografia più che minimale, con brani scritti da Shakespeare.
Il risultato è tutt’altro che pretestuoso, come forse si potrebbe pensare. Gifuni usa tutte le sue doti attoriali (fisiche e vocali) per portarci le parole di uno degli scrittori più difficili e importanti del Novecento italiano. In un’ora e mezza densa e impegnativa tradisce il teatro di parola senza cambiare una virgola degli scritti di Gadda al fronte, né dei passaggi dell’Amleto. Le conclusioni sono affidate all’analisi magistrale della comunicazione “sessuale” fascista: parole, come immaginerete, quanto mai attuali.
Andatelo a vedere.

I Presidenti

Nell’ultimo numero di Segnocinema c’è un bellissimo approfondimento sull’idea di nazione e nazionalità nel cinema italiano, uno dei più interessanti che la rivista abbia ideato negli ultimi tempi, a mio avviso. In un articolo si citava uno dei protagonisti di Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo agghiacciante film di Pasolini: viene chiamato il Presidente, ed è uno dei quattro simbolici uomini di potere che gestiscono le torture e le azioni del film. Una delle caratteristiche del personaggio che avevo completamente dimenticato, e che l’articolo mi ha fatto tornare alla mente, era la sua mania di raccontare barzellette.

E allora ho fatto un montaggio, un po’ raffazzonato.
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Première

Ho sempre cercato di andare alle anteprime stampa dei film che mi interessano, ma (per questioni di lavoro) era da molto che non riuscivo ad assistere ad una di esse. Ieri, finalmente, ce l’ho fatta. E ho osservato  la varia umanità presente. Ho già parlato di gente da festival, ma l’anteprima cinematografica è un’altra cosa, soprattutto in una città come Bologna, dove proiezioni di questo tipo non sono frequenti come a Milano o Roma. Non c’è una vera routine, per questo motivo. Cionostante, ci sono delle tipologie ben definite di personaggi, spesso orribilmente incrociate tra loro.

Il giornalista generico di cultura contrasta, in effetti, quello che ho detto. Già, perché il GGC, chiamiamolo così, è inserito nella routine quotidiana degli appuntamenti culturali da-non-perdere. Entra in sala mollemente un quarto d’ora dopo l’effettivo orario previsto per la proiezione, ma tutti stanno aspettando lui. Ha quel posto di lavoro da trentacinque anni: può fare ciò che vuole. Scorre sinuoso tra le file delle poltrone salutando tutti, ma facendo cenni di assenso più intimi e misteriosi agli altri GGC che, bah, sono arrivati meno in ritardo di lui. Il GGC non si è ancora seduto e gli altri iniziano a spazientirsi: lui, allora, fa un cenno all’addetta stampa, le ricorda che hanno una partita a burraco in sospeso, e finalmente inizia la proiezione.
Il giovane stagista fiuta l’aria come un cerbiatto in pericolo: e lo è. È una farfalla nella stagione degli amori, oppure una talpa depressa, a seconda di quanto sia distante la fine del contratto (fotodegradabile) che ha firmato rinunciando a ogni diritto umano e civile. È alla proiezione per due motivi: per sbaglio o perché il caporedattore cultura ha avuto un ictus fulminante. Ma è la sua grande occasione: ha letto tutto sul regista, conosce a menadito la filmografia di ogni singolo membro del cast e non dorme da due giorni per l’agitazione. Ha la penna, il bloc-notes e ogni altro mezzo di registrazione immaginabile. È pronto per l’Intervista, ma deve prima guadagnarsi la fiducia (o anche solo una minima attenzione) dell’addetta stampa.
L’addetta stampa è come nei film polizieschi: nel senso che di solito c’è l’addetta stampa buona e quella cattiva. L’addetta stampa buona lo è a tal punto che dà una cartella stampa anche al giovane stagista, pensate un po’. Promette interviste di un’ora e mezzo. Poi passa a rassicurare altri giornalisti. E lascia il campo alla sua gemella cattiva. L’addetta stampa cattiva ha rispetto solo per gli ospiti (attori, regista, o chi per loro) e per il giornalista generico di cultura con il quale, forse, ha anche avuto una storia, o ci sono questioni di soldi di mezzo, o entrambe le cose. Ha un particolare gusto sadico, sfogato ovviamente soprattutto sul giovane stagista. Talvolta, addirittura, lo iscrive alla lista, in fondo, però. Così trova l’intervistato stanco e spossato per la sequela di domande identiche e fuori tema alle quali ha dovuto rispondere: al primo segno evidente di stanchezza o rottura di balle che l’intervistato esprime, l’addetta stampa cattiva irrompe sulla scena e interrompe tutto, anche dopo la prima mezza risposta. Caccia via il giovane stagista, poi si volta verso l’intervistato e sorride, sorride al punto tale che i suoi lineamenti si modificano, accostandosi molto a quelli dell’addetta stampa buona.
Il giornalista-zerbino è la causa dell’unico rumore che si sente durante la proiezione. Come una pentola di zuppa sul fuoco, il giornalista-zerbino gorgoglia apprezzamenti, borbotta consensi e poi esplode in fragorose risate anche laddove d’ironia ve n’era solo una punta, così, tanto per alleggerire una scena violentissima e cruenta. Ma lui coglie il Film come fa la terra secca con l’acqua ed esprime questa comunione non appena può. Ovviamente è suo il primo intervento, quando l’addetta stampa dà il via alle domande. Ma lui non chiede, afferma, scandendo di solito complimenti talmente esagerati e fuori luogo da fare vergognare chiunque: il tutto dà luogo a ipotesi dietrologiche che sbocciano nella sala come gemme, nel tentativo di rispondere alla domanda: “Ma perché si spreca in sperticate lodi? Qual è il vantaggio?”. Nessuno lo sa. Forse il giornalista-zerbino ha sempre voluto intraprendere una carriera nell’ambito della settima arte: si spiega spesso, così, la sua scarsa riuscita nel campo della scrittura.
Quello capitato lì per caso ha due possibilità, a seconda dell’addetta stampa che incontra per prima. Se è quella buona, la sua ingenua domanda “Ma c’è un film gratis?” verrà accolta da un sorriso e da un invito a entrare. Se è quella cattiva, la risposta sarà glaciale al punto tale da lussare una vertebra del capitato lì per caso e, nello stesso tempo, fargli morire le piante del salotto. Talvolta quello capitato lì per caso, però, viene fatto entrare: in fondo è sempre una presenza utile, quando c’è il sentore che l’anteprima stampa possa venire disertata da molti.
Poi ci sono attori, registi, produttori, eccetera. Ma sono persone molto, molto meno divertenti, di solito.

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