I’m Happy Just To Dance With You

From us to you: il nostro regalo per i cento anni di Gianni Rodari

Posso dire che tutto è nato su questo blog, dieci anni fa, con un post in cui dichiaravo il mio amore per Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari, il disco di Lucia e Virgilio del 1972 che ho consumato quando ero piccolo e che non ho mai smesso di ascoltare. Grazie alle numerose reazioni che ha scatenato quel post, anche a distanza di anni, ho capito che quelle canzoni erano ancora parte della memoria di tanti, ma riuscivano a conquistare anche chi le ascoltava nel terzo millennio.

Poi, nell’ottobre 2019, mi sono imbattuto in uno scambio di commenti in cui veniva citato Rodari e, ancora una volta, ho inviato all’amica impegnata nel dibattito informazioni sul disco. Non lo conosceva, ma era bastato un ascolto per conquistarla. L’amica era Francesca Bono degli Ofeliadorme, e il suo entusiasmo mi ha fatto pensare a quanto la sua voce e il suo stile fossero adatti a rileggere una delle Filastrocche, nello specifico “Il gatto inverno”.

https://www.youtube.com/watch?v=TSo324Gqyig

Più me la immaginavo, più mi convinceva. Da lì mi sono detto: “Conosco un sacco di musiciste e musicisti di spessore: perché non organizzo – in maniera del tutto volontaria e con contributi volontari di tutti i coinvolti – un album-omaggio a questo disco, e quindi al lavoro di Gianni Rodari, di Lucia Mannucci e Virgilio Savona, lo metto in rete e dono i ricavati dei download a un’associazione, un ente o una struttura che si occupa di bambini?”. Sono stato travolto da questo pensiero, che si è formato così, tutto insieme, ma sono stato incoraggiato a continuare anche dalla risposta positiva di Paola Rodari, la figlia di Gianni, la prima persona “esterna” a cui ho comunicato il progetto.

Ho quindi preso il telefono e ho selezionato i possibili candidati secondo tre criteri:
1. dovevano essere persone che potevo contattare facilmente, con un messaggio o una telefonata;
2. dovevano essere persone che avevano una sensibilità letteraria, musicale e umana con il mondo e le idee di Gianni Rodari;
3. dovevano essere ragionevolmente libere nel periodo in cui pensavo si dovessero produrre le tracce (una produzione fattibile anche in casa, dato che la lunghezza delle canzoni del disco originale è assai ridotta e che gli arrangiamenti di Savona sono tanto efficaci quanto semplici).

Alla fine del 2019, infatti, pensavo di “sfruttare” l’anno rodariano per eccellenza, questo disgraziato 2020, in cui ricorrono il centenario della nascita, 60 anni dall’uscita della raccolta Filastrocche in cielo e in terra, 50 anni dall’assegnazione del Premio Andersen e 40 anni dalla morte. Il disco sarebbe uscito ad aprile così da dare tempo ai musicisti di produrlo e di avere 8 mesi per promuoverlo. Nel frattempo, ovviamente, ho ricevuto l’appoggio dell’agenzia che cura la produzione letteraria di Rodari e delle edizioni musicali del disco originale. Una bella soddisfazione, magnificata dal fatto che intorno al progetto fossi riuscito a raccogliere con estrema facilità un nugolo di belle persone affinché si occupassero di alcuni aspetti tecnici: quelli legali (Emanuela Russo e Antonio Tavoni), quelli sonori (Roberto Rettura e il suo Studio Spaziale, Angelo Epifani e il suo Epifonica Sound Lab) e quelli grafici (Marcello Petruzzi e tutta Housatonic). Chi veniva a conoscenza di quest’idea sorrideva e diceva “Ci sto”, pur sapendo che avrebbe lavorato gratis, una cosa che mi sorprende sempre, quando ci penso, ma non tanto quanto un’altra, relativa all’assegnazione delle canzoni.

Il penultimo giorno del 2019 scrivevo “alle musiche e ai musici” queste parole:

Vi chiedo (…) di indicarmi le tre canzoni che “vorreste”, se ce ne sono. Le virgolette sono d’obbligo, perché sarà praticamente impossibile che ognuno abbia la canzone che preferisce. Io cercherò di venire incontro ai vostri desideri, ma per forza di cose sarò costretto a prendere decisioni che non si accordano ai vostri gusti. In tal caso, mi direte se siete ancora della partita, oppure no. Potete anche dirmi anche “o questa o nulla”, ma se non vi accontento, e quindi non sarà possibile farvi partecipare, promettiamoci che ci vogliamo bene lo stesso.

Sì, è vero, molti mi hanno detto “scegli tu”, ma uno dei “miracoli” legati alla nascita di questo disco è stato che tutti, proprio tutti, hanno avuto la canzone che desideravano.

https://www.youtube.com/watch?v=c2siYCUwS0I

La prima, “Filastrocca impertinente” di Dente, è arrivata nella mia mail a metà febbraio. Due settimane dopo eravamo in piena emergenza sanitaria. Eppure il progetto, che ora aveva un titolo (Rifilastrocche in cielo e in terra) e un ente beneficiario (l’impresa sociale Con i Bambini), entrambi scelti a maggioranza da tutte le persone coinvolte, non si fermava. Le canzoni continuavano ad arrivarmi una ad una e, ogni singola volta, mi commuovevano fino alle lacrime: pensate a cosa provereste se qualcuno vi mandasse qualcosa che, contemporaneamente, vi riportasse all’infanzia e vi desse fiducia nell’umanità. Il tutto nel mezzo della prima pandemia che tutti stavamo vivendo e che, in un orribile giorno di aprile, ha portato via Mirko Bertuccioli dei Camillas, anche loro coinvolti nell’album. “La canzone che avevamo pensato la facciamo lo stesso”, mi ha detto qualche settimana dopo Vittorio Ondedei, cofondatore della band. Anche in quel caso, lo confesso, mi è entrato qualcosa in entrambi gli occhi, facendomi lacrimare un po’. E con la fine dell’estate tutto era pronto, grazie allo sforzo collettivo di musiciste, musicisti, professionisti del diritto d’autore, fonici, produttori, specialisti in comunicazione. L’amico Marcello Petruzzi e Housatonic hanno realizzato una copertina (anche in versione da colorare) e un video splendido, servito come apripista del disco, uscito poco più di un mese fa.

Dieci anni fa non avrei mai pensato di riuscire a ideare da solo le Rifilastrocche in cielo e in terra. Oggi ci sono sono riuscito proprio perché non sono stato solo. Ed è quindi giusto che questo biglietto di auguri in musica per i cento anni di Gianni Rodari sia firmato anche da Alessandro Grazian, Anna Bazueva, Michele Postpischl, Alessandro Fiori, Stefano Santoni, Silva Cantele, Andrea Manzardo, Matteo Fiorino, Nicola Baronti, Serena Altavilla, Valerio Canè, Angelo Epifani, Enzo Cimino, Enrico Liverani, Ruben, Michael, Theodor e Zagor Camillas, Giovanni Imparato, Letizia Cesarini, Laura Loriga, Francesca Pizzo, Andrea Gerardi, Franco Naddei, Fabio Cinti, Cristopher Bacco, Andrea Pulcini, Paola Mirabella, Giuseppe Peveri, Federico Laini, Nicola Setti, Francesca Amati, Roberto Rettura, Antonio Tavoni, Davide Cristiani, Luca Di Mira, Enrico Pasini, Luca Torreggiani, Meike Clarelli, Valeria Sturba, Vincenzo Vasi, Marcello Petruzzi, Andrea Monachesi, Gianluca Sturmann, Marco Marzoli, Emanuela Russo e Raffaella Tenaglia.

Cento di questi giorni, W Gianni Rodari!

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1977: Frank Zappa rinasce ad Halloween

Oggi Frank Zappa avrebbe compiuto 77 anni. Chissà quanti altri album avrebbe firmato, oltre ai 62 in tre decenni scarsi di carriera (a cui sono seguite decine di opere postume) che definiscono il percorso unico di un genio capace di sgretolare le barriere tra generi e stili musicali e di usare la stessa furia iconoclasta per scagliarsi contro l’American way of life. Ma nella densa discografia del musicista spicca un anno privo – o quasi – di uscite, il 1977, che segna gli ultimi frangenti di un periodo creativo ricco di tensioni e difficoltà, ben testimoniato dai sei leggendari concerti di Halloween tenuti al Palladium di New York. Le registrazioni integrali dei live di quarant’anni fa, rimasterizzate a 24 bit, sono state pubblicate per la prima volta in una chiavetta USB a forma di candy bar con 158 file wav e booklet digitale, in una confezione che comprende anche maschera e costume da Frank Zappa: un’occasione unica per ascoltare sedici ore di musica che marcano un importante passaggio nell’imprevedibile e scintillante biografia artistica del musicista.

Per comprendere l’importanza del momento fotografato da Halloween 77 è bene tornare indietro di un paio di anni, fino al giugno del 1975, quando esce One Size Fits All: insieme al successivo Bongo Fury, pubblicato a ottobre, include le ultime incisioni con l’incarnazione delle Mothers (“of Invention” va e viene nella ragione sociale) che comprende tra gli altri Tom Fowler al basso, George Duke alle tastiere, Napoleon Murphy Brock al sax, nonché un ritrovato e spumeggiante Captain Beefheart. Proprio allora cominciano i problemi che costelleranno il biennio seguente, a cominciare dalla progressiva rottura con il manager Herb Cohen, che porta nel 1976 alla fine della DiscReet Records, con conseguenti cause incrociate e congelamenti di capitali. I live diventano l’unica vera fonte di guadagno e tra il 1975 e il 1977 Zappa e i suoi musicisti girano più volte Europa, Canada e Stati Uniti, toccando anche Giappone e Oceania. Inoltre c’è da gestire il master di un nuovo disco, Zoot Allures, che Zappa riduce da doppio a singolo e consegna direttamente alla Warner Brothers, ma non è tutto. Da anni Zappa è impegnato nella gestazione di canzoni che dovrebbero uscire sempre per la WB proprio nel 1977, e come consuetudine fanno già parte delle scalette dal vivo: l’opera è un ambizioso quadruplo LP e si intitola Läther.

La Warner Brothers, però, giudica troppo rischiosa la pubblicazione del lavoro e chiede a Zappa di suddividerlo e spezzettarlo. Il musicista si oppone: porta quindi i master agli stabilimenti della Phonogram, fa eseguire le prove di stampa nel formato originale quadruplo e sceglie come data di uscita il giorno di Halloween. Il momento è perfetto, perché proprio il 28, 29, 30 e 31 ottobre di quell’anno Zappa sarebbe tornato al Palladium di New York: ci era già stato nel dicembre del 1976, e da quei concerti aveva anche tratto un live, Zappa in New York, pubblicato dalla Discreet Record nei primi mesi del 1977, ma subito ritirato dalla Warner. L’etichetta si intromette anche nella relazione tra Zappa e la Phonogram, e rincara la dose comunicando l’intenzione di pubblicare il materiale del live e del quadruplo, smembrandolo e riadattandolo in cinque uscite, programmate tra il marzo del 1978 e l’inverno del 1979. Zappa è mortificato e furioso al punto da interrompere un rapporto – seppur limitato alla sola distribuzione – che durava da un decennio: intenta causa alla Warner, dando il via a una battaglia che lo vedrà vittorioso solo nei primi anni ’80. Nel frattempo fa quello che ha sempre saputo fare meglio: suona.

Il tour autunnale del 1977 comincia l’8 settembre a Tempe, Arizona, e si conclude alla fine dell’anno a Los Angeles. Zappa lascia a casa gli ottoni e si porta dietro una band che è un concentrato di tensione elettrica, espressione di un rock duro e progressivo, ma elastico al punto da allungarsi verso il jazz, l’avanguardia e il cabaret. Il veterano, per modo di dire, è Terry Bozzio, con lui da un paio d’anni: il batterista non è solo un valido partner dietro le pelli, ma anche un’ottima spalla per sketch e siparietti. Patrick O’Hearn accompagna Zappa al basso da un annetto, il percussionista Ed Mann neanche da sei mesi. I due tastieristi Peter Wolf e Tommy Mars hanno superato le audizioni poco prima dell’inizio dei live, insieme a un bravo chitarrista, dotato anche come cantante, che però (orrore!) non sa leggere la musica: Adrian Belew. Zappa gli insegnerà le canzoni nei fine settimana antecedenti l’inizio del tour, e (come scotto?) gli farà subire ogni tipo di angheria sul palco. “C’è bisogno di uno che si metta in testa un casco lampeggiante e si muova come un robot! Che ne dite di Adrian?”, ricorda il chitarrista nelle note di Halloween 77. All’epoca, con i suoi ventott’anni da compiere, è il membro più vecchio della band, Zappa escluso.

Halloween: il musicista californiano celebra da qualche anno la sua festa preferita al Felt Forum, un teatro newyorchese nel complesso del Madison Square Garden. Nel 1977 l’appuntamento si sposta negli spazi eleganti e storici del Palladium per sei concerti, due il 28 e 29 ottobre, uno il 30 e gran finale il 31, proprio nel giorno in cui sarebbe dovuto uscire Läther. Zappa decide non solo di fare registrare tutto dal fido Kerry McNabb, ma anche di riprendere le le serate, producendo il materiale che poi finirà in Baby Snakes, uscito nei cinema nel 1979. La scaletta dei primi quattro concerti è identica, ma ogni pezzo splende dell’urgenza e del giovanile nervosismo dei musicisti, a partire dal pezzo di apertura, “Peaches En Regalia”, interpretato in una versione più veloce e rutilante del solito: i cambi di ritmo, le modulazioni e le riprese dei temi sono impeccabili e, grazie al bel lavoro di rimasterizzazione, si apprezzano ancora di più le finezze timbriche e di arrangiamento apportate da ognuno. Il boogie sinistro e orrorifico di “The Torture Never Stops”, da Zoot Allures, sembra perfetto per la ricorrenza della vigilia di Ognissanti, ma si adatta bene anche al momento tormentato che sta attraversando Zappa, assillato da ex manager, avvocati, “giornalisti che si portano dietro le tipe alle interviste per potersele poi scopare più facilmente” e, ovviamente dalla Warner Bros.

L’etichetta è il bersaglio principale del musicista: in “Titties ‘N Beer” afferma che averci a che fare è come stare all’inferno, un paragone che lascia costernato il diavolo interpretato da Terry Bozzio. Il batterista è al centro di un altro noto duetto, “Punky’s Whips”, in cui racconta come sia stato sedotto e ingannato dall’immagine effeminata di Punky Meadows, frontman della glam band Angel. E se O’Hearn non si trattiene e accenna a “In-A-Gadda-Da-Vida” degli Iron Butterly quando parte una tirata anti-hippy, Adrian Belew è il protagonista assoluto di Flakes”, che Zappa introduce così: “Questa canzone parla di gente che non fa quello che dovrebbe. C’è una grande concentrazione di questi non-cittadini [in originale denizens, ndr] in California. Detto in parole povere, il problema è che tutti quelli che si trasferiscono in California lo fanno per ottenere l’assegno di disoccupazione, dell’assistenza sociale o entrambi”. Sempre nelle note di Halloween 77 è lo stesso chitarrista a ricordare come è nata la canzone: “Una notte ero nel seminterrato di Frank, mi stava facendo sentire una canzone che aveva in mente di insegnare alla band. Aveva una specie di cattivo retrogusto folk e, tanto per ridere, ho cominciato a cantarla alla Bob Dylan. Frank ha sogghignato: ‘Questo nel concerto lo mettiamo’”. L’imitazione di Belew è veramente spassosa, come lo sono i divertissement del periodo tra fine ’60 e inizio ’70 (con il raro ripescaggio di un singolo delle Mothers, “Big Leg Emma”) che si alternano alle ricercatezze di “Envelopes”, alla versione strumentale di “Coneheads” e alle lunghe improvvisazioni di “Wild Love”, comprese tra i venti minuti e la mezz’ora della serata di Halloween. Di fronte a questo circo musicale raffinato e controllatissimo, il pubblico sghignazza e si diverte sempre di più, viene invitato sul palco per essere irriso in gare di ballo sui ritmi di leggendaria difficoltà di “The Black Page #2”, gode di battute e sketch politicamente scorretti (ora e allora) e viene investito dalla potenza della doppietta finale, composta da “Camarillo Brillo” e da una trionfale “Muffin’ Man”.

Dopo questo “riscaldamento” lungo due giorni (e dodici ore di live, più altrettante di soundcheck), Zappa e i suoi possono osare di più: il pubblico è dalla loro parte, molti hanno comprato i biglietti per tutti i concerti, tanto che vengono riconosciuti e salutati dal palco. “Stink-Foot” e “The Poodle Lecture” aprono le danze del 30, in cui trovano posto la seconda esecuzione in assoluto della celebre parodia di Peter Frampton “I Have Been in You”, le première di “Dancin’ Fool” e “Jewish Princess”, un’insolita “King Kong”e il finale scatenato con “San Ber’dino”. L’ultima serata – proposta da sola in un triplo cd –  riprende le scalette precedenti, ma aumenta il livello dello spettacolo sul palco, come le sequenze live di Baby Snakes ben dimostrano. Tra spettatori presi a frustate e altri invitati a gareggiare nell’imitazione di Zappa stesso, torna sul palco il bassista delle Mothers of Invention Roy Estrada, e interpreta un personaggio che si eccita alla vista di una maschera di gomma nell’operistica “The Demise of the Imported Rubber Goods Mask”. Il finale con la strumentale “Black Napkins” è un’ulteriore celebrazione dell’arte chitarristica di Zappa e le tinte ancora più scure di “The Torture Never Stops” paiono risentire dell’approccio grandguignolesco e teatrale di Alice Cooper, fino a qualche anno prima sotto l’ala protettiva della Straight Records – fondata proprio da Zappa e Cohen – prima di finire sotto… Warner. A proposito di etichette: è proprio durante la serata di Halloween che il musicista californiano, oltre a consigliare di fare sempre il gesto delle corna quando si firma un contratto discografico, ovviamente per eliminare il malocchio, annuncia la nascita della Zappa Records, la più longeva delle creature discografiche partorite dal musicista. Ci vorrà quasi un anno e mezzo per vedere nei negozi il primogenito dell’etichetta, Sheik Yerbouti: tra i maggiori successi critici e commerciali di Zappa, il doppio è inciso insieme a questa nuova e giovane formazione e, pur includendo integralmente le registrazioni di “Jones Crusher” del 31 (un’altra splendida performance vocale di Adrian Belew) e la già citata “Jewish Princess”, contiene solo una parte delle novità suonate al Palladium in quei giorni del 1977. Le altre protagoniste delle scalette newyorchesi (comprese quelle del dicembre 1976, sempre al Palladium) sono proprio i brani di Läther, che – lo ricordiamo – doveva uscire proprio quel 31 di ottobre. Un paio di mesi dopo Zappa porta le prove di stampa Phonogram del quadruplo LP alla KROQ di Pasadena e, affinché gli ascoltatori della radio californiana non aspettino “da 3 a 5 anni per ascoltare la mia splendida musica”, li invita a registrare il suo nuovo disco, che trasmette per intero: dà così vita a una serie infinita di bootleg che alimenteranno il mito del disco “perduto”. Läther uscirà così come era stato pensato solo nel settembre del 1996, poco meno di tre anni dopo la morte di Frank Zappa.

Mantenere la media

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Siamo tra Natale e Capodanno, ed ecco l’inutile e tradizionale elenco dei concerti a cui ho assistito nel 2016. Sono 86, esattamente come l’anno scorso, nonostante una pausa estiva dovuti a infortuni immobilizzanti.
Qualche dato aggregato, che non fa mai male. I concerti sono stati visti per lo più a Bologna, con due succose trasferte: una per il Primavera Sound di Barcellona e una per il SXSW di Austin. Il locale che ho frequentato di più è stato il Locomotiv Club di Bologna, la band che ho visto di più sono stati i C+C=Maxigross. Insomma, eccoli qua, in ordine cronologico, tutti e 86 tra festival, showcase, arene enormi e piccolissimi club.

The Winstons, Covo Club, Bologna, 9 gennaio
Shaloma Locomotiva Orchestra, Teatro San Leonardo, Bologna, 15 gennaio
Aucan, Godblesscomputers, TPO, Bologna, 23 gennaio
Jacco Gardner, C+C=Maxigross, Covo Club, Bologna, 6 febbraio
Kaos, Viruz, Locomotiv Club, Bologna, 13 febbraio
Extraliscio, Palazzo Pepoli, Bologna, 18 febbraio
Mulatu Astakte, Locomotiv Club, Bologna, 20 febbraio
Adriano Viterbini, Egle Sommacal, Locomotiv Club, Bologna, 21 febbraio
Toxic Love, Palazzo Pepoli, Bologna, 25 febbraio
Iacampo, Palazzo Pepoli, Bologna, 10 marzo
The Jon Spencer Blues Explosion, Elli de Mon, Locomotiv Club, Bologna, 10 marzo
Diamanda Galas, Teatro Manzoni, Bologna, 11 marzo
Girls Names, Latitude, Austin, 15 marzo
Declan McKenna, Latitude, Austin, 15 marzo
Oscar, Latitude, Austin, 15 marzo
Pauw, Cedar St. Courtyard, Austin, 16 marzo
Joan Thiele, Numero 28, Austin, 16 marzo
White Denim, Radio Day Stage, Austin, 16 marzo
Iggy Pop, Noveller, The Moody Theater, Austin, 16 marzo
Sunflower Bean, Radio Day Stage, Austin, 17 marzo
Eleanor Friedberger, Clive Bar, Austin, 17 marzo
Petite Noir, 800 Congress, Austin, 17 marzo
Jack Garratt, Radio Day Stage, Austin, 18 marzo
Chvrches, Radio Day Stage, Austin, 18 marzo
Bombino, Radio Day Stage, Austin, 18 marzo
Bob Moses, Bud Light Factory, Austin, 18 marzo
Wahid Allan Faqir, Russian House, Austin, 18 marzo
Xixa, Luck Lounge, Austin, 19 marzo
Birthh, The Townsend, Austin, 19 marzo
Cypress Hill, McGarrah Jessee Rooftop, 19 marzo
Godblesscomputers, Palazzo Pepoli, Bologna, 24 marzo
Iosonouncane, Trees of Mint, Locomotiv Club , Bologna, 2 aprile
Black Mountain, Motorhomes, Locomotiv Club, Bologna, 5 aprile
Claudio Simonetti’s Goblin, Locomotiv Club, Bologna, 7 aprile
I Cani, Felpa, Locomotiv Club, Bologna, 13 aprile
C+C=Maxigross, Miles Cooper Seaton, Palazzo Pepoli, Bologna, 14 aprile
Protomartyr, Heathens, Covo Club, Bologna, 15 aprile
Des Moines, Zoo, Bologna, 17 aprile
Cesare Basile, Palazzo Pepoli, Bologna, 21 aprile
Nonkeen, Andrea Belfi, Teatro Antoniano, Bologna, 27 aprile
Kairos, Palazzo Pepoli, Bologna, 28 aprile
Teho Teardo, Blixa Bargeld, Locomotiv Club, Bologna, 5 maggio
Sophia, Covo Club, Bologna, 6 maggio
Motta, Locomotiv Club, 7 maggio
Birthh, Krano, Mikasa, Bologna, 19 maggio
Goat, Primavera Sound, Barcellona, 1 giugno
Suede, Primavera Sound, Barcellona, 1 giugno
Alessandro Cortini, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Andy Shauf, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Car Seat Headrest, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
C+C=Maxigross, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Floating Points, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
John Carpenter, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
LCD Soundsystem, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Ben Watt, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Selda Bağcan & Boom Bap, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Radiohead, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Holly Herndon, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
The Avalanches, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Matilde Davoli, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Altre di B, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Sycamore Age, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Brian Wilson performing Pet Sounds, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
PJ Harvey, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Julia Holter, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Moderat, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Sorge, Parco del Cavaticcio, Bologna, 15 giugno
Flavio Giurato, Locomotiv Club, Bologna, 18 settembre
The Winstons, Locomotiv Club, Bologna, 23 settembre
Federico Albanese, Locomotiv Club, Bologna, 28 settembre
Kill the Vultures, FreakOut Club, Bologna, 7 ottobre
White Denim, Covo Club, Bologna, 19 ottobre
Parquet Courts, Pill, Covo Club, Bologna, 22 ottobre
Paolo Spaccamonti, Spazio Labò, Bologna, 23 ottobre
Peter Murphy, Locomotiv Club, Bologna, 26 ottobre
C’mon Tigre racconta Toccafondo, Teatro Antoniano, Bologna, 27 ottobre
The Cure, Unipol Arena, Casalecchio di Reno, 29 ottobre
Tom Brosseau, Nero Factory, Bologna, 6 novembre
Makaya McCraven, Locomotiv Club, Bologna, 8 novembre
Vapors of Morphine, Splatterpink, Locomotiv Club, 11 novembre
Francesco Serra, Spazio Labò, Bologna, 13 novembre
Trio Bobo, Bravo Caffè, Bologna, 17 novembre
Tinariwen, Locomotiv Club, Bologna, 18 novembre
Cabeki, Nero Factory, Bologna, 4 dicembre
Flavio Giurato, L’Altro Spazio, Bologna, 14 dicembre
Wrongonyou, Persian Pelican, Locomotiv Club, 16 dicembre

Toccare il pubblico nel profondo e farlo viaggiare: intervista con i Black Mountain

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Un punto d’unione tra Pink Floyd e Black Sabbath: una definizione un po’ grossolana, ma efficace, per i Black Mountain, una band canadese che amo molto. Nonostante il revival psichedelico, spesso con sfumature stoner, sia onnipresente, e il gruppo non si dissoci da queste sonorità (anzi), la caratteristica di Stephen McBean e compagni è che, sin dall’esordio self-titled del 2005, hanno definito una loro personalità in maniera precisa e convincente. Il loro nuovo disco, IV, esce il primo di aprile sempre per Jagjaguwar e, di lì a pochi giorni, la band arriva in Italia per due concerti, a Bologna e Torino.

Oggi pomeriggio a Maps manderò in onda l’intervista realizzata con Amber Webber, in cui abbiamo sviscerato la genesi di un album validissimo, che mette insieme con sicurezza e controllo chitarre e spazio, glam e arrangiamenti orchestrali. Salite a bordo.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta, voi vivevate e suonavate insieme. Ora che non passate più tutto questo tempo tutti insieme il vostro modo di scrivere è cambiato?
In linea di massima, questo non ha cambiato tutto quanto. Steve ora vive a Los Angeles, ma comunque scrivevamo spesso separatamente e poi facevamo le prove e ci scambiavamo delle idee tutti insieme. Cioè, io, Steve, Jeremy o chiunque della band scriveva una canzone, poi talvolta registravamo una specie di demo e ce lo spedivamo. Poi, quando eravamo nel posto dove suoniamo, arrivavamo a un’idea della canzone e la arrangiavamo insieme. Quindi il processo è molto simile a com’è sempre stato.

L’album è sostenuto in parti uguali da chitarre e sintetizzatori: come avete usato l’elettronica in IV?
Jeremy, il nostro tastierista, ha un sacco di roba analogica, quindi forse non è il caso di parlare di elettronica, intesa nel senso moderno. Ma d’altro canto i Black Mountain non hanno mai voluto essere considerati una band di chitarre e basta. Amiamo gli spazi aperti che i synth possono fornire, un po’ come li intendevano i Pink Floyd: sono spazi bellissimi. Le band che hanno un suono sempre e solo incentrato sulle chitarre non mi piacciono: cioè, amo la chitarra, ma di più lo spazio. E inoltre è molto divertente cantare con quel tipo di spazio, piuttosto che avere sempre le chitarre che si lamentano…

Il titolo del disco ha a che fare con l’omonimo album dei Led Zeppelin o dobbiamo considerarlo una specie di self titled?
(ride) Quello che vorremmo fare è chiamare i dischi semplicemente 1, 2, 3, eccetera. Specialmente Jeremy ha letteralmente pregato la band di chiamare il disco IV. È una specie di omaggio… Ci sono un sacco di album classici che si intitolano semplicemente “4” in cifre. Quindi anche noi abbiamo deciso di stare sul classico, sul rock classico e di intitolarlo IV.

La traccia di apertura, nonché primo singolo, “Mothers of the Sun” prepara un’atmosfera che viene completamente sconvolta dal pezzo più rock and roll di tutto il disco, “Florian Saucer Attack”. Mi racconti qualcosa di questi primi due brani?
A dire il vero “Mothers of the Sun” è un pezzo vecchio intorno al quale abbiamo girato per anni, perché non aveva mai il giusto arrangiamento… Jeremy ha iniziato a suonarlo dal vivo da solista, come Sinoia Caves; una sera l’abbiamo sentito e gli abbiamo detto: “Amico, devi rimetterci le mani sopra!” L’ha fatto e ha iniziato a suonare giusto: un bel risultato per noi, visto che era un brano che ci penzolava di fronte al naso da tempo. E su “Florian Saucer Attack”… amo quella canzone, è super divertente, va dritta al punto, è un pezzo rock da ballare.

C’è un’altra traccia, “(Over and Over) The Chain” che ha in comune con quella di apertura la lunghezza e i timbri, ed è a sua volta collegata con il brano che chiude il disco, “Space to Bakersfield”. Come avete pensato alla scaletta?
Di solito non lavoriamo a un disco canzone per canzone: registriamo un sacco di brani e non tutti finiscono nell’album. Quelli che scegliamo sono quelli che raccontano una storia e che stanno bene con gli altri. Non so se quelli che citi si assomiglino, ma di certo evocano sentimenti simili.

Si può dire che ci sia un tema “spaziale” che affiora qua e là in tutto il disco, dal punto di vista musicale e testuale?
C’è sempre qualcosa di spaziale nei Black Mountain (ride). Noi stessi a volte fluttuiamo nello spazio… Comunque sì, certo, c’è… Mi piace pensare che i Black Mountain facciano musica attraverso la quale si può nuotare come se si fosse nello spazio, che diano la sensazione di essere legato a ogni tipo di pianeti, vita, eccetera. Se la nostra musica ti fa sentire così, è fantastico.

Uno dei tuoi grandi momenti in IV è in “Line Them Up”, dove brilli davvero. Raccontaci qualcosa del brano, che è – dal punto di vista musicale – il più tranquillo e dolce di tutto il disco.
“Line Them Up” è l’unica traccia del disco che ho scritto completamente da sola: è una canzoncina di cui ho continuato ad ascoltare il demo, pensando che avrei dovuta usarla in qualche modo. Così l’ho data ai ragazzi della band, a cui è piaciuta: l’abbiamo arrangiata inserendo un bridge, una sezione centrale strumentale, e così penso sia diventata una canzone dei Black Mountain, con la stessa sensibilità di ballate che abbiamo scritto in passato, e quindi ho pensato potesse andare bene per la band. È l’unico pezzo che ha un’orchestra, un arrangiamento d’archi nella parte centrale. E ci sono i corni, bellissimi. Sono felice del risultato: di quella canzone sono proprio orgogliosa.

“Cemetery Breeding” è una specie di versione adulta di un pezzo dark pop strappacuore per teenager: pur mantenendo la sua maturità, mi sembra che sia teneramente indulgente su ciò che accadde nel cimitero del titolo.
Ah, quella canzone! (ride) Ha una specie… Insomma, ti immagini questi due adolescenti che corrono in un cimitero e si amano, o qualcosa del genere. Magari c’è un elemento drammatico… Mi piace molto: è una delle canzoni più pop dell’album, divertente, ma allo stesso tempo triste e drammatica. Un gran pezzo. L’ha scritto Steve e non so esattamente cosa intendesse con i versi, ma è nato come un brano sobrio e in acustico e alla fine si è trasformato in qualcosa di pop.

Senti anche tu un pizzico di West Coast o un sapore californiano in “Crucify Me”?
Ah, davvero hai pensato a questa cosa? Non ci ho mai riflettuto ma in fondo Steve vive a Los Angeles, quindi magari c’è un po’ del sole della California, e il deserto si è fatto strada tra le canzoni qua e là.

Parliamo dell’aspetto visivo del vostro ultimo lavoro, il video di “Mothers of the Sun” e la copertina del disco.
La copertina è tutta opera di Jeremy, che si è sempre occupato di tutto l’aspetto visivo della band: c’è la sua mente bizzarra al lavoro in quel campo! Amo la sua arte e non mi pongo troppe domande su quello che fa: è molto astratto, usa il collage… Per qualche motivo noi Black Mountain parliamo un sacco del Concorde, l’aeroplano: in testa avevamo l’idea di metterlo sulla copertina del disco. E Jeremy ha messo un Concorde in copertina: fantastico! E poi ha aggiunto elementi mistici, altre cose che non sai bene cosa siano… Non si capisce che stia succedendo: c’è una sensazione di mistero, è figo. Il video per “Mothers of the Sun” è stato realizzato da due ragazzi di Vancouver: li abbiamo lasciati fare e se ne sono venuti fuori con questa specie di ragazzini psichedelici… Hanno elaborato un’idea complessa: neanche io sono sicura davvero del reale significato del video. Ti dovrebbe dare l’idea di portarti in un’altra dimensione, che è sempre una figata… Insomma, un video bizzarro che è anche un trip: funziona bene con la canzone.

Qual è il tuo più grande desiderio in campo musicale?
Quello che davvero voglio è realizzare bei dischi, suonare dal vivo ed essere fonte d’ispirazione per il pubblico… o almeno fare viaggiare la gente mentre suoniamo. Non si vedono spesso concerti in cui sei toccato nel profondo, o nei quali la band dimostri un certo grado di innovazione. Ecco, questo è ciò che vorrei essere in grado di dare al pubblico: qualcosa che li tocchi e li faccia stare bene.

Di |2022-01-19T12:47:47+01:0025 Marzo 2016|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , |0 Commenti

Un giorno su quattro

concerti

Come l’anno scorso, rinnovo l’inutile tradizione di elencare i concerti visti in dodici mesi. Come si fa di solito, ecco qualche dato aggregato. Le band che ho visto di più, tre volte ciascuna, sono state Verdena, Iosonouncane e Pecori Greg. Sono stato 21 volte al Locomotiv e 17 tra Covo e Bolognetti. Quasi tutti i concerti sono stati visti a Bologna, a parte l’infilata del Primavera Sound e una trasferta romana. Insomma: ecco gli 86 concerti visti nel 2015.

Cymbals Eat Guitars, Covo Club, Bologna, 16 gennaio
Paolo Benvegnù, Matteo Toni, Locomotiv Club, Bologna, 17 gennaio
Giovanni Succi, Pristine Mood, FreakOut Club, Bologna, 22 gennaio
C’Mon Tigre, TPO, Bologna, 7 febbraio
Orlando Julius & the Heliocentrics, Locomotiv Club, Bologna, 13 febbraio
Bud Spencer Blues Explosion, Roberto Angelini, Teatro Quirinetta, Roma, 20 febbraio
Curtis Harding, New Colour, Covo Club, Bologna, 27 febbraio
Post-CSI, Locomotiv Club, Bologna, 28 febbraio
Paus, Locomotiv Club, Bologna, 5 marzo
Pond, Baseball Greg, Covo Club, Bologna, 6 marzo
Ariel Pink, Larry Gus, Locomotiv Club, Bologna, 7 marzo
Verdena, Jennifer Gentle, Estragon, Bologna, 10 marzo
Egle Sommacal, AtelierSi, Bologna, 15 marzo
Melampus, Kisses from Mars, Covo Club, Bologna, 20 marzo
Gazebo Penguins, Delta Sleep, Valerian Swing, Covo Club, Bologna, 21 marzo
Cesare Basile, TPO, Bologna, 9 aprile
Tubax, After Crash, Locomotiv Club, Bologna, 10 aprile
Godspeed You! Black Emperor, Carla Bozulich, Estragon, 11 aprile
Beatrice Antolini, Palazzo Pepoli, Bologna, 16 aprile
A Place to Bury Strangers, Rare Blossom, Romare, Locomotiv Club, Bologna, 17 aprile
Ghostpoet, TPO, Bologna, 18 aprile
Pecori Greg, FreakOut Club, Bologna, 24 aprile
Sleaford Mods, Covo Club, Bologna, 2 maggio
Alessio Bondì, Pane e Panelle, Bologna, 4 maggio
Nils Frahm, Dawn of Midi, Locomotiv Club, Bologna, 4 maggio
Suz Trio, Palazzo Pepoli, Bologna, 21 maggio
Shellac, Uzeda, Locomotiv Club, Bologna, 26 maggio
The Shalalalas, Primavera Sound, Barcellona, 28 maggio
The Cheatahs, Primavera Sound, Barcellona, 28 maggio
Ought, Primavera Sound, Barcellona, 28 maggio
Mikal Cronin, Primavera Sound, Barcellona, 28 maggio
Spiritualized, Primavera Sound, Barcellona, 28 maggio
The Black Lips, Primavera Sound, Barcellona, 28 maggio
James Blake, Primavera Sound, Barcellona, 28 maggio
José González, Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
Tobias Jesso Jr., Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
Sleater-Kinney, Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
Run the Jewels, Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
alt-J, Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
Jon Hopkins, Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
Dan Deacon, Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
American Football, Primavera Sound, Barcellona, 29 maggio
Tori Amos, Primavera Sound, Barcellona, 30 maggio
Torres, Primavera Sound, Barcellona, 30 maggio
Unknown Mortal Orchestra, Primavera Sound, Barcellona, 30 maggio
Thee Oh Sees, Primavera Sound, Barcellona, 30 maggio
Hookworms, Primavera Sound, Barcellona, 30 maggio
Caribou, Primavera Sound, Barcellona, 30 maggio
Petrina, Palazzo Pepoli, Bologna, 4 giugno
Sun Kil Moon, Cortile del Palazzo Estense, Ferrara, 7 giugno
Wow, Parco del Cavaticcio, Bologna, 8 giugno
Iosonouncane, Dino Fumaretto, Pecori Greg, Palazzo Pepoli, 18 giugno
Soak, Bolognetti Rocks, Bologna, 18 giugno
The Fuzztones, BOtanique, Bologna, 25 giugno
C’Mon Tigre, Bolognetti Rocks, Bologna, 26 giugno
Fast Animals and Slow Kids, Bolognetti Rock, Bologna, 27 giugno
Iosonouncane, Bolognetti Rocks, Bologna, 2 luglio
Badly Drawn Boys, Eaves, Bolognetti Rocks, Bologna, 9 luglio
Neneh Cherry, Bolognetti Rocks, Bologna, 10 luglio
Blonde Redhead, BOtanique, Bologna, 13 luglio
Verdena, Iosonouncane, Piazza Castello, Ferrara, 15 luglio
A Toys Orchestra, BOtanique, Bologna, 17 luglio
Capra, Bolognetti Rocks, Bologna, 18 luglio
Cold Specks, Bolognetti Rocks, Bologna, 23 luglio
Tony Allen, Locomotiv Club, Bologna, 11 settembre
ESG, Locomotiv Club, Bologna, 28 settembre
The Melvins, Big Business, Locomotiv Club, Bologna, 30 settembre
Capibara, roBOT Festival, Bologna, 9 ottobre
Godblesscomputers, roBOT Festival, Bologna, 9 ottobre
Scisma, Fabio Cinti, Locomotiv Club, Bologna, 10 ottobre
US Girls, Covo Club, Bologna, 16 ottobre
Oh Land, Vera Di Lecce, Locomotiv Club, Bologna, 22 ottobre
Ofeliadorme, Dino Fumaretto, TPO, Bologna, 24 ottobre
Bachi da Pietra, Malascena, Locomotiv Club, Bologna, 28 ottobre
Father John Misty, Anna B. Savage, Locomotiv Club, Bologna, 1 novembre
Verdena, Estragon, Bologna, 6 novembre
Destroyer, Covo Club, Bologna, 7 novembre
Kamasi Washington, Locomotiv Club, Bologna, 9 novembre
Christan Scott Sextet, Bravo Caffè, Bologna, 12 novembre
C+C=Maxigross, Pecori Greg, Covo Club, 14 novembre
Calibro 35, OoopopoiooO, Locomotiv Club, 20 novembre
Adriano Viterbini, SEMM, Bologna, 2 dicembre
Iosonouncane, Locomotiv Club, Bologna, 3 dicembre
Os Mutantes, Locomotiv Club, Bologna, 5 dicembre
Mimosa, Cortile Cafè, Bologna, 11 dicembre
Tubax, Three in One Gentleman Suit, Locomotiv Club, 19 dicembre

Neneh Cherry: la libertà è oggi

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“Seven Seconds”? Sì, va bene. Ma la canzone più famosa interpretata da Neneh Cherry insieme al fratellastro Eagle Eye è un granello nella vastità del patrimonio musicale della figlia(stra) del grande trombettista Don, della giovane post punk frontwoman dei Rip, Rig & Panic, di un’artista che si è continuamente messa in discussione flirtando con ogni genere musicale e mettendo in primo piano, sempre, “l’espressione di ciò che sono”, come mi ha detto nell’intervista che potete leggere qua sotto, ascoltare sul sito della radio e sentire in onda oggi alle 16, durante l’ultima puntata di Maps. Ma la chiacchierata con la splendida cinquantenne è cominciata con le sue scuse, ripetute più volte, per il ritardo con cui ha risposto al telefono. E si è conclusa con svariati “tesoro” e ringraziamenti sinceri. Senza contare i grazie che potete leggere qua sotto. Insomma, la Cherry non è solo una musicista rara, ma anche una persona speciale e pare speciale il rapporto con Bologna. “Oh sì, ci sono stata… Quand’era… Mi sa che è passato un po’ troppo tempo perché mi ricordi bene. Credo sia stato quando l’Italia ha vinto la Coppa del Mondo di calcio, quando può essere stato… Nell’82? Ero proprio a Bologna con i Rip Rig & Panic e con mio padre. È stato fantastico: tutta la città sembrava morta, tutto era chiuso e si potevano sentire le persone a casa che guardavano la partita. Al fischio finale tutti si sono riversati per strada ed è stato il delirio.”

Mi sa che si è verificato lo stesso quando abbiamo vinto l’ultima Coppa del Mondo…
Lo immagino… Be’, insomma, io c’ero, ero a Bologna!

Incredibile… Parliamo dell’ultimo album: è stato uno dei nostri dischi della settimana… un lavoro bellissimo che abbiamo amato molto…
Che bello! Grazie mille! Queste sono davvero le cose che danno senso alle mie giornate. Grazie.

Che cosa ti ha spinto a farlo?
Be’, penso che ogni tanto sia la vita che ti spinge fino al limite e l’unico modo che conosco per risolvere alcune questioni della mia vita è essere creativa: ed è venuto fuori Blank Project. Mia madre è morta, quand’è stato?, tre anni prima che il disco uscisse, anzi, prima che lo registrassimo. Ho iniziato a scrivere come una specie di terapia, con un po’ di disperazione, per provare a uscire da un momento difficile. Ma è stata un’arma a doppio taglio: da un lato una sorta di terapia, per uscire da un periodo buio, ma anche un modo per ricordare e celebrare nuovamente la vita. Quindi penso che allo stesso modo ci siano due lati nel disco: intensità e imbarazzo, insieme a una parte più pesante, per rimettere insieme i pezzi, quelli del lato più bizzarro e divertente della vita.

Non è rischioso collegare canzoni che suonerai, suonerai e suonerai ancora a un dolore tale?
Per me la creatività ha sempre a che fare con l’espressione e con ciò che sono. Quando si ascolta Blank Project, probabilmente si sente che ha molto a che fare con il tempo in cui è stato prodotto, ma le canzoni, per quanto siano legate a un periodo, cambiano sempre. Magari certe sono molto significative rispetto a un momento definito, ma per me sono sempre cangianti, e hanno una vita propria, raccontano la loro storia. Se pensi a Blank Project, anche se le canzoni sono legate al momento in cui mia madre se n’è andata e cose simili, penso che la maggior parte non siano semplicemente biografiche. Non so se mi capisci… Insomma, cerco sempre di non scrivere solo di me stessa, anche se uso le mie emozioni. Mi segui? Sono una specie di trampolino, ma cerco di immaginarmi come fossi un’altra persona, come se prendessi in prestito altre vite per metterle nelle canzoni. Fare il disco è stato un sollievo, mi ha riportato in vita e anche se ci sono delle parti di canzoni che sono malinconiche o tristi, il processo di produzione mi ha reso felice.

Un processo che è stato molto breve, durato solo cinque giorni. Come hai coinvolto i collaboratori?
Innanzitutto ho lavorato con Cameron, mio marito: lo faccio da tempo. C’erano poche persone coinvolte nella fase di scrittura, poi abbiamo passato le canzoni ai Rocketnumbernine, che sono un duo, Ben e Tom Page. Sono in due e possono suonare come fossero effettivamente due persone, ma anche come se fossero in sei. È interessante, perché sebbene siano un duo elettronico live, nulla è programmato, suonano tutto dal vivo. La collaborazione insomma è andata nella direzione che volevo: musica elettronica, ma suonata in modo sperimentale. Insomma: il disco è cominciato tra me e Cameron e poi è cresciuto con i due ragazzi che hanno portato il suono giusto e la forza alla musica, dando il via alla produzione e al viaggio che si è concluso in cinque giorni, con la chiusura del disco. Prima di andare in studio a registrarlo, abbiamo provato le canzoni moltissimo, in modo tale che, una volta in studio, abbiamo avuto la possibilità, semplicemente, di lasciarci andare, di suonare le canzoni senza pensarci su troppo. Kieran Hebden, Four Tet, che ha prodotto il disco, aveva le idee molto chiare: “Faremo questa canzone, ci metteremo insieme in una stanza, e suoneremo insieme, senza sovraregistrazioni, aggiustamenti e cose simili”. E avevamo solo una settimana, cinque giorni per fare il disco: era tutto il tempo che Kieran aveva a disposizione. Quindi ci siamo detti: “Bene, dobbiamo chiudere due canzoni al giorno”. Ed è quello che abbiamo fatto! Era il modo giusto per produrre il disco, e anche il modo che ha di fare Kieran ci ha rilassati, ci siamo fidati di lui e delle sue opinioni e ciò ci ha permesso di essere sciolti, di seguire il nostro istinto e il cammino che ha tracciato. Un viaggio interessante, collaborativo in modo naturale: con i Rocketnumbernine siamo vicinissimi, c’è intesa molto forte tra tutti noi.

Oltre ai nomi che hai fatto, nel disco c’è anche Robyn: sei aggiornatissima sul mondo musicale! Sei un’ascoltatrice vorace, ti stimolano le novità, ascolti dischi compulsivamente?
Diciamo che a volte mi piace molto ascoltare bella musica e c’è musica nuova letteralmente ogni giorno, in ogni ora della giornata, specialmente grazie alla rete. Ci sono momenti in cui sto bene, in cui mi piace riempirmi le orecchie di musica; a volte capita che per settimane non ascolti nulla ed ecco che mi perdo una ventina di cose. Penso che la musica nuova sia importante, ma amo tantissimo anche i classici: insomma, ascolto cose diverse. Tuttavia musica nuova vuol dire nuove energie, diventa fonte di ispirazione. Ho ascoltato proprio oggi questa nuova rapper, Tink, davvero meravigliosa: l’ha prodotta Timbaland, ha un paio di pezzi davvero belli.

C’è qualcuno che ti passa la musica? Tuo marito o qualcuno di cui ti fidi, che magari quando ti passa un link lo apri senza indugi?
Sì, dietro l’angolo di casa c’è un negozio di dischi fantastico che si chiama Honest Johns: è sopravvissuto a tanti alti e bassi… Vendono vinili, musica africana, jazz… un gran negozio. E c’è un ragazzo che lavora con me, Phil, il figlio di Sean Oliver, il bassista dei Rip Rig & Panic: è un tipo davvero in gamba, a volte mettiamo i dischi insieme e mi passa un sacco di musica. Sa quali sono i miei gusti e mi dice “ascolta questo, ascolta quest’altro”… E poi… Be’, ci sono i miei figli ai quali rubo un sacco di musica!

Hai avuto una vita avventurosa, movimentata, anche musicalmente parlando. Ascolti mai i tuoi vecchi album? Cosa provi?
Mica così spesso! A volte mi dico: “Oddio, oddio che roba…”, altre volte sono sorpresa, ma la sfida è sempre quella che deve arrivare. Ciò che farò mi interessa di più rispetto a ciò che ho già fatto. Se ascolto cose vecchie è perché capita, del tutto casualmente, oppure perché mi devo ricordare una canzone che devo cantare, fare dal vivo… Capisci? A volte mi dico “Oh, ma è meglio di quel che pensassi” (ride), altre volte sono sorpresa… Ma vedi, di solito guardo avanti e, quando ascolto musica, è di altri, non la mia. Se capita, c’è una ragione… Ed è interessante perché da un lato suona molto familiare, è ovvio, l’ho registrata io quella musica, fa parte di me; d’altro canto è interessante perché è un lato di me dal quale mi sono separata ed è quindi andare altrove, in un altro tempo che però è quello che mi ha condotta fino a qua, al presente che viviamo ora. La cosa bella è che se mi guardo ora riesco a percepire finalmente un pizzico di libertà, un’apertura che ho sempre cercato, sai. In un certo senso mi sento come se avessi appena iniziato (ride): è bellissimo provare oggi questa sensazione di novità.

Che live vedremo a Bologna? Chi suonerà con te e come sarà composta la scaletta, considerando il tuo vastissimo repertorio?
Sarò con Rocketnumbernine e faremo per lo più le canzoni di Blank Project e poi faremo qualche classico, se avremo tempo, come “Manchild” e “Woman”. Sarà bello, perché abbiamo avuto bisogno di focalizzarci su Blank Project per definire il nostro stile in maniera unitaria, ma poi inserire in scaletta alcuni brani vecchi ha decisamente funzionato. Poi chissà: stiamo anche lavorando a dei pezzi nuovi e magari ne faremo uno dal vivo… È una scaletta piuttosto potente… Ci sono anche pezzi più calmi, ma se tutto andrà bene ci sarà una gran forza sul palco… È come un viaggio, la nostra musica è cresciuta col tempo e, paragonata a quella che puoi ascoltare su disco, è più piena e l’energia è diversa, nel senso migliore del termine. E siamo solo in tre: io, Ben al sintetizzatore e sequencer, e Tom, suo fratello, alla batteria.

Torres: una musicista in fuga, tra musica, Dio e marijuana

torres

Lo ammetto senza problemi: il primo disco di TORRES non mi aveva detto molto e non mi dice moltissimo ancora adesso. Ho trovato Sprinter decisamente più interessante e maturo. E ci mancherebbe: Mackenzie Scott è del 1991, è salutare che un debutto sia, diciamo, incerto, e che la crescente maturità si mostri con il tempo. La vera sorpresa, però, è stato conoscere la musicista di persona nello scorso Primavera Sound di Barcellona. Nella mezz’ora passata insieme mi è parso di avere colto un giovane talento in fuga da tutto ciò che l’ha formata, opprimendola, dal punto di vista politico e religioso: e probabilmente non solo in quegli ambiti. Quando mi parlava di Rob Ellis, produttore di Sprinter, aveva gli occhi che brillavano; quando ha nominato la marijuana ha ridacchiato come un’adolescente colta con le mani nella bustina. E quando ha parlato di Dio, del suo Dio, lontano da quello imposto da riti e rituali, si è illuminata. In conclusione: è stata una delle interviste più intime e intense che abbia mai fatto. La potete leggere qua, ascoltare sul sito della radio o ascoltarla a Maps oggi pomeriggio intorno alle 16.

Vorrei innanzitutto parlare del suono del nuovo disco: è differente dall’esordio, per quanto ci siano dei punti in comune. Qual è stato il ruolo del produttore Rob Ellis, com’è andata con lui?
Gli ho mandato una mail dopo avere registrato le versioni demo delle canzoni. Ero alla ricerca di un produttore che mi aiutasse a registrare l’album: l’ho contattato, gli ho mandato i demo e gli ho chiesto se potesse darmi una mano in qualche modo, se avesse un po’ di tempo per me. Lui ha acconsentito e, nei due mesi successivi, abbiamo parlato della preproduzione su Skype, perché vive nel Dorset, in Inghilterra, discutendo del disco, del suono che avevo in mente. È cominciato tutto così.

All’album ha lavorato anche Adrian Utley dei Portishead: mi pare che il disco abbia un tocco decisamente britannico…
Sì, sì, è vero!

Era qualcosa che volevi oppure è semplicemente capitato?
No, io volevo lavorare con Rob, siamo amici da un paio di anni, è uno dei pochi produttori che conosco. Sapevo anche che è un batterista e volevo che suonasse la batteria nell’album. Ma non pensavo avremmo registrato in Inghilterra, all’inizio credevo che sarebbe venuto lui negli Stati Uniti. Alla fine sono andata io là e lui ha chiesto a Adrian e altri amici se volessero suonare anche loro sul disco. È stata una bella sorpresa.

Accidenti! Quindi sei entrata in studio e hai trovato là Adrian Utley?
No, no. Sono arrivata in Inghilterra e Rob mi fa: “Ho chiesto a un po’ di amici di suonare nel disco. Ci sarà Ade, Olly…”. Al che gli ho detto: “Ma chi è Ade?”, e lui “Oh, è Adrian Utley!”. Con lui a dire il vero abbiamo registrato proprio nell’ultimo giorno in cui ero là. Siamo andati a Bristol nel suo studio e Adrian ha fatto qualche chitarra…

Ti brillano gli occhi ancora oggi, mentre me lo racconti.
Oh sì, è stato un sogno!

Uno dei temi principali del disco è la religione: ho letto qualcosa sulla tua vita e mi pare che il tuo rapporto con la religione abbia sia dei pro che dei contro. Ti va di parlarmene?
Sono cresciuta nella Chiesa Battista: era tutto ciò che conoscevo. La scuola che ho frequentato fino a quando avevo 18 anni, era una scuola cristiana presbiteriana. Sono stata indottrinata per bene, ma a questo punto della mia vita il mio rapporto con la religione… Be’, è molto diverso da quello che avevo allora. Non vado più in chiesa, ma posso dire che la mia fede è migliore di prima, si è evoluta in una forma molto più personale e ne sono stata felice. A dire il vero non ne parlo molto. Invece di andare in chiesa di domenica, agitando le mani di fronte a tutti e mettendo su uno spettacolo, prego in privato.

Ti dispiace se ne parliamo?
No, no, assolutamente.

Allora ti chiedo quale sia la differenza tra il Dio nel quale credevi anni fa e quello in cui credi oggi.
In realtà è lo stesso Dio: la differenza è che le persone per tutta la vita, per la maggior parte della mia vita, mi hanno insegnato delle cose sul Dio che adoravo che non credo fossero giuste. Il Dio che ho imparato a conoscere mentre crescevo era un Dio rabbioso, che condannava, che condannava teoricamente tutti… Sono le persone che mi hanno incasinato, che hanno danneggiato il rapporto che potevo avere allora con Dio. Ma ora ho posto una distanza tra me e queste persone che hanno rovinato tutto, sto riscoprendo Dio. Ed è grande.

Nel disco parli molto di te e di come stai cambiando: sei molto giovane e si cambia molto quando si è giovani. Parli di una “nuova pelle per la quale moriresti” e di umori cangianti. Ci sono delle parti diaristiche, come quando dici esplicitamente “farò 23 anni a gennaio”. Cosa è stato per te mettere nero su bianco queste parole e cos’è cantarle ogni sera di fronte a degli sconosciuti?
A dire il vero trovo che i live abbiano un potere quasi lenitivo: è stato molto più difficile all’inizio scrivere le parole che cantarle. La parte più dura è stata metterle su carta e pubblicarle. Ora che faccio i miei concerti e canto le canzoni dal vivo è come se questi versi siano già stati liberati e appartengano a tutti. Le performance non sono più su di me, quindi suonare le canzoni è facile e perfino divertente, proprio perché non parlano solo di me.

Sono incuriosito anche dal tuo rapporto con la natura e col mito. È sorprendente, alla fine di un disco spesso duro, sentire il cinguettio degli uccellini, o scoprire che in “A Proper Polish Welcome” ci sono riferimenti diretti alla mitologia. Come combini questi elementi con la religione di cui abbiamo appena parlato? Mi sembra sia una questione molto più complessa di quanto appaia a un primo ascolto.
Grazie! Dunque… Be’… Sono stata nuovamente ossessionata dalla natura negli ultimi due o tre anni. In parte ciò è dovuto alla marijuana, ma diciamo che per alcuni versi sono tornata bambina nell’accezione migliore del termine: sto riscoprendo un sacco di cose che davo per scontate. Ho recuperato il senso di meraviglia. Insomma, deriva un po’ da questo, un po’ dal fatto che ho riletto alcuni testi con i quali sono cresciuta. Conoscevo la storia di Adamo ed Eva e del Giardino dell’Eden, quella di Noè e della sua arca: sono una specie di parabole che, negli anni, si sono annacquate. Le ho riprese in mano e le ho rilette: sono terrificanti e maestose e ho provato a leggerle nella maniera più obbiettiva possibile, dal punto di vista di chi non abbia mai conosciuto queste storie. Si è venuto a creare un misticismo, la natura è diventata mistica ai miei occhi e ho voluto mettere tutto ciò nelle canzoni.

C’è un pezzo che mi ha davvero colpito, “Cowboy Guilt”, dove parli esplicitamente del tuo Paese. Si tratta di un lato politico del tuo disco, qualcosa che magari verrà sviluppato in futuro?
Non so se esplorerò in futuro questo lato politico. Se c’è una canzone politica nel disco, be’, è proprio quella. È molto ironica, va presa così, ma… Insomma, sono cresciuta nel profondo Sud del Paese, quello che ha celebrato George W. Bush, e la canzone parla del mio trasferimento a Nashville, nel Tennessee, che è stata la prima volta per me lontano da casa. Ho cominciato a bere whisky, ho trovato per la prima volta amici che pensavano in maniera molto diversa e che avevano idee politiche assai differenti da quelle con le quali sono cresciuta. La canzone, insomma, ci vede prendere in giro l’ambiente politico nel quale siamo stati allevati. Insomma, si ride per non piangere! (ride).

Mi pare che tu abbia iniziato una specie di nuova vita, ma ricordi quando è uscito il tuo primo disco? Sei letteralmente esplosa, tutti i giornalisti parlavano di questa Torres, ci si chiedeva: “Ma chi è questa ragazza?”. Che ricordi hai di quel periodo?
È strano, sai, perché ora tutto sembra relativo, non sono davvero cosciente di ciò che la stampa dice di me… All’epoca semplicemente sapevo di dover fare più concerti, più viaggi: tutto era molto eccitante. In quel periodo pensavo che avrei avuto delle royalties, che avrei alloggiato in hotel splendidi… ma mi è capitato anche di suonare in locali che non avevano nemmeno il bagno. Quando sono in tour mi succede anche di starmene seduta in furgone per dieci ore di fila, quando ci spostiamo da uno Stato all’altro. È strano: per certi versi è fantastico, ma per altri, per tanti altri mi sento davvero come se avessi appena cominciato, come se non avessi nemmeno grattato la superficie della cosa.

Pensi che tornerai prima o poi a casa, nei luoghi da dove provieni? E non intendo solo i luoghi geografici, ma anche dello spirito. Te lo chiedo perché mi sembra tu abbia tracciato un confine ben preciso tra quello che eri e quello che sei ora. Uno degli insegnamenti della religione cristiana è di perdonare e di stare insieme. Che ne pensi?
La scrittura del disco è stata, per me, un processo di perdono: è una delle ragioni principali per cui l’ho prodotto. Avevo bisogno di perdonare tante persone, me compresa, per tutta una serie di problemi emotivi e spirituali che ho provocato ad altri quando ero più giovane. C’è un grande bisogno di perdono nel’album, l’ho messo brani che lo compongono. È difficile dire che succederà: tutti dicono che prima o poi si ritorna alle proprie radici, a casa, in un modo o nell’altro. Quindi, se lo intendiamo nel senso letterale, è molto probabile che io “ritorni da dove provengo”, che torni in chiesa, ma sarà a modo mio, stavolta. E solo se lo riterrò giusto. Ho tracciato una linea netta, sì: ci sono sistemi politici e sociali dei quali non vorrò mai più fare parte, e lo so con certezza. Non so però che succederà.

L’ultima domanda, dopo tutti questi discorsi profondi, è più leggera: mi dici quali sono i tuoi cinque dischi dell’isola deserta?
(ride) Ok. Allora: Strange Mercy di St Vincent, sempre. Another Green World di Brian Eno. Poi… Rumours dei Fleetwood Mac. E… aspetta, posso controllare il mio telefono? Non sono sicura di che dire, non mi ricordo! Ah sì! In Utero dei Nirvana e poi… Accidenti… Sì: Live at Folsom Prison di Johnny Cash.

Di |2015-06-23T11:14:34+02:0023 Giugno 2015|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You, Things We Said Today|0 Commenti

Uno ogni tre giorni

2014-04-12 01.39.14

Niente classifiche di fine anno, ma un mero elenco, come ho fatto anche l’anno scorso. Un po’ per fare il conto, un po’ per fissare nomi e date, un po’ per non ripercorrere con la memoria dodici mesi di concerti dal vivo. Nonostante i miei propositi, sono stati 114, tredici in più dell’anno scorso, ma devo dire che non tutti sono stati visti dall’inizio alla fine: pennachianamente mi sono concesso di voltare le spalle al palco, qualche volta. Senza offesa per i musicisti.Qualche dato e statistica, un po’ a caso: li ho visti per lo più a Bologna, con qualche scappata extra moenia e anche fuori dalla nazione. Il locale dove sono stato di più è il Locomotiv Club, dove ho passato ben 35 serate (considerand0 che è aperto per nove mesi, sono stato là una volta alla settimana, di media). Le band che ho visto di più, tre volte ciascuna, sono state Bud Spencer Blues Explosion e C+C=Maxigross. I festival sono stati quattro (Primavera Sound, Woodworm, Unaltrofestival, Rock in Idro), ma con diversissime assiduità.
E quindi via con l’elenco, inutile come quasi tutti gli elenchi.

Hobocombo, Der Maurer e Sebastiano De Gennaro, Locomotiv Club, Bologna, 15 gennaio
Succi, Locomotiv Club, Bologna, 16 gennaio
Simona Gretchen, Locomotiv Club, Bologna, 17 gennaio
Geoff Farina, Father Murphy, Majirelle, Freakout Club, Bologna, 24 gennaio
Fine Before You Came, Lantern, Covo Club, Bologna, 25 gennaio
Glenn Branca, Freakout Club, Bologna, 7 febbraio
Bombino, Above the Tree & Ensemble Du Beat, Locomotiv Club, 13 febbraio
Apes on Tapes, Sin/Cos, Sixth Minor, TPO, Bologna, 15 febbraio
Bill Callahan, Circuit Des Yeux, Teatro Antoniano, Bologna, 18 febbraio
Fuzz Orchestra, Meteor, Uochi Toki, Locomotiv Club, Bologna, 20 febbraio
Incident on South Street, Arteria, Bologna, 21 febbraio
Depeche Mode, Unipol Arena, Casalecchio di Reno, 22 febbraio
Trentemoeller, Estragon, Bologna, 24 febbraio
Savages, A Dead Forest Index, Locomotiv Club, Bologna, 26 febbraio
Fanfarlo, Lilies on Mars, Locomotiv Club, Bologna, 3 marzo
Non voglio che Clara, Nevica su Quattropuntozero, Locomotiv Club, Bologna, 6 marzo
Francesco Tristano, Locomotiv Club, Bologna, 7 marzo
La Tarma, Circolo Angolo B, Bologna, 8 marzo
Wu Ming Contingent, Locomotiv Club, Bologna, 13 marzo
Woodworm Festival (Bachi da Pietra, The Crazy Crazy World of Mr Rubik, Umberto Maria Giardini, Julie’s Haircut, Bologna Violenta, Fast Animals and Slow Kids), Locomotiv Club, Bologna, 14 marzo
Public Service Broadcasting, Covo Club, Bologna, 22 marzo
The Sleeping Tree, Quarantatré Barra Due, Bologna, 23 marzo
Michael Gira, Locomotiv Club, Bologna, 27 marzo
Massimo Volume, Be My Delay, Locomotiv Club, Bologna, 28 marzo
Mogwai, Estragon, Bologna, 30 marzo
Tuxedomoon, DOM La Cupola del Pilastro, Bologna, 2 aprile
Levante, Iotatola, Locomotiv Club, Bologna, 3 aprile
Splatterpink, Locomotiv Club, Bologna, 4 aprile
His Clancyness, Melampus, Havah, Own Boo, Locomotiv Club, Bologna, 5 aprile
Perturbazione, Nada & the Rabbits, Locomotiv Club, Bologna, 10 aprile
Bud Spencer Blues Explosion, Egle Sommacal, Locomotiv Club, Bologna, 11 aprile
Drenge, Covo Club, Bologna, 12 aprile
Musica per Bambini, Sit In Music, Bamboo, TPO, Bologna, 18 aprile
London Symphony Orchestra performing Mahler’s 7th Symphony, Barbican Centre, London, 27 aprile
Satelliti, Locomotiv Club, Bologna, 3 maggio
Melt Banana, Zeus!, Locomotiv Club, Bologna, 9 maggio
Shaloma Locomotiva Orchestra, Teatro Comunale di Modena, 19 maggio
C+C=Maxigross, Primavera Sound Festival, Barcellona, 29 maggio
Warpaint, Primavera Sound Festival, Barcellona, 29 maggio
Volcano Choir, Primavera Sound Festival, Barcellona, 29 maggio
St. Vincent, Primavera Sound Festival, Barcellona, 29 maggio
Queens of the Stone Age, Primavera Sound Festival, Barcellona, 29 maggio
Arcade Fire, Primavera Sound Festival, Barcellona, 29 maggio
Disclosure, Primavera Sound Festival, Barcellona, 29 maggio
Junkfood, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
John Grant, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
The Twilight Sad, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
Sharon Van Etten, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
The War on Drugs, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
Slint, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
Darkside, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
SBTRKT, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
Factory Floor, Primavera Sound Festival, Barcellona, 30 maggio
Kronos Quartet, Primavera Sound Festival, Barcellona, 31 maggio
Television, Primavera Sound Festival, Barcellona, 31 maggio
Spoon, Primavera Sound Festival, Barcellona, 31 maggio
Conan Mockassin, Primavera Sound Festival, Barcellona, 31 maggio
Nine Inch Nails, Primavera Sound Festival, Barcellona, 31 maggio
Junkfood, Primavera Sound Festival, Barcellona, 1 giugno
Pixies, Arena Parco Nord, Bologna, 2 giugno
Queens of the Stone Age, Arena Parco Nord, Bologna, 2 giugno
Nine Inch Nails, Cold Cave, Unipol Arena, Casalecchio di Reno, 3 giugno
Bud Spencer Blues Explosion, Feltrinelli Ravegnana, Bologna, 9 giugno
Nada, Vicolo Bolognetti, Bologna, 11 giugno
Confusional Quartet, Vicolo Bolognetti, Bologna, 12 giugno
Bud Spencer Blues Explosion, Vicolo Bolognetti, Bologna, 14 giugno
The Sleeping Tree, Rubik Cafè, Bologna, 16 giugno
Black Sabbath, Unipol Arena, Casalecchio di Reno, Bologna, 18 giugno
Bettibarsantini, Beatrice Antolini, Rocca di Spilamberto, Spilamberto, 20 giugno
Massimo Volume, Vicolo Bolognetti, Bologna, 21 giugno
La Tarma, Parco del Cavaticcio, Bologna, 23 giugno
Vessel, Lo Sburla, Piazza Verdi, Bologna, 30 giugno
Ex-CSI, Vicolo Bolognetti, Bologna, 3 luglio
Spartiti, Vicolo Bolognetti, Bologna, 5 luglio
UNA, Io e la Tigre, Cassero, Bologna, 7 luglio
Timber Timbre, Vicolo Bolognetti, Bologna, 10 luglio
Geoff Farina, Fargas, Piazza Verdi, Bologna, 11 luglio
Temples, Fiera, Bologna, 14 luglio
The Horrors, Fiera, Bologna, 14 luglio
M+A, Fiera, Bologna, 15 luglio
His Clancyness, Fiera, Bologna, 15 luglio
Panda Bear, Fiera, Bologna, 15 luglio
MGMT, Fiera, Bologna, 15 luglio
Zu, Botanique, Bologna, 18 luglio
The National, San Fermin, Piazza Castello, Ferrara, 22 luglio
C+C=Maxigross, Festa dell’Ospite, Fosse (VR), 9 agosto
Omosumo, Parco del Cavaticcio, Bologna, 26 agosto
Shiva Bakta, Giardini Margherita, Bologna, 28 agosto
Caribou, Estragon, Bologna, 6 settembre
King Buzzo, Adriano Viterbini, Locomotiv Club, Bologna, 8 settembre
Perfume Genius, Locomotiv Club, Bologna, 9 settembre
Dino Fumaretto, Giardini Margherita, Bologna, 22 settembre
Swans, Estragon, Bologna, 10 ottobre
Liars, Locomotiv Club, Bologna, 18 ottobre
To Rococo Rot, Locomotiv Club, Bologna, 24 ottobre
Xiu Xiu, Locomotiv Club, 28 ottobre
Ty Segall, JC Satan, Locomotiv Club, 30 ottobre
Thurston Moore, Teatro Antoniano, Bologna, 3 novembre
Ben Frost, TPO, Bologna, 5 novembre
BOL & Snah, Locomotiv Club, Bologna, 7 novembre
Tune-Yards, Locomotiv Club, Bologna, 8 novembre
Marlene Kuntz, Locomotiv Club, Bologna, 12 novembre
John Garcia, Locomotiv Club, Bologna, 20 novembre
Olof Arnalds, Beatrice Antolini, Covo Club, Bologna, 21 novembre
Fast Animals and Slow Kids, Locomotiv Club, Bologna, 22 novembre
C+C=Maxigross & Martin Hagfors, Locomotiv Club, Bologna, 26 novembre
Giardini di Mirò, Locomotiv Club, Bologna, 27 novembre
Einstürzende Neubauten, Teatro Manzoni, Bologna, 28 novembre
Ronin, Dadamatto, Maria Antonietta, Locomotiv Club, Bologna, 3 dicembre
Laibach, TPO, Bologna, 5 dicembre
Sharon Van Etten, Marisa Anderson, Bologna, 6 dicembre
Linda & the Greenman, Barazzo Live, Bologna, 20 dicembre
Death in June, Freakout Club, 12 dicembre

La terribile bellezza: intervista con Blixa Bargeld

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Il rapporto, chiamiamolo così, con Blixa Bargeld non era cominciato nel migliore dei modi: il management e io avevamo inteso in maniera diversa cosa dovesse implicare l’uso di Skype per un’intervista. Io, radiofonicamente ingenuo?, non pensavo che la webcam fosse necessaria. Avevo quindi salutato Bargeld, che era inaspettatamente comparso sul monitor del computer dello studio di registrazione, e lui si era scusato: “Sono in anticipo, ma ti do il tempo di accendere e regolare la webcam”. A nulla erano servite le mie flebilissime proteste, le scuse, i tentativi impacciati. Il musicista aveva chiuso la chiamata e io pensavo mi fossi giocato un’intervista con un musicista straordinario su un disco davvero profondo e affascinante. Avevo ascoltato LAMENT per il Mucchio Selvaggio ed ero rimasto rapito dal modo in cui gli Einstürzende Neubauten avevano composto un’opera solo in apparenza sulla Prima Guerra Mondiale. In realtà l’ultimo “non-album” della band tedesca è una composizione nel vero senso del termine: sono stati messi insieme calcoli matematici applicati al rumore, canzoni, rielaborazioni di canoni, cabaret tedesco postbellico sconosciuto ai più, plotoni di afroamericani tra Francia e Stati Uniti, così come a cavallo tra due mondi temporali diversi, se non vogliamo dire secoli, è stato quel conflitto che compie cent’anni in questi giorni. LAMENT è oscuro, ironico, duro, appassionato, difficile e profondo come il mio interlocutore che desiderava, ho scoperto poi, vedere in faccia chi gli poneva domande. Quando ci siamo risentiti, stavolta con camera, ha notato il materiale fonoassorbente che mi circondava e ha esclamato: “Sei in un vero studio di registrazione! Anche io”. Ha alzato la webcam: “Sono nello studio dei Neubauten, stiamo facendo le prove”. L’otto novembre, infatti, LAMENT si mostra come dev’essere considerato: uno spettacolo dal vivo che prende spunto, racconta in parte, mette in scena la (Grande) Guerra. Pochi giorni dopo verrà pubblicato il disco, alla fine di novembre la band sarà in tour in Italia: intanto domani a Maps, oltre a trasmettere l’intervista che potete leggere qua e sentire sul sito di Radio Città del Capo, si potrà ascoltare anche la prémiere esclusiva di una traccia dell’album che, ci scommettiamo, rimarrà uno di quelli che ricorderemo del 2014.

Innanzitutto grazie: LAMENT mi è piaciuto moltissimo, anche se vorrei vedere lo spettacolo in Belgio tra meno di un mese…
Allestiremo lo stesso spettacolo anche in Italia. Non sarà un concerto normale dei Neubauten: suoneremo questo.

Dall’inizio alla fine?
Sì, dall’inizio alla fine! Il disco è solo una documentazione dello spettacolo, non è stato concepito come un disco, ma come una performance, come un pezzo su commissione da mettere in scena su un palco. L’album può essere diviso in tre sequenze: le prime quattro tracce, poi le tre che seguono e quello che seguono ancora, i tre “Lament” e “How Did I Die?”. Questa è la performance completa. Le tracce che seguono sono i bis che suoneremo. In Italia non credo che faremo il pezzo di cabaret in tedesco del 1923, quello di Joseph Plaut, semplicemente perché non ha molto senso per chi non parla tedesco, ma faremo “Sag Mir Wo Die Blumen Sind” e anche tre canzoni del nostro repertorio: “Let’s Do It A Da Da”, perché è attinente al contesto, così come “Armenia” e “Ich Gehe Jetzt”. Non suoneremo “Haus Der Lüge” né altre canzoni. Sarebbe bello che riuscissi a fare passare questa informazione, affinché la gente non rimanga delusa: non vorrei che comprassero i biglietti per vedere un concerto normale dei Neubauten.

Lo sottolineeremo. A proposito della canzone che hai citato prima…
… “Der Beginn Des Weltkrieges 1914 (Dargestellt Unter Zuhilfenahme Eines Tierstimmenimitators)”, cioè “L’inizio della guerra mondiale nel 1914 (presentato da un imitatore di versi di animali)…”

Quella! Credo che, a parte la questione linguistica a cui si accennava, sia notevole dal punto di vista puramente sonoro, anche se uno non capisce il tedesco. È interessante comunque.
La storia è stata questa: prima che cominciassimo a registrare il materiale, ho avuto due ricercatori che lavoravano per me, per cercare documenti con i quali avremmo potuto lavorare. In uno di questi mucchi di materiale c’erano dei file mandati dall’Archivio Radiofonico di Francoforte, che ci ha inviato tutto ciò che era in loro possesso sulla Prima Guerra Mondiale. Il punto è che nel periodo della guerra non c’erano mezzi per registrare: tutto quello che si sente nei documentari e simili è finto. Mi hanno mandato un sacco di dischi, o di versioni digitali degli stessi, realizzati dopo la Prima Guerra Mondiale, che la imitavano. Cose come inni nazionali cantati, preghiere, qualche “bum bum”, ma è tutto materiale rifatto in studio negli anni ’20. Tra questo materiale c’era il disco di Joseph Plaut, che ha proprio quel titolo. Un documento significativo, sorprendentemente significativo, perché nomina Hitler…

Sì, alla fine!
Ma è stato realizzato nel 1923. In quell’anno Hitler compì il suo primo atto politicamente rilevante, con la marcia su Monaco, per la quale poi venne arrestato, il che gli diede il tempo di scrivere Mein Kampf. Prendere in giro Hitler nel 1923 ha del profetico.

Dieci anni prima della sua ascesa…
Sì, e poi Plaut è dovuto fuggire…

Torniamo alla Prima Guerra Mondiale. Qualcuno l’ha definito come l’ultimo conflitto del 18° secolo e il primo combattuto con armi “nuove”: secondo questa prospettiva la Guerra ha dato un forte impulso all’industrializzazione mondiale, uno dei temi legati agli Einstürzende Neubauten. Si può vedere LAMENT come un’indagine sull’inizio dell’industralizzazione mondiale massiccia? L’incipit del lavoro, “Kriegsmachinerie”, è una sorta di rappresentazione sonora di tutto ciò, dell’inizio di questo processo.
Non l’ho inteso in questo modo, ma penso che questo sia l’effetto collaterale che verrebbe fuori se la guardassimo da questo punto di vista. Forse questa è proprio la ragione per cui ci hanno commissionato il progetto. Ma c’è un aspetto che voglio evitare da subito: l’equazione Neubauten – rumore – guerra. Non esiste, voglio che rimanga al di fuori del discorso quanto più possibile e spero di essere riuscito a farcela. In ogni caso, non sono mai stato soddisfatto del tutto con il termine “industriale”, o “musica industriale” e cose del genere, semplicemente perché non ha avuto origine con noi. Ma d’altro canto siamo un gruppo che lavora molto con gli avanzi industriali, dell’industrializzazione, portiamo molto materiale sul palco e quindi è un normale effetto collaterale che tutto venga inteso in questo senso. A questo proposito, “Kriegsmachinerie” è un pezzo concepito per il palco, sul quale viene costruito un gigantesco leviatano, che ovviamente sul disco non si vede: tutto quello che si sente è un suo prodotto secondario.

C’è qualche correlazione tra LAMENT e il Futurismo? Mi riferisco all’uso delle parole e dei suoni, anche nel brano che abbiamo nominato “Der Beginn Des Weltkrieges 1914”.
Sì. Come ho detto prima, suoneremo delle canzoni del nostro repertorio, tra cui “Let’s Do It A Da Da”, che nomina il Futurismo. Siamo pienamente consapevoli che quel movimento rientra in questo contesto, che ha il suo posto, ma avevamo già un pezzo appropriato: non c’era bisogno di rifarlo. Dentro ci sono Lenin, Dada, i futuristi… Abbiamo usato qualcosa che avevamo già fatto. Tuttavia non ho trovato molti altri nostri brani adatti al contesto della guerra, in generale, o in particolare della Prima Guerra Mondiale. C’è “Armenia”, certo… Non è molto noto il fatto che il movimento Dada fosse contro la guerra, nato come reazione alla Prima Guerra Mondiale e anche ai futuristi. Senza il Futurismo, il Dada sarebbe stato inconcepibile. La cosa strana è che sono totalmente agli antipodi, politicamente parlando. Non credo che il Futurismo possa essere considerato, generalizzando, un movimento politico, ma di certo Marinetti e Mussolini hanno qualcosa in comune. E lo stesso non si può dire di George Gross o Otto Dix, che non hanno a che fare con i nazisti. Ma è notevole che due importanti “ismi” artistici e culturali dell’inizio del ventesimo secolo siano così opposti politicamente.

La prospettiva temporale di LAMENT è molto interessante. Si comincia in ordine cronologico, ma ci sono dei salti in avanti, con “Der Beginn Des Weltkrieges 1914”, che risale al 1923 come si diceva, e “Sag Mir Wo Die Blumen Sind”, che è degli anni ’60.
“Der Beginn Des Weltkrieges 1914” è già da considerarsi come bis, come dicevo. L’ordine cronologico va da “Kriegsmachine” a “How Did I Die?”, dopodiché arrivano i bis che suoniamo dopo lo spettacolo.

Tutto è quindi molto basato sulla struttura del live.
Sì, completamente.

LAMENT nasce su commissione: hai chiesto a due ricercatori di trovare del materiale, ma sono davvero curioso di conoscere le indicazioni precise che hai fornito.
Le mie indicazioni erano in due punti. Era d’aiuto se il materiale avesse qualche risvolto musicale. Inoltre, visto che sapevo che avremmo portato tutto questo in scena nell’autunno 2014, saremmo arrivati un anno dopo dall’inizio della girandola di celebrazioni in Germania per il centenario dello scoppio della Guerra: sapevo che praticamente ogni aspetto della questione sarebbe già stato spremuto come un limone. Dovevamo quindi trovare qualcosa in qualche angolo poco conosciuto, come gli Harlem Hellfighters, di cui non sapevo nulla, le registrazioni delle voci dei prigionieri di guerra effettuate da scienziati tedeschi, il poeta fiammingo Paul van den Broeck, praticamente sconosciuto anche nei Paesi Bassi. Insomma, queste sono i risultati delle mie indicazioni, ciò che mi ha interessato. Abbiamo anche provato a reperire altre versioni satiriche dell’inno “God Save the King”, nella versione tedesca, ma ne ho recuperate solo due strofe. “Hymnen” si conclude con una strofa in cui il Kaiser nasconde un’oca grassa al popolo, che si nutre di lische d’aringa: in realtà pare che la canzone vada avanti, che ci siano versioni anonime che la proseguono. Ho scritto agli studiosi che se ne sono occupati, ma non ho avuto risposta.

Hai citato gli Harlem Hellfighters, di cui hai raccontato la storia in un’intervista in Danimarca di recente. Vuoi raccontarla anche al pubblico italiano? Questi afroamericani andarono a combattere in Europa, ma…
Sì, furono poi arruolati… Ah, Harlem Hellfighters è solo un soprannome: erano il reggimento fanteria numero duecento e qualcosa, c’è scritto nel libretto, mi dimentico sempre il numero… Erano statunitensi e la maggior parte di loro arrivava da Harlem. Tra di loro, questo è interessante, c’era Bojangles, il famoso ballerino di tip tap. Ci furono forti proteste a proposito del reclutamento di questi soldati afroamericani, poiché violava alcune questioni razziali, visto che erano sotto ufficiali bianchi. Gli americani trovarono una via d’uscita alla questione mandandoli ai francesi e quindi, in pratica, cedendoli all’esercito francese. Quindi gli Harlem Hellfighters combattevano con un’uniforme che era un misto di quella francese e americana, erano una brigata statunitense all’interno dell’esercito francese agli ordini di ufficiali francesi, con ogni probabilità, che non avevano alcun problema a tal proposito. Tornarono in patria vittoriosi e vennero festeggiati, soprattutto ad Harlem, per quanto all’epoca ci furono proteste al riguardo. E sono in parte responsabili di quella che poi verrà chiamata jazz-craze in Francia: erano di certo la band migliore della Prima Guerra Mondiale, ed erano una delle prime band proto-jazz a registrare qualcosa. Lo fecero nel 1919, appena tornati, per la Pathé, un’etichetta francese: incisero solo otto canzoni, perché la loro carriera finì all’improvviso. Il leader della band, James Reese Europe, fu accoltellato a morte dal batterista.

Dal batterista?
Sì! Ma fanno parte del jazz delle origini, sono perfettamente contemporanei alle prime registrazioni di Louis Armstrong, Kid Ory… Il periodo in cui il termine jazz iniziò ad essere usato. Abbiamo scelto le due canzoni che già suonavano durante la Prima Guerra Mondiale, nelle trincee, come “On Patrol in No Man’s Land”, che è sulla Prima Guerra Mondiale. Ho effettuato numerose ricerche, ma le altre canzoni sull’argomento sono scemenze patriottiche o si limitano a prendere in giro il nemico. Questa è invece una rappresentazione moderna, in chiave jazz delle origini, di cosa vuol dire essere di pattuglia nella terra di nessuno. In linea di massima si può dire che è un dialogo tra il batterista e il cantante, Noble Sissle, in cui il primo imita ogni cosa che dice il secondo. Se il testo dice “mina”, il batterista fa “bum”. E inoltre, se pensiamo al set da batteria, è dal punto di vista della strumentazione l’invenzione del jazz. Succede nella sonorizzazione dei film muti: si possono comprare tutta una serie di aggeggi, campanellini, campanacci, metterli insieme e poi suonarli, facendo, pum, zing, e cose del genere. Ecco l’origine di quello che chiamiamo oggi batteria. E in questo c’è un collegamento con quello che fanno i Neubauten: noi abbiamo decostruito il set da batteria molto tempo fa, riassemblandolo completamente, utilizzando oggetti che producono strani suoni. In questo senso è qualcosa di molto più vicino ai tempi di cui parliamo che al rock.

Mi sembra interessante che gli Harlem Hellfighters cantino di terre di nessuno, quando erano uomini di nessuno in terre straniere…
Sì, esattamente. Oggi, quando parliamo di “terra di nessuno”, il termine non ha alcuna connotazione positiva. Tornare vittorioso e dire “tutta la terra di nessuno ora è nostra”, non dà l’idea che si abbia poi guadagnato tanto. Suona cinico sentire la canzone che dice “torneremo alle nostre casette quando i fiori sbocciano”, quando sappiamo bene quale fosse la condizione degli afroamericani nel 1919.

Perché usare la forma del lamento, o lamentatio come nucleo centrale dell’opera? Non mi riferisco solo alle tracce che si chiamano così, ma al canone del lamento.
È stato uno dei punti di partenza: ho fatto ricerche sulla struttura generale e sull’idea del lamento e volevo scriverne uno, nella forma di una composizione corale tripartita. Alla fine ne è rimasta una sola di parte, per quanto una tripartizione della struttura sia ancora presente, poiché ho combinato questa composizione con altre due. Ma non sono riuscito a scrivere un lamento com’è nell’Antico Testamento, che include la maledizione del nemico, non ci ho messo ovviamente alcun dio, ho dei problemi a proposito… Insomma, alla fine mi è rimasta una frase sola: Die Mächtigen Lieben Den Krieg, il potere ama la guerra. Ogni sillaba si accende come se fosse una luce, una alla volta, fino a che si ottiene la frase completa, nella quale ci sono le due parole dicotomiche “Macht”, “potere”, e “Kriege”, “guerra”. Ma “Macht” in tedesco è anche una voce del verbo “fare”, quindi quando spegni queste sillabe, come se fossero lampadine, ciò che rimane significa: “fare la guerra”. Questo è il meglio che sono riuscito a creare rimanendo fedele al concetto di “lamento”. Forse questa deviazione è stata necessaria affinché mi rendessi conto che non potevo scrivere un vero lamento. Cioè, lo spirito generale è quello, c’è un brano per coro, cantiamo tutti; in una parte ci sono le parole di tanti prigionieri di guerra.

Quando ho ascoltato il disco, per scriverne e preparare l’intervista, sono entrato in una sorta di modalità da studio, ho scoperto tante cose sulla Prima Guerra Mondiale che non conoscevo…
Mi fa piacere! Non ho voluto scrivere un disco didattico: mi ritengo ancora un uomo di spettacolo, odio quando… Sì, forse questa è la differenza tra me e alcuni compositori “seri”, che pensano sia sufficiente avere alcune idee “intellettuali” senza considerare il risultato. Io non voglio dare al mondo nulla di noioso. Chiaro che in questo progetto particolare sarebbe stato più facile essere completamente didattici, fare una specie di documentario, ma ho voluto evitarlo. Tom Waits è venuto da me mentre lavoravo all’album e mi ha detto: “Devi rendere bella una storia terribile”.

Musica in cui immergersi: intervista ai Temples

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Di Sun Structures, uscito per la Heavenly Recordings a febbraio, mi ha colpito immediatamente la copertina: la band è ritratta in una radura in mezzo a un bosco, con alle spalle una costruzione che, pur “montata” nella fotografia, sembra quasi elevarsi, staccarsi da terra. Ho pensato, prima ancora di ascoltare l’album, all’esoterismo britannico e alle sue rappresentazioni, così diverse da quello mediterraneo. E mi è venuto in mente uno dei miei film preferiti, The Wicker Man, che mischia esoterismo, paganesimo e riti druidici. Capirete la mia sorpresa quando il bassista e cantante dei Temples, Thomas Warmsley, ha citato proprio la pellicola di Robin Hardy come “una delle preferite” della band britannica: eppure c’è un legame profondo che lega questi venticinquenni delle Midlands a qualcosa di ancestrale, attraverso la via del pop psichedelico a cui chiaramente il quartetto si rivolge. Molti hanno bollato l’album di debutto come una scopiazzatura: credo, invece, che certi suoni e certe strutture musicali il popolo britannico le abbia dentro, e che affiorino assumendo forma diversa a seconda del momento storico. Dopo avere parlato proprio di psichedelia anche con gli Horrors, ecco l’intervista con i Temples, che potrete ascoltare in onda a Maps oggi pomeriggio o in streaming sul sito della radio.

Vorrei innanzitutto parlare del vostro futuro e della pressione che immagino sentiate da parte della stampa musicale britannica e mondiale. Siete una band molto giovane, ma il vostro successo sta crescendo rapidamente. Qual è il vostro antidoto?
Credo che sia qualcosa che le band non possano controllare, è qualcosa che avviene esternamente rispetto a quello che succede all’interno di un gruppo: ma come Temples, da subito, abbiamo dovuto suonare molto dal vivo e siamo dovuti crescere come band di fronte a tutti. Credo che questo ti porti all’onestà, non puoi nascondere nulla, devi essere quello che sei sul palco, come gruppo nel suo complesso. Non abbiamo pensato molto a quello che stavamo facendo, ci siamo solamente concentrati su chi eravamo e sul suonare al meglio. È stato un lungo processo di apprendimento: non direi che siamo “arrivati” come band e questo rende ogni concerto molto divertente.

Che mi racconti del tipo di musica che suonate? Sentite nell’aria il revival psichedelico di questi tempi? Hai scoperto questo genere per caso o sentendo un disco dei tuoi?
Per quanto riguarda il revival psichedelico, ci sono un sacco di gruppi che finalmente hanno un po’ di attenzione, band che sono in giro da diverso tempo, pensa ai Black Angels, per esempio: suonano da dieci anni, o quasi. Penso che la gente stia finalmente prestando più attenzione a questo tipo di musica, magari perché ci si rende più conto dell’importanza di andare ai concerti e sentire com’è davvero una band dal vivo. È un’esperienza unica, e in quanto tale semplicemente non si può sostituire o replicare. Ecco forse perché sta diventando più popolare, ma non ne sono sicuro. La cosa vale di certo per noi: siamo fan della musica psichedelica e specialmente della musica pop degli anni ’60 e ’70. Mi piacciono i dischi che puoi ascoltare dall’inizio alla fine, capaci di creare un’atmosfera: molti degli album che preferisco lo fanno, e portano l’ascoltatore altrove, in cinquanta minuti, dall’inizio alla fine di un disco, nel quale ti immergi completamente. Credo che questa sia una caratteristica molto importante della nostra musica.

Torniamo agli anni ’60 e non al lato pop: in quell’epoca la musica e la cultura psichedelica era un modo per evadere, per sfuggire alla realtà. Secondo te questo assunto vale ancora oggi, visto che fate musica psichedelica? Ha ancora questa funzione?
Penso che ogni tipo di musica abbia un suo immaginario e una sua ragion d’essere, ma penso che sfruttare un’idea e creare un’immagine vivida con la musica sia davvero ciò che ci interessa. Come ho detto prima, molte delle nostre band preferite e dei nostri dischi preferiti lo fanno. Penso che ci sia una qualche forma di escapismo, se non altro perché l’ascoltatore è immerso nella musica e nel mondo del disco, ma nel nostro caso creare questo non ha una ragione precisa, non è una reazione a qualcosa. Siamo più interessati agli effetti sull’ascoltatore.

Le reazioni al vostro album di debutto sono state piuttosto diverse, ma spesso estreme. Non mi interessano tanto le recensioni positive, perché sono d’accordo: il vostro è un buon disco. Cosa pensi, invece, che abbiano in comune le critiche negative, sempre che tu le abbia lette?
Penso che le persone tendano a essere molto critiche nei confronti di chi si ispira al passato, specialmente a un certo tipo di musica che attinge dagli anni ’60, quell’epoca lì. Di certo se suoni musica di quel tipo, devi aggiungerci qualcosa e portare qualcosa di nuovo a quello che fai. Penso che ci siano sicuramente citazioni nella nostra musica, ma cerchiamo di andare oltre a questo. Le nostre canzoni possono anche essere scritte in maniera tradizionale, ma mi piace pensare che il modo in cui lo facciamo e il nostro approccio alla musica sia qualcosa di nuovo, e che le cose forse non sono mai state mischiate prima. Forse la gente non si interessa davvero a noi e l’unica cosa che nota è questo pastiche con musica del passato, ma è solo una piccola parte di quello che facciamo.

Hai mai pensato che qualcuno potrebbe vedervi come “invasori” di un’epoca storica, di cui magari si è molto nostalgici, e che quindi qualcuno si possa “lamentare”?
Forse sì. Penso che quello che la gente va cercando sia il suono del disco e come lo usi per creare ciò che stai facendo. Anche se non ci abbiamo riflettuto più di tanto, volevamo essere certi che il mix fosse giusto, che il risultato suonasse autentico, ma che fosse anche fresco e diverso allo stesso tempo. Altre band hanno fatto lo stesso nel passato, si tratta di dare la tua impronta alla musica, di trovare la formula giusta, e noi abbiamo cercato di fare il meglio che potevamo. Ma alla fine credo si venga semplicemente influenzati dal tipo di musica che ti piace davvero, non c’è altra ragione per suonarla. Che alle persone piaccia o meno, penso sia irrilevante.

Cosa significa fare musica nel Regno Unito oggi e non venire da o vivere a Londra? A dire il vero non sono sicuro che voi non abitiate a Londra, ma non provenite da lì di certo.
Sì, a dire il vero ora sono a Londra, ma comunque penso che il maggiore vantaggio di non vivere nell’ambiente di una città sia la possibilità di concentrarsi in maniera diversa sulla musica, un vantaggio quando devi creare il tuo album. Si tratta di focalizzarsi in maniera diversa, a seconda che ti trovi in campagna o in città. Per noi però la cosa fondamentale è che veniamo tutti e quattro dalla stessa cittadina, dallo stesso luogo: e spero che questo si traduca anche nella nostra musica, che non sembri che veniamo da posti qualsiasi. Non penso che la band sarebbe la stessa altrimenti. Ci sono tante città nel mezzo dell’Inghilterra in cui si produce buona musica, e le band che ci sono si possono considerare più isolate o comunque con una cultura diversa di quelle di città. C’è un’ispirazione unica e diversa.

E il vostro modo di comporre? Come hai detto, vivere a Kettering e cominciare a suonare in camera, come molte band fanno, ha mantenuto e formato la vostra musica dagli inizi, ma ce n’è di distanza tra il suonare tra quattro pareti e di fronte al pubblico del Coachella.
I Temples sono essenzialmente nati in studio, come un esperimento di registrazione, direi. L’idea di suonare qualcosa dal vivo, un set intero o qualsiasi altra cosa di fronte a un pubblico ci era un po’ ostile, o almeno era una cosa che non avevamo considerato assolutamente all’inizio. Tradurre canzoni che erano nate per essere suonate in studio in una forma che potesse funzionare dal vivo è stato un processo strano. Molte band provano per mesi e poi registrano un disco: noi abbiamo fatto al contrario, abbiamo registrato molto velocemente e poi fatto più concerti che riuscivamo a fare, così suonavamo dal vivo, tutti e quattro insieme: abbiamo così sviluppato i brani dal vivo, registrando anche mentre eravamo in tour, tornavamo in studio a lavorare su canzoni che avevamo imparato a sviluppare suonando live. Questo test dal vivo è stato una parte enorme del lavoro fatto con la band. E sono certo che il disco suonerebbe in maniera molto diversa se non l’avessimo fatto, se non fossimo una live band, se non ci fossimo permessi di sperimentare con le canzoni dal vivo.

Ti piacciono ancora le canzoni di Sun Structures sentite su disco?
A dire il vero non lo ascoltiamo più molto. Molte delle canzoni sono state registrate nel corso dell’ultimo anno. Abbiamo raggiunto l’obiettivo di creare un’atmosfera su disco, ma non ci pensiamo molto, visto che ora siamo concentrati sui concerti: come ho detto prima, è qualcosa di completamente diverso, che ti obbliga a dimenticare ciò che hai definito in studio e imparare di nuovo le canzoni suonandole live. Credo che in questo modo il concerto diventi qualcosa di unico e speciale, perché non ci sono confini nel suonare un pezzo dal vivo, può prendere forme diverse…

Quindi avremo modo di sentire nuove versioni di brani che già conosciamo o i prossimi concerti in Italia potranno riservarci qualche sorpresa?
Ci saranno momenti di improvvisazione, non abbiamo paura… Voglio dire che se decidiamo di espandere una parte di una canzone dal vivo, lo facciamo, anche se prende una forma diversa dal disco. Una decisione importante da prendere è quello che si vuole mantenere e quello che si vuole cambiare dei pezzi, o quello che ti puoi permettere di sviluppare dal vivo. Quindi non posso dire molto, ma immagino di sì.

C’è un disco che ti ha cambiato la vita, come persona o musicista?
Tanti, mi sa… Ma citerei il primo disco dei Pink Floyd,
The Piper at the Gates of Dawn. La prima volta che l’ho ascoltato ho pensato che allo stesso tempo avesse un’incredibile energia punk e fosse in grado di creare un immaginario unico, con un’eloquenza notevole. Penso che sia proprio la combinazione di questi due elementi che fa di quel disco un grande album, con idee interessanti: penso che sia un modo interessante di vedere il pop, perché poi è di quello che si tratta. Ci sono suoni inusuali e incredibili, di certo è per noi Temples uno dei nostri dischi preferiti.

Di solito concludiamo le nostre interviste con la solita domanda dei dischi dell’isola deserta, ma questa volta la cambiamo un po’, e quindi: che libro, film e cibo ti porteresti sull’isola deserta, se dovessi partire ora?
Il libro sarebbe di certo
The Old Straight Track di Alfred Watkins: sarebbe una lettura interessante. Si tratta di un libro scritto negli anni ’20 che ha a che fare con antiche mitologie britanniche, con le linee temporanee [linee immaginarie che collegano monumenti o megaliti, alle quali sono attribuiti poteri magici o particolari, ndr.] che attraversano la Gran Bretagna. Sì, sarebbe una cosa interessante da portarsi dietro, così come tutto ciò che ha a che fare con le fiabe e con i tempi passati della Gran Bretagna, quando tutto era più semplice. Il film sarebbe The Wicker Man, uno dei preferiti della band, ci piace guardarlo. La regia è di Robin Hardy e ha una colonna sonora fantastica: un film tipicamente britannico che ci ricorda casa. E il cibo, be’, due fette di pane. Poi vediamo che metterci in mezzo.

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