I’m Happy Just To Dance With You

La terribile bellezza: intervista con Blixa Bargeld

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Il rapporto, chiamiamolo così, con Blixa Bargeld non era cominciato nel migliore dei modi: il management e io avevamo inteso in maniera diversa cosa dovesse implicare l’uso di Skype per un’intervista. Io, radiofonicamente ingenuo?, non pensavo che la webcam fosse necessaria. Avevo quindi salutato Bargeld, che era inaspettatamente comparso sul monitor del computer dello studio di registrazione, e lui si era scusato: “Sono in anticipo, ma ti do il tempo di accendere e regolare la webcam”. A nulla erano servite le mie flebilissime proteste, le scuse, i tentativi impacciati. Il musicista aveva chiuso la chiamata e io pensavo mi fossi giocato un’intervista con un musicista straordinario su un disco davvero profondo e affascinante. Avevo ascoltato LAMENT per il Mucchio Selvaggio ed ero rimasto rapito dal modo in cui gli Einstürzende Neubauten avevano composto un’opera solo in apparenza sulla Prima Guerra Mondiale. In realtà l’ultimo “non-album” della band tedesca è una composizione nel vero senso del termine: sono stati messi insieme calcoli matematici applicati al rumore, canzoni, rielaborazioni di canoni, cabaret tedesco postbellico sconosciuto ai più, plotoni di afroamericani tra Francia e Stati Uniti, così come a cavallo tra due mondi temporali diversi, se non vogliamo dire secoli, è stato quel conflitto che compie cent’anni in questi giorni. LAMENT è oscuro, ironico, duro, appassionato, difficile e profondo come il mio interlocutore che desiderava, ho scoperto poi, vedere in faccia chi gli poneva domande. Quando ci siamo risentiti, stavolta con camera, ha notato il materiale fonoassorbente che mi circondava e ha esclamato: “Sei in un vero studio di registrazione! Anche io”. Ha alzato la webcam: “Sono nello studio dei Neubauten, stiamo facendo le prove”. L’otto novembre, infatti, LAMENT si mostra come dev’essere considerato: uno spettacolo dal vivo che prende spunto, racconta in parte, mette in scena la (Grande) Guerra. Pochi giorni dopo verrà pubblicato il disco, alla fine di novembre la band sarà in tour in Italia: intanto domani a Maps, oltre a trasmettere l’intervista che potete leggere qua e sentire sul sito di Radio Città del Capo, si potrà ascoltare anche la prémiere esclusiva di una traccia dell’album che, ci scommettiamo, rimarrà uno di quelli che ricorderemo del 2014.

Innanzitutto grazie: LAMENT mi è piaciuto moltissimo, anche se vorrei vedere lo spettacolo in Belgio tra meno di un mese…
Allestiremo lo stesso spettacolo anche in Italia. Non sarà un concerto normale dei Neubauten: suoneremo questo.

Dall’inizio alla fine?
Sì, dall’inizio alla fine! Il disco è solo una documentazione dello spettacolo, non è stato concepito come un disco, ma come una performance, come un pezzo su commissione da mettere in scena su un palco. L’album può essere diviso in tre sequenze: le prime quattro tracce, poi le tre che seguono e quello che seguono ancora, i tre “Lament” e “How Did I Die?”. Questa è la performance completa. Le tracce che seguono sono i bis che suoneremo. In Italia non credo che faremo il pezzo di cabaret in tedesco del 1923, quello di Joseph Plaut, semplicemente perché non ha molto senso per chi non parla tedesco, ma faremo “Sag Mir Wo Die Blumen Sind” e anche tre canzoni del nostro repertorio: “Let’s Do It A Da Da”, perché è attinente al contesto, così come “Armenia” e “Ich Gehe Jetzt”. Non suoneremo “Haus Der Lüge” né altre canzoni. Sarebbe bello che riuscissi a fare passare questa informazione, affinché la gente non rimanga delusa: non vorrei che comprassero i biglietti per vedere un concerto normale dei Neubauten.

Lo sottolineeremo. A proposito della canzone che hai citato prima…
… “Der Beginn Des Weltkrieges 1914 (Dargestellt Unter Zuhilfenahme Eines Tierstimmenimitators)”, cioè “L’inizio della guerra mondiale nel 1914 (presentato da un imitatore di versi di animali)…”

Quella! Credo che, a parte la questione linguistica a cui si accennava, sia notevole dal punto di vista puramente sonoro, anche se uno non capisce il tedesco. È interessante comunque.
La storia è stata questa: prima che cominciassimo a registrare il materiale, ho avuto due ricercatori che lavoravano per me, per cercare documenti con i quali avremmo potuto lavorare. In uno di questi mucchi di materiale c’erano dei file mandati dall’Archivio Radiofonico di Francoforte, che ci ha inviato tutto ciò che era in loro possesso sulla Prima Guerra Mondiale. Il punto è che nel periodo della guerra non c’erano mezzi per registrare: tutto quello che si sente nei documentari e simili è finto. Mi hanno mandato un sacco di dischi, o di versioni digitali degli stessi, realizzati dopo la Prima Guerra Mondiale, che la imitavano. Cose come inni nazionali cantati, preghiere, qualche “bum bum”, ma è tutto materiale rifatto in studio negli anni ’20. Tra questo materiale c’era il disco di Joseph Plaut, che ha proprio quel titolo. Un documento significativo, sorprendentemente significativo, perché nomina Hitler…

Sì, alla fine!
Ma è stato realizzato nel 1923. In quell’anno Hitler compì il suo primo atto politicamente rilevante, con la marcia su Monaco, per la quale poi venne arrestato, il che gli diede il tempo di scrivere Mein Kampf. Prendere in giro Hitler nel 1923 ha del profetico.

Dieci anni prima della sua ascesa…
Sì, e poi Plaut è dovuto fuggire…

Torniamo alla Prima Guerra Mondiale. Qualcuno l’ha definito come l’ultimo conflitto del 18° secolo e il primo combattuto con armi “nuove”: secondo questa prospettiva la Guerra ha dato un forte impulso all’industrializzazione mondiale, uno dei temi legati agli Einstürzende Neubauten. Si può vedere LAMENT come un’indagine sull’inizio dell’industralizzazione mondiale massiccia? L’incipit del lavoro, “Kriegsmachinerie”, è una sorta di rappresentazione sonora di tutto ciò, dell’inizio di questo processo.
Non l’ho inteso in questo modo, ma penso che questo sia l’effetto collaterale che verrebbe fuori se la guardassimo da questo punto di vista. Forse questa è proprio la ragione per cui ci hanno commissionato il progetto. Ma c’è un aspetto che voglio evitare da subito: l’equazione Neubauten – rumore – guerra. Non esiste, voglio che rimanga al di fuori del discorso quanto più possibile e spero di essere riuscito a farcela. In ogni caso, non sono mai stato soddisfatto del tutto con il termine “industriale”, o “musica industriale” e cose del genere, semplicemente perché non ha avuto origine con noi. Ma d’altro canto siamo un gruppo che lavora molto con gli avanzi industriali, dell’industrializzazione, portiamo molto materiale sul palco e quindi è un normale effetto collaterale che tutto venga inteso in questo senso. A questo proposito, “Kriegsmachinerie” è un pezzo concepito per il palco, sul quale viene costruito un gigantesco leviatano, che ovviamente sul disco non si vede: tutto quello che si sente è un suo prodotto secondario.

C’è qualche correlazione tra LAMENT e il Futurismo? Mi riferisco all’uso delle parole e dei suoni, anche nel brano che abbiamo nominato “Der Beginn Des Weltkrieges 1914”.
Sì. Come ho detto prima, suoneremo delle canzoni del nostro repertorio, tra cui “Let’s Do It A Da Da”, che nomina il Futurismo. Siamo pienamente consapevoli che quel movimento rientra in questo contesto, che ha il suo posto, ma avevamo già un pezzo appropriato: non c’era bisogno di rifarlo. Dentro ci sono Lenin, Dada, i futuristi… Abbiamo usato qualcosa che avevamo già fatto. Tuttavia non ho trovato molti altri nostri brani adatti al contesto della guerra, in generale, o in particolare della Prima Guerra Mondiale. C’è “Armenia”, certo… Non è molto noto il fatto che il movimento Dada fosse contro la guerra, nato come reazione alla Prima Guerra Mondiale e anche ai futuristi. Senza il Futurismo, il Dada sarebbe stato inconcepibile. La cosa strana è che sono totalmente agli antipodi, politicamente parlando. Non credo che il Futurismo possa essere considerato, generalizzando, un movimento politico, ma di certo Marinetti e Mussolini hanno qualcosa in comune. E lo stesso non si può dire di George Gross o Otto Dix, che non hanno a che fare con i nazisti. Ma è notevole che due importanti “ismi” artistici e culturali dell’inizio del ventesimo secolo siano così opposti politicamente.

La prospettiva temporale di LAMENT è molto interessante. Si comincia in ordine cronologico, ma ci sono dei salti in avanti, con “Der Beginn Des Weltkrieges 1914”, che risale al 1923 come si diceva, e “Sag Mir Wo Die Blumen Sind”, che è degli anni ’60.
“Der Beginn Des Weltkrieges 1914” è già da considerarsi come bis, come dicevo. L’ordine cronologico va da “Kriegsmachine” a “How Did I Die?”, dopodiché arrivano i bis che suoniamo dopo lo spettacolo.

Tutto è quindi molto basato sulla struttura del live.
Sì, completamente.

LAMENT nasce su commissione: hai chiesto a due ricercatori di trovare del materiale, ma sono davvero curioso di conoscere le indicazioni precise che hai fornito.
Le mie indicazioni erano in due punti. Era d’aiuto se il materiale avesse qualche risvolto musicale. Inoltre, visto che sapevo che avremmo portato tutto questo in scena nell’autunno 2014, saremmo arrivati un anno dopo dall’inizio della girandola di celebrazioni in Germania per il centenario dello scoppio della Guerra: sapevo che praticamente ogni aspetto della questione sarebbe già stato spremuto come un limone. Dovevamo quindi trovare qualcosa in qualche angolo poco conosciuto, come gli Harlem Hellfighters, di cui non sapevo nulla, le registrazioni delle voci dei prigionieri di guerra effettuate da scienziati tedeschi, il poeta fiammingo Paul van den Broeck, praticamente sconosciuto anche nei Paesi Bassi. Insomma, queste sono i risultati delle mie indicazioni, ciò che mi ha interessato. Abbiamo anche provato a reperire altre versioni satiriche dell’inno “God Save the King”, nella versione tedesca, ma ne ho recuperate solo due strofe. “Hymnen” si conclude con una strofa in cui il Kaiser nasconde un’oca grassa al popolo, che si nutre di lische d’aringa: in realtà pare che la canzone vada avanti, che ci siano versioni anonime che la proseguono. Ho scritto agli studiosi che se ne sono occupati, ma non ho avuto risposta.

Hai citato gli Harlem Hellfighters, di cui hai raccontato la storia in un’intervista in Danimarca di recente. Vuoi raccontarla anche al pubblico italiano? Questi afroamericani andarono a combattere in Europa, ma…
Sì, furono poi arruolati… Ah, Harlem Hellfighters è solo un soprannome: erano il reggimento fanteria numero duecento e qualcosa, c’è scritto nel libretto, mi dimentico sempre il numero… Erano statunitensi e la maggior parte di loro arrivava da Harlem. Tra di loro, questo è interessante, c’era Bojangles, il famoso ballerino di tip tap. Ci furono forti proteste a proposito del reclutamento di questi soldati afroamericani, poiché violava alcune questioni razziali, visto che erano sotto ufficiali bianchi. Gli americani trovarono una via d’uscita alla questione mandandoli ai francesi e quindi, in pratica, cedendoli all’esercito francese. Quindi gli Harlem Hellfighters combattevano con un’uniforme che era un misto di quella francese e americana, erano una brigata statunitense all’interno dell’esercito francese agli ordini di ufficiali francesi, con ogni probabilità, che non avevano alcun problema a tal proposito. Tornarono in patria vittoriosi e vennero festeggiati, soprattutto ad Harlem, per quanto all’epoca ci furono proteste al riguardo. E sono in parte responsabili di quella che poi verrà chiamata jazz-craze in Francia: erano di certo la band migliore della Prima Guerra Mondiale, ed erano una delle prime band proto-jazz a registrare qualcosa. Lo fecero nel 1919, appena tornati, per la Pathé, un’etichetta francese: incisero solo otto canzoni, perché la loro carriera finì all’improvviso. Il leader della band, James Reese Europe, fu accoltellato a morte dal batterista.

Dal batterista?
Sì! Ma fanno parte del jazz delle origini, sono perfettamente contemporanei alle prime registrazioni di Louis Armstrong, Kid Ory… Il periodo in cui il termine jazz iniziò ad essere usato. Abbiamo scelto le due canzoni che già suonavano durante la Prima Guerra Mondiale, nelle trincee, come “On Patrol in No Man’s Land”, che è sulla Prima Guerra Mondiale. Ho effettuato numerose ricerche, ma le altre canzoni sull’argomento sono scemenze patriottiche o si limitano a prendere in giro il nemico. Questa è invece una rappresentazione moderna, in chiave jazz delle origini, di cosa vuol dire essere di pattuglia nella terra di nessuno. In linea di massima si può dire che è un dialogo tra il batterista e il cantante, Noble Sissle, in cui il primo imita ogni cosa che dice il secondo. Se il testo dice “mina”, il batterista fa “bum”. E inoltre, se pensiamo al set da batteria, è dal punto di vista della strumentazione l’invenzione del jazz. Succede nella sonorizzazione dei film muti: si possono comprare tutta una serie di aggeggi, campanellini, campanacci, metterli insieme e poi suonarli, facendo, pum, zing, e cose del genere. Ecco l’origine di quello che chiamiamo oggi batteria. E in questo c’è un collegamento con quello che fanno i Neubauten: noi abbiamo decostruito il set da batteria molto tempo fa, riassemblandolo completamente, utilizzando oggetti che producono strani suoni. In questo senso è qualcosa di molto più vicino ai tempi di cui parliamo che al rock.

Mi sembra interessante che gli Harlem Hellfighters cantino di terre di nessuno, quando erano uomini di nessuno in terre straniere…
Sì, esattamente. Oggi, quando parliamo di “terra di nessuno”, il termine non ha alcuna connotazione positiva. Tornare vittorioso e dire “tutta la terra di nessuno ora è nostra”, non dà l’idea che si abbia poi guadagnato tanto. Suona cinico sentire la canzone che dice “torneremo alle nostre casette quando i fiori sbocciano”, quando sappiamo bene quale fosse la condizione degli afroamericani nel 1919.

Perché usare la forma del lamento, o lamentatio come nucleo centrale dell’opera? Non mi riferisco solo alle tracce che si chiamano così, ma al canone del lamento.
È stato uno dei punti di partenza: ho fatto ricerche sulla struttura generale e sull’idea del lamento e volevo scriverne uno, nella forma di una composizione corale tripartita. Alla fine ne è rimasta una sola di parte, per quanto una tripartizione della struttura sia ancora presente, poiché ho combinato questa composizione con altre due. Ma non sono riuscito a scrivere un lamento com’è nell’Antico Testamento, che include la maledizione del nemico, non ci ho messo ovviamente alcun dio, ho dei problemi a proposito… Insomma, alla fine mi è rimasta una frase sola: Die Mächtigen Lieben Den Krieg, il potere ama la guerra. Ogni sillaba si accende come se fosse una luce, una alla volta, fino a che si ottiene la frase completa, nella quale ci sono le due parole dicotomiche “Macht”, “potere”, e “Kriege”, “guerra”. Ma “Macht” in tedesco è anche una voce del verbo “fare”, quindi quando spegni queste sillabe, come se fossero lampadine, ciò che rimane significa: “fare la guerra”. Questo è il meglio che sono riuscito a creare rimanendo fedele al concetto di “lamento”. Forse questa deviazione è stata necessaria affinché mi rendessi conto che non potevo scrivere un vero lamento. Cioè, lo spirito generale è quello, c’è un brano per coro, cantiamo tutti; in una parte ci sono le parole di tanti prigionieri di guerra.

Quando ho ascoltato il disco, per scriverne e preparare l’intervista, sono entrato in una sorta di modalità da studio, ho scoperto tante cose sulla Prima Guerra Mondiale che non conoscevo…
Mi fa piacere! Non ho voluto scrivere un disco didattico: mi ritengo ancora un uomo di spettacolo, odio quando… Sì, forse questa è la differenza tra me e alcuni compositori “seri”, che pensano sia sufficiente avere alcune idee “intellettuali” senza considerare il risultato. Io non voglio dare al mondo nulla di noioso. Chiaro che in questo progetto particolare sarebbe stato più facile essere completamente didattici, fare una specie di documentario, ma ho voluto evitarlo. Tom Waits è venuto da me mentre lavoravo all’album e mi ha detto: “Devi rendere bella una storia terribile”.

Musica in cui immergersi: intervista ai Temples

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Di Sun Structures, uscito per la Heavenly Recordings a febbraio, mi ha colpito immediatamente la copertina: la band è ritratta in una radura in mezzo a un bosco, con alle spalle una costruzione che, pur “montata” nella fotografia, sembra quasi elevarsi, staccarsi da terra. Ho pensato, prima ancora di ascoltare l’album, all’esoterismo britannico e alle sue rappresentazioni, così diverse da quello mediterraneo. E mi è venuto in mente uno dei miei film preferiti, The Wicker Man, che mischia esoterismo, paganesimo e riti druidici. Capirete la mia sorpresa quando il bassista e cantante dei Temples, Thomas Warmsley, ha citato proprio la pellicola di Robin Hardy come “una delle preferite” della band britannica: eppure c’è un legame profondo che lega questi venticinquenni delle Midlands a qualcosa di ancestrale, attraverso la via del pop psichedelico a cui chiaramente il quartetto si rivolge. Molti hanno bollato l’album di debutto come una scopiazzatura: credo, invece, che certi suoni e certe strutture musicali il popolo britannico le abbia dentro, e che affiorino assumendo forma diversa a seconda del momento storico. Dopo avere parlato proprio di psichedelia anche con gli Horrors, ecco l’intervista con i Temples, che potrete ascoltare in onda a Maps oggi pomeriggio o in streaming sul sito della radio.

Vorrei innanzitutto parlare del vostro futuro e della pressione che immagino sentiate da parte della stampa musicale britannica e mondiale. Siete una band molto giovane, ma il vostro successo sta crescendo rapidamente. Qual è il vostro antidoto?
Credo che sia qualcosa che le band non possano controllare, è qualcosa che avviene esternamente rispetto a quello che succede all’interno di un gruppo: ma come Temples, da subito, abbiamo dovuto suonare molto dal vivo e siamo dovuti crescere come band di fronte a tutti. Credo che questo ti porti all’onestà, non puoi nascondere nulla, devi essere quello che sei sul palco, come gruppo nel suo complesso. Non abbiamo pensato molto a quello che stavamo facendo, ci siamo solamente concentrati su chi eravamo e sul suonare al meglio. È stato un lungo processo di apprendimento: non direi che siamo “arrivati” come band e questo rende ogni concerto molto divertente.

Che mi racconti del tipo di musica che suonate? Sentite nell’aria il revival psichedelico di questi tempi? Hai scoperto questo genere per caso o sentendo un disco dei tuoi?
Per quanto riguarda il revival psichedelico, ci sono un sacco di gruppi che finalmente hanno un po’ di attenzione, band che sono in giro da diverso tempo, pensa ai Black Angels, per esempio: suonano da dieci anni, o quasi. Penso che la gente stia finalmente prestando più attenzione a questo tipo di musica, magari perché ci si rende più conto dell’importanza di andare ai concerti e sentire com’è davvero una band dal vivo. È un’esperienza unica, e in quanto tale semplicemente non si può sostituire o replicare. Ecco forse perché sta diventando più popolare, ma non ne sono sicuro. La cosa vale di certo per noi: siamo fan della musica psichedelica e specialmente della musica pop degli anni ’60 e ’70. Mi piacciono i dischi che puoi ascoltare dall’inizio alla fine, capaci di creare un’atmosfera: molti degli album che preferisco lo fanno, e portano l’ascoltatore altrove, in cinquanta minuti, dall’inizio alla fine di un disco, nel quale ti immergi completamente. Credo che questa sia una caratteristica molto importante della nostra musica.

Torniamo agli anni ’60 e non al lato pop: in quell’epoca la musica e la cultura psichedelica era un modo per evadere, per sfuggire alla realtà. Secondo te questo assunto vale ancora oggi, visto che fate musica psichedelica? Ha ancora questa funzione?
Penso che ogni tipo di musica abbia un suo immaginario e una sua ragion d’essere, ma penso che sfruttare un’idea e creare un’immagine vivida con la musica sia davvero ciò che ci interessa. Come ho detto prima, molte delle nostre band preferite e dei nostri dischi preferiti lo fanno. Penso che ci sia una qualche forma di escapismo, se non altro perché l’ascoltatore è immerso nella musica e nel mondo del disco, ma nel nostro caso creare questo non ha una ragione precisa, non è una reazione a qualcosa. Siamo più interessati agli effetti sull’ascoltatore.

Le reazioni al vostro album di debutto sono state piuttosto diverse, ma spesso estreme. Non mi interessano tanto le recensioni positive, perché sono d’accordo: il vostro è un buon disco. Cosa pensi, invece, che abbiano in comune le critiche negative, sempre che tu le abbia lette?
Penso che le persone tendano a essere molto critiche nei confronti di chi si ispira al passato, specialmente a un certo tipo di musica che attinge dagli anni ’60, quell’epoca lì. Di certo se suoni musica di quel tipo, devi aggiungerci qualcosa e portare qualcosa di nuovo a quello che fai. Penso che ci siano sicuramente citazioni nella nostra musica, ma cerchiamo di andare oltre a questo. Le nostre canzoni possono anche essere scritte in maniera tradizionale, ma mi piace pensare che il modo in cui lo facciamo e il nostro approccio alla musica sia qualcosa di nuovo, e che le cose forse non sono mai state mischiate prima. Forse la gente non si interessa davvero a noi e l’unica cosa che nota è questo pastiche con musica del passato, ma è solo una piccola parte di quello che facciamo.

Hai mai pensato che qualcuno potrebbe vedervi come “invasori” di un’epoca storica, di cui magari si è molto nostalgici, e che quindi qualcuno si possa “lamentare”?
Forse sì. Penso che quello che la gente va cercando sia il suono del disco e come lo usi per creare ciò che stai facendo. Anche se non ci abbiamo riflettuto più di tanto, volevamo essere certi che il mix fosse giusto, che il risultato suonasse autentico, ma che fosse anche fresco e diverso allo stesso tempo. Altre band hanno fatto lo stesso nel passato, si tratta di dare la tua impronta alla musica, di trovare la formula giusta, e noi abbiamo cercato di fare il meglio che potevamo. Ma alla fine credo si venga semplicemente influenzati dal tipo di musica che ti piace davvero, non c’è altra ragione per suonarla. Che alle persone piaccia o meno, penso sia irrilevante.

Cosa significa fare musica nel Regno Unito oggi e non venire da o vivere a Londra? A dire il vero non sono sicuro che voi non abitiate a Londra, ma non provenite da lì di certo.
Sì, a dire il vero ora sono a Londra, ma comunque penso che il maggiore vantaggio di non vivere nell’ambiente di una città sia la possibilità di concentrarsi in maniera diversa sulla musica, un vantaggio quando devi creare il tuo album. Si tratta di focalizzarsi in maniera diversa, a seconda che ti trovi in campagna o in città. Per noi però la cosa fondamentale è che veniamo tutti e quattro dalla stessa cittadina, dallo stesso luogo: e spero che questo si traduca anche nella nostra musica, che non sembri che veniamo da posti qualsiasi. Non penso che la band sarebbe la stessa altrimenti. Ci sono tante città nel mezzo dell’Inghilterra in cui si produce buona musica, e le band che ci sono si possono considerare più isolate o comunque con una cultura diversa di quelle di città. C’è un’ispirazione unica e diversa.

E il vostro modo di comporre? Come hai detto, vivere a Kettering e cominciare a suonare in camera, come molte band fanno, ha mantenuto e formato la vostra musica dagli inizi, ma ce n’è di distanza tra il suonare tra quattro pareti e di fronte al pubblico del Coachella.
I Temples sono essenzialmente nati in studio, come un esperimento di registrazione, direi. L’idea di suonare qualcosa dal vivo, un set intero o qualsiasi altra cosa di fronte a un pubblico ci era un po’ ostile, o almeno era una cosa che non avevamo considerato assolutamente all’inizio. Tradurre canzoni che erano nate per essere suonate in studio in una forma che potesse funzionare dal vivo è stato un processo strano. Molte band provano per mesi e poi registrano un disco: noi abbiamo fatto al contrario, abbiamo registrato molto velocemente e poi fatto più concerti che riuscivamo a fare, così suonavamo dal vivo, tutti e quattro insieme: abbiamo così sviluppato i brani dal vivo, registrando anche mentre eravamo in tour, tornavamo in studio a lavorare su canzoni che avevamo imparato a sviluppare suonando live. Questo test dal vivo è stato una parte enorme del lavoro fatto con la band. E sono certo che il disco suonerebbe in maniera molto diversa se non l’avessimo fatto, se non fossimo una live band, se non ci fossimo permessi di sperimentare con le canzoni dal vivo.

Ti piacciono ancora le canzoni di Sun Structures sentite su disco?
A dire il vero non lo ascoltiamo più molto. Molte delle canzoni sono state registrate nel corso dell’ultimo anno. Abbiamo raggiunto l’obiettivo di creare un’atmosfera su disco, ma non ci pensiamo molto, visto che ora siamo concentrati sui concerti: come ho detto prima, è qualcosa di completamente diverso, che ti obbliga a dimenticare ciò che hai definito in studio e imparare di nuovo le canzoni suonandole live. Credo che in questo modo il concerto diventi qualcosa di unico e speciale, perché non ci sono confini nel suonare un pezzo dal vivo, può prendere forme diverse…

Quindi avremo modo di sentire nuove versioni di brani che già conosciamo o i prossimi concerti in Italia potranno riservarci qualche sorpresa?
Ci saranno momenti di improvvisazione, non abbiamo paura… Voglio dire che se decidiamo di espandere una parte di una canzone dal vivo, lo facciamo, anche se prende una forma diversa dal disco. Una decisione importante da prendere è quello che si vuole mantenere e quello che si vuole cambiare dei pezzi, o quello che ti puoi permettere di sviluppare dal vivo. Quindi non posso dire molto, ma immagino di sì.

C’è un disco che ti ha cambiato la vita, come persona o musicista?
Tanti, mi sa… Ma citerei il primo disco dei Pink Floyd,
The Piper at the Gates of Dawn. La prima volta che l’ho ascoltato ho pensato che allo stesso tempo avesse un’incredibile energia punk e fosse in grado di creare un immaginario unico, con un’eloquenza notevole. Penso che sia proprio la combinazione di questi due elementi che fa di quel disco un grande album, con idee interessanti: penso che sia un modo interessante di vedere il pop, perché poi è di quello che si tratta. Ci sono suoni inusuali e incredibili, di certo è per noi Temples uno dei nostri dischi preferiti.

Di solito concludiamo le nostre interviste con la solita domanda dei dischi dell’isola deserta, ma questa volta la cambiamo un po’, e quindi: che libro, film e cibo ti porteresti sull’isola deserta, se dovessi partire ora?
Il libro sarebbe di certo
The Old Straight Track di Alfred Watkins: sarebbe una lettura interessante. Si tratta di un libro scritto negli anni ’20 che ha a che fare con antiche mitologie britanniche, con le linee temporanee [linee immaginarie che collegano monumenti o megaliti, alle quali sono attribuiti poteri magici o particolari, ndr.] che attraversano la Gran Bretagna. Sì, sarebbe una cosa interessante da portarsi dietro, così come tutto ciò che ha a che fare con le fiabe e con i tempi passati della Gran Bretagna, quando tutto era più semplice. Il film sarebbe The Wicker Man, uno dei preferiti della band, ci piace guardarlo. La regia è di Robin Hardy e ha una colonna sonora fantastica: un film tipicamente britannico che ci ricorda casa. E il cibo, be’, due fette di pane. Poi vediamo che metterci in mezzo.

The seventh year zip

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Buffo come il resto della vita sia sempre più difficile e invece Maps non soffra di crisi del settimo anno. Domani inizia l’ultima settimana della settima stagione della trasmissione pomeridiana di Radio Città del Capo e da oggi, come d’abitudine, c’è per voi la raccolta Live at Maps, che questa volta segna un record. Nello zip, appunto, ma anche in streaming, troverete (oltre alla copertina a colori della brava Giulia Sagramola, che ringrazio) quasi quattro ore e mezzo di musica, settantotto brani suonati da settantasette band o musicisti, italiani e stranieri, in acustico, elettrico e anche elettronico, registrati live da luglio 2012 alla settimana scorsa. Mai ne abbiamo avuti così tanti. Per ogni session, fosse composta da uno o da quattro pezzi (di più di solito non ci stanno in onda), ho scelto la traccia che mi sembrava più significativa: Saluti da Saturno, come l’anno scorso i Ronin, è passato due volte e quindi ha due brani nella scaletta. Ecco tutti gli autori.

L’Orso – Eildentroeilfuorieilbox84 – My Sister Grenadine – Dimartino – Conny Ochs – Moro & the Silent Revolution – The Lovecats – Blue Willa – Pete Bentham & the Dinner Ladies –  Sycamore Age – Scott Matthew – Tubax – Setti – Francesco Giampaoli – Kaki King – C+C=Maxigross – The Sleeping Tree – Town of Saints – Hobocombo – Fast Animals and Slow Kids – The Talking Bugs – Nevica su Quattropuntozero – Threelakes and the Flatland Eagles – Erin K. – Calibro 35 – Saluti da Saturno – Fabio Cinti – Egle Sommacal – A Toys Orchestra – John Lennon McCullagh – Pete MacLeod – The Zen Circus – BettiBarsantini – Collettivo Ginsberg – Majirelle – Father Murphy – Geoff Farina – Arrington de Dionyso – Giuradei – Il Pan del Diavolo – Brunori SAS – SinCos – Melampus – Circuit des Yeux – Fabrizio Tavernelli – La Tarma – Incident on South Street – Interiors – Cesare Malfatti – Lilies on Mars – Giacomo Toni – Non voglio che Clara – Junkfood – Maria Antonietta – Bologna Violenta – Cut – Ex-Otago – Vessel – Levante – Green Like July – SJ Esau – Barzin – Perturbazione – Cheatahs – Fragil Vida – Altre di B – Sit In Music – Musica per Bambini – Nicolò Carnesi – Andrea Lovato – Godblesscomputers – Giancarlo Frigieri – Carla Bozulich – Tying Tiffany – Portfolio – Movimento Artistico Pesante – Ethan Johns

Un elenco che tuttora mi fa impressione rileggere: per ogni voce (o live) ho un ricordo molto preciso, al punto da essere tentato dall’annotare le immagini, parole, sguardi che mi sovvengono ripercorrendo questi nomi, queste ore di musica e di onda. Esattamente come l’anno scorso e l’anno prima ancora, da domani a venerdì Maps, sabato riposo, domenica mattina Pigiama Party e da lunedì si passa al mattino con Aperto per ferie. Grazie anche da queste pagine a tutti coloro che hanno reso possibile un’altra stagione di Maps. Sapete chi siete.

We Want To Take You Higher: intervista a The Horrors

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Sebbene non possa definirmi il loro fan numero uno, gli Horrors mi hanno sempre incuriosito per la cupezza della loro musica: per quanto molto debitrice dell’eredità nazionale, infatti, i britannici hanno sempre messo del loro nei loro dischi, spesso andando controcorrente rispetto ai suoni di moda e talvolta addirittura anticipando ritorni di fiamma e riscoperte. Rispetto ai lavori precedenti Luminous, che esce oggi a tre anni di distanza da Skying, è banalmente – visto il titolo – un disco più solare, ballabile, divertente. Nella chiacchierata che ho fatto ormai un mese fa con Rhys Webb questa volontà traspare a ogni parola, con un entusiasmo palpabile che potete anche sentire nel tono della sua voce, ma mai quanto il nostro si è illuminato parlando di psichedelia. Era una domanda che ovviamente ci stava, ma non sapevo che il musicista non fosse solo un appassionato, ma un collezionista di cimeli lisergici: un colpo di fortuna e, di conseguenza, la risposta più articolata di tutta l’intervista (per cui ringrazio, ancora una volta, Emily Clancy).

L’inizio di Luminous è più o meno questo: quasi tre minuti di percussioni e pad, poi entra la band al completo; ma dobbiamo aspettare ancora quasi un minuto per ascoltare le prime parole del disco, che contiene canzoni lunghe con lunghe parti strumentali: si può affermare che Luminous sia più concentrato sulla musica dei vostri lavori precedenti?
Forse, non saprei. Di certo non l’abbiamo fatto di proposito, ma questi passaggi strumentali ci sono piaciuti, e secondo noi fanno andare al meglio le canzoni. Non pensiamo a pezzi pop concisi, di tre minuti, vogliamo semplicemente esprimere noi stessi e rendere al meglio la canzone, affinché comunichi al meglio le nostre idee.

È una cosa di cui vi siete resi conto mentre lavoravate alle canzoni o non siete davvero interessati a focalizzarvi in questo modo sulle stesse?
No, ce ne siamo resi conto in corso d’opera e che ci siamo goduti. Non volevamo che ogni canzone suonasse così, ma penso che parte del disco abbia a che fare con il coinvolgimento nella [sua stessa] musica, con un’immersione profonda nel groove dell’album. Qualche volta è la canzone a trascinare noi. Tuttavia non è stata una decisione conscia, ma il modo migliore per esprimere noi stessi.

Il titolo è importante e sembra alludere a luci quasi accecanti: pensi che Luminous abbia un aspetto più leggero, positivo e più speranzoso di quanto ci avete fatto ascoltare finora?
Sì, penso di sì: volevamo fare musica che fosse più energetica e piena di ottimismo, che tirasse su ed elevasse gli ascoltatori. Insomma, l’idea è quella del “portarti più in alto”, un’idea che ci è sempre piaciuta. E’ un po’ come quella sensazione che hai quando sei sulla pista, davanti a un dj che mette i dischi: il suo lavoro è continuare a muoversi e a far muovere, a far girare i pezzi. Piace anche a noi farlo, con la nostra musica.

Come mai la scelta di “I See You” come primo singolo? C’è stato un ragionamento, ce lo puoi spiegare?
Sì, “I See You” è stato il primo pezzo che ci ha davvero convinto mentre stavamo scrivendo il nuovo disco. Prima abbiamo scritto molte canzoni che non ci hanno soddisfatto. Quando cominciamo un album è tutto un ricominciare da capo, fare tabula rasa e sperimentare nuove idee: c’è sempre un pezzo che ci entusiasma per primo e questa volta è stato “I See You”. Pensiamo che sia non solo una buona introduzione all’album che le persone ora possono ascoltare, ma anche che rappresenti i suoni e le emozioni che esploriamo nel disco.

Sono d’accordo: rappresenta bene le canzoni del disco anche dal punto di vista della lunghezza…
Sì, è un pezzo “epico”, diciamo. Volevamo che la prima traccia che le persone avessero ascoltato fosse una canzone che ci entusiasmava. Ecco il motivo della scelta.

La vostra attività live ha influenzato il disco in qualche modo?
Sì, in effetti penso proprio di sì. Non abbiamo delle vere e proprie riunioni creative a proposito della direzione che prenderà il nuovo materiale. Semplicemente, in quanto band, cominciamo a suonare insieme: le idee iniziano a scorrere e si vede dove ci portano. Però Skying era un disco delicato, almeno in certi momenti. Noi volevamo fare qualcosa di più intenso, qualcosa… All’inizio l’idea era di creare musica molto più pesante, più orientato al rock e al suono di chitarra. Ma poi, naturalmente, ci siamo mossi verso il lato elettronico. Lo dicevo prima: siamo interessati a pezzi su cui si possa ballare, che si possano ascoltare in un club notturno, ma anche sul palco di un festival o in uno spettacolo dal vivo.

Come avete lavorato con Paul Epworth? Che stimoli vi ha dato?
Abbiamo collaborato solo su una traccia, “Falling Star”: qualcosa di inusuale per noi, che non abbiamo mai lavorato con qualcuno su un pezzo. Non lavoriamo neanche con un produttore, che alla fine diventerebbe una sorta di sesto componente del gruppo, o il numero che vuoi tu. Ovviamente ascolterebbe le nostre cose, le nostre idee, ci darebbe le sue… Un modo di lavorare che non abbiamo adottato negli ultimi due dischi. Comunque, avevamo i pezzi, ci piacevano e stavamo cercando qualcosa che li rinfrescasse un po’, dei nuovi approcci… Faris [Badwan, cantante della band, ndr] ha avuto l’idea di collaborare con Paul, così per provare qualcosa di nuovo e vedere come andava, per rimpallarci delle idee. E’ stato qualcosa di inusuale, di nuovo per noi, ma alla fine il risultato è buono.

Immagino che sia stato scelto anche per il lavoro fatto su due voci come quelle di Adele e Paul McCartney che, piacciano o meno, sono due nomi molto rappresentativi della musica britannica di oggi.
No, non credo che sia stato per il lavoro su Adele: ci è piaciuto Paul McCartney, ma non credo sia solo quello. Questi sono i suoi lavori recenti, è negli ultimi anni che si presenta come “il nuovo entusiasmante produttore”, che ha lavorato in maniere differenti con gente diversa. Ha un background da musicista, anche se ora non mi vengono in mente i nomi delle band con cui ha suonato, ma il punto è che eravamo interessati al suo lavoro e a vedere cosa ne sarebbe venuto fuori.

Luminous è un’invocazione affinché la gente balli: c’era qualche disco su cui ballavate, mentre lavoravate al vostro?
Su cosa ballavo… [ride] Insomma, mi piace ballare, ma vediamo… Mi è piaciuto molto Caramel di Connan Mockasin: non è un disco veloce, ma mi è piaciuto molto quando è uscito l’anno scorso. Sì, sai, noi siamo interessati alla musica che ti fa ballare, non necessariamente ora: l’amiamo in generale, ed è qualcosa che abbiamo pensato di introdurre sempre di più, anche sul disco precedente ce n’era… Diciamo che è come ci siamo sentiti rispetto a certe canzoni sulle quali vorremmo che la gente ballasse: questa volta ci siamo focalizzati ancora di più su questo aspetto e ci siamo chiesti che sarebbe successo con questo nuovo album.

C’è un pezzo che si intitola “Jealous Sun” che potrebbe essere definito la vostra via allo shoegazing: mette insieme i My Bloody Valentine e i Primal Scream! Sono band e generi che vi hanno influenzato? Quando prima hai usato la parola “higher” mi è venuto in mente subito Screamadelica.
Sì, penso che di certo i Primal Scream abbiano un sentire comune con noi: quello di fare festa e divertirsi. Amano le feste come noi e Screamadelica è un disco fantastico perché riprende tutto il fenomeno house dell’epoca: è strabiliante perché è forse il primo album di una band che lavora in quel senso. Non volevamo fare un disco come Screamadelica, ma abbiamo sicuramente in comune quest’interesse dei Primal Scream, la combinazione, le influenze del rock’n’roll sulla musica elettronica: ci emoziona. Mi piace quella band: il loro manifesto è caricarsi e divertirsi e noi non possiamo che essere d’accordo.

Hai parlato di rock, ma credo che in voi e nei Primal Scream ci sia anche la musica nera. “Mine and Yours”, per esempio, ha una struttura molto classica e si sentono anche degli ottoni. Come avete costruito il pezzo e come ci avete lavorato?
Gli ottoni sono suonati da un sintetizzatore, a dire il vero, ma come ci siamo arrivati? Be’, è un momento molto denso del disco, è un pezzo molto rock. Mi sa che è tutto partito dal riff di chitarra, sul quale abbiamo poi lavorato. Su questo disco, a differenza del passato, non abbiamo usato ottoni veri. La nostra musica, le nostre canzoni evolvono sempre. E’ strano da spiegare, perché non c’è uno solo che le scrive: le idee che arrivano poi si evolvono. Volevamo che questo disco fosse anche vario, che non avesse un solo suono: quello di “Mine and Yours” è uno dei momenti in cui la chitarra si fa più dura.

E che mi dici di “So Now You Know”?
“So Now You Know” è una canzone che ha in sé… molto spazio. È un altro dei brani del disco per cui abbiamo lavorato sul groove, sul ritmo. E’ una canzone che ti prende, che ti fa muovere la testa: è stata questa la motivazione che ci ha portati a pensarla così. Rappresenta quello che facciamo meglio, o che ci piace fare: un misto di suoni e influenze diverse. Non è propriamente hip hop, ma ci sono elementi delle ritmiche di quel genere, elettronica, ambient, il tutto in un involucro rock. È un modo per esplorare le musiche che amiamo.

So che non sei tu a scrivere i testi delle canzoni, ma ci puoi dire se c’è qualcosa che lega le parole dei nuovi brani?
Faris a dire il vero non parla molto dei suoi testi, preferisce che la gente si faccia la propria idea quando ascolta le canzoni, ma una cosa che sappiamo e che dice è che ci sono sempre temi ricorrenti all’interno del disco e che sono spesso anche molto personali. In fondo però si tratta di tematiche che hanno a che fare con tutti e preferiamo che ognuno trovi la sua lettura.

Parliamo di qualcosa più generale, come la psichedelia. Si tratta di uno dei generi o sottogeneri da sempre presenti nella musica britannica, ma ultimamente pare che si sia risvegliato un interesse molto più vasto di prima, e in tutto il mondo, nei confronti di questo tipo di musica. Perché, secondo te, questa riscoperta avviene proprio oggi?
Sono d’accordo con te, è qualcosa che è affiorato negli ultimi anni. Sai, io stesso sono un attento collezionista di musica psichedelica che proviene da tutto il mondo: ho dischi britannici, statunitensi, anche roba garage italiana (non amo molto il progressive o altre cose più pesanti), insomma, da ovunque. Come band siamo sempre stati interessati al fenomeno, ma non so bene da dove derivi questa nuova attenzione. Ci sono tonnellate di nuove band, come i Temples, o i Tame Impala, che sono in giro da qualche anno, Connan Mockasin, neozelandese, e poi i Wooden Shjips, la scena statunitense, i Black Angels… Non so: ciò che mi interessa di band come i Toy, per esempio, è che fanno musica psichedelica ma non necessariamente come se fosse degli anni ’60, che assomiglino ai Byrds o anche un po’ ai Beatles… Non ha senso per me vederla così. È più interessante la questione della sperimentazione o dei suoni che espandono la mente. Probabilmente c’è più voglia di superare dei limiti musicalmente, di non limitarsi a suonare rock’n’roll convenzionale basato sulla chitarra: questo è interessante, perché così molte band stanno sperimentando con differenti suoni ed effetti. È musica più bizzarra, più strana, che ti fa sentire qualcosa: in fondo la musica psichedelica dovrebbe farti provare un’esperienza, no? Agli inizi era legata all’assunzione di LSD, all’espansione della coscienza, a un suono che si fa strada nella mente oltre il tempo. Tornando a me, è la musica che amo di più, quindi sono felicissimo che sia suonata da nuove band.

Hai mai pensato che questi tempi siano difficili e che quindi il ritorno della musica psichedelica abbia un valore escapista?
Nella psichedelia c’è un elemento escapista. Non direi che ha a che fare con il clima politico attuale, ma credo che i generi musicali abbiano un po’ la tendenza a muoversi ciclicamente, come sappiamo, e dagli anni ’60 in poi c’è sempre stato un interesse nei confronti di quel mondo musicale e delle influenze di gruppi come 13th Floor Elevators, o i Beatles o anche per band britanniche molto meno conosciute e più oscure, di cui a volte parliamo, come un gruppo inglese che si chiama July. C’è sempre stata attenzione per questi musicisti, anche negli anni ’80: ne sono state influenzati anche band come i My Bloody Valentine o i Ride e in genere tutti i gruppi basati sul suono di chitarra, ma anche chi ha fatto musica elettronica. Non saprei bene rispondere alla tua domanda, ma non penso che questo sia dovuto al fatto che la gente voglia scappare dall’attuale panorama politico e sociale: si tratta, alla fine dei conti, di buona musica.

Qual è il concerto più bello che hai visto di recente?
Il concerto più bello recente… Ah, ho visto il live di un’ottima band originaria della Nuova Zelanda, ma residente a Londra, di cui non sapevo nulla fino a poco tempo fa. Si chiamano Popstrangers, hanno fatto dei concertini a Londra che mi sono piaciuti molto. Ha fatto dei bei live anche Connan Mockasin: ne ho parlato anche prima, ma lui è la sua band sono probabilmente il meglio che si possa vedere dal vivo oggi. Sono un gruppo di pazzi che fanno musica folle: consiglio a tutti di seguirli.

E c’è un concerto che ti sei perso per cui sei ancora arrabbiato?
Mi sono perso il live dei Cramps. Ho avuto diverse opportunità, ce ne sono state: quando abbiamo formato il gruppo hanno suonato a Londra ma eravamo altrove. E anche a New York, quando eravamo negli Stati Uniti, li abbiamo mancati per un giorno. Tutti noi li amiamo e ormai, ovviamente, non potremo vederli più, visto che Lux Interior non è più tra di noi, quindi…  Adoro anche solo il fatto di avere visto dei loro video live, immagino cosa sia stato vederli dal vivo…

La voce come fosse uno strumento: intervista alle Samaris

samaris

Si dice sempre la stessa cosa sulla musica islandese, no? Come possa venire fuori tutta quella roba, spesso di ottima fattura, da un nazione di 300.000 abitanti. Non sono riuscito a farmelo spiegare neanche dalle Samaris, dopo averci provato con Asgeir e con Emiliana Torrini. Ma con la clarinettista Áslaug Rún Magnúsdóttir ho fatto una bella chiacchierata sul nuovo lavoro della band, Silkidrangar, in uscita per One Little Indian tra un mese scarso. Si tratta di un album più coeso del “falso debutto” eponimo: Samaris, infatti, era l’unione di due ep che hanno creato un culto in patria per la band, presto esportato grazie all’islandese acquisito John Grant, che le ha volute con sé per aprire alcune date. certo: in quel disco c’era “Góða Tungl”, una delle canzoni che più mi si è infilata in testa in assoluto negli ultimi anni, ma non tutte le altre tracce erano all’altezza di quel gioiellino che ondeggiava tra l’ipnotico, il dolce e l’inquietante. Qui la band osa, invece. Si fa più scura, ma non dimentica il passato (buffo parlarne così, considerando che in tre non hanno settant’anni). Il tutto attraverso questa lingua stranissima… anche per chi la parla, oltre che per chi l’ascolta. No, perché è bellissimo intervistare gli islandesi, ma il loro inglese scivola via spesso, rendendo la comprensione ardua a dir poco. Grazie quindi ancora una volta a Emily Clancy che mi ha aiutato nella traduzione. Trovate l’intervista audio sul sito di RCdC e verrà mandata in onda oggi pomeriggio a Maps.

La prima cosa che voglio chiederti riguarda il titolo del disco: Silkidrangar vuol dire “scogliere di seta”. Un nome che gioca sui contrasti, come in effetti fa poi l’album. L’inizio è marziale e martellante, piuttosto diverso dalle canzoni vecchie, alle quali però si torna alla fine del disco.
Sì, credo di sì. Direi che ci siamo evoluti. Nell’album precedente c’erano tante canzoni vecchie, e credo che abbiamo provato a sviluppare il nostro suono. Quindi la prima parte del nuovo disco è diversa, più ritmata, ma allo stesso tempo abbiamo ancora il clarinetto, non è che abbiamo aggiunto altri strumenti o cose del genere. In realtà anche alcuni canzoni su questo disco sono più datate, arrivano dalle prime volte che ci siamo messi a scrivere canzoni. E’ come una combinazione di pezzi più vecchi, che però non ha ancora sentito nessuno, e cose che abbiamo scritto da zero. Penso che quando stai facendo musica nuova devi sia seguire il tuo stile che cercare di sviluppare un tuo suono, quindi forse alle persone questo album sembra più scuro o profondo rispetto alle cose precedenti in cui c’era il clarinetto che aveva melodie più luminose, e poi Jófríður inizia a cantare. Ora abbiamo sempre il clarinetto sotto, ci sono tanti sample della voce insieme al clarinetto, quindi è un po’ diverso, penso, ma allo stesso tempo abbiamo il nostro solito stile.

Le canzoni nuove sono quelle più tranquille o quelle più movimentate?
Credo entrambe le cose. La terza e la quarta canzone del disco sono un po’ melodiche e sono vecchie; le nuove, forse lo puoi sentire, sono più scure e profonde. Sì, quelle che abbiamo scritto uno o due anni fa sono più luminoso. Esattamente come il nostro suono: quello di ora e un po’ più scuro, sì.

I remix dei vostri brani vi hanno influenzato nel creare qualcosa di più ritmato e oscuro?
Sì, decisamente. Il remix che ha fatto Subminimal di “Stofnar Falla” era molto drum and bass, e ci ha fatto capire che potevamo creare cose più ritmate, che funziona anche con il clarinetto e la voce: possiamo fare cose più ballabili, ce l’han fatto vedere loro, portano del nuovo sound alla nostra musica e ci fanno pensare “Dai, possiamo farlo”. Sono una grande fonte di ispirazione, prendono le tue canzoni e le rendono loro, ci aggiungono il loro suono, poi noi ci aggiungiamo qualcosa di nostro. Quindi sì, è anche merito loro.

Questo vostro primo album ha secondo te una coerenza interna? Mi riferisco all’ordine delle tracce: qual è il percorso che l’ascoltatore intraprende sentendole dalla prima all’ultima?
Che tipo di viaggio non saprei in realtà. Non è un grande concept album, non so. Ci sono tanti elementi naturali, cantiamo molto degli elementi naturali e tanto delle persone… Nei testi ci sono metafore su persone che magari stanno intreprendendo un percorso nella loro vita, stanno provando a farcela, a raggiungere qualcosa, magari attraverso nuove strade. Suppongo che le persone in Italia non capiranno i testi e dovranno crearsi le proprie atmosfere e il proprio umore e ambiente, noi stiamo provando a creare un’atmosfera rock melanconica e selvatica suppongo, non c’è uno specifico tipo di viaggio, dovranno crearselo da soli…

Che mi dici delle parole? So che sono tratte da alcuni testi poetici della letteratura islandese del 19° secolo: di che poemi si tratta? Sono legati da un tema comune?
Sì, ce l’hanno: parlano, come dicevo, di elementi naturali, creature che abitano in natura. A volte parliamo anche di musica e di cose malinconiche, non proprio allegre. Non parliamo di politica o cose così, ma di cose in cui la gente si possa identificare: le persone si relazionano a momenti bui o allegri nelle loro vite, abbiamo molte cose di questo tipo. Penso che quando si fa musica non devi capire per forza i testi, puoi sentirli e comprendere che si tratta di qualcosa di malinconico, o di relativo alla natura… Cerchiamo di parlare di cose come la notte, o la luce del giorno, anche di cose comuni che capitano nella vita di tutti i giorni.

Perché non scrivete voi i vostri testi?
Mi sa che all’inizio ci abbiamo provato, ma alla fine non importava davvero a nessuno: continuavamo a cantare “la la la” o “li li li”, finché non siamo incappati in questo libro, capitato in studio, una raccolta di vecchie poesie islandesi. Abbiamo provato a estrarne uno e a cantare i suoi versi e be’, si adattavano perfettamente alla musica: le parole sono scritte così bene e ci sono talmente tanti versi che ci siamo detti “Perché non usarli, invece di scriverli noi?” Non c’è nulla di male nello scrivere le proprie parole, ma visto che ne abbiamo così tante e così belle che abbiamo deciso di riportarle in vita, di dare loro un nuovo contesto e quindi una nuova vita. E come dicevo si adattano perfettamente alla musica, quindi perché non continuare, almeno per ora? Insomma, non abbiamo pensato a scrivere noi i testi, ma potrebbe succedere.

Non si può dire che l’atmosfera del disco sia proprio deprimente, ma di certo è scura: perché?
Non lo so con precisione… Forse perché molte delle canzoni sono state scritte in inverno: d’estate non componiamo, stiamo all’aria aperta. Immagino quindi che il buio e il freddo influenzino la nostra musica. Ma non siamo delle persone negative o che non amano la luce del sole: ci sono anche gli elementi oscuri e penso siano belli e che ci siano proprio perché scriviamo musica nell’oscurità. Credo.

Il cantato in islandese affascina anche chi non lo capisce: ma parlando esclusivamente del suono delle parole, affiancarlo a degli elementi molto contemporanei, come l’elettronica, lo rende ancora più affascinante. So che l’islandese è la lingua madre degli idiomi anglosassoni, una sorta di “latino del nord Europa”: c’è una specie di senso antico in questa lingua che sono curioso di indagare dal tuo punto di vista.
Non so… Penso che il fatto che sia antico e che abbia dei suoni strani… Certe lettere si pronunciano in maniera strana e ti fanno usare la voce come fosse uno strumento. E suona bene. Alcuni musicisti hanno, per così dire, evidenziato l’Islanda sulle mappe e quindi forse possiamo cantare nella nostra lingua perché la gente la conosce, per fare un esempio, più del russo. Con una canzone in russo è più difficile relazionarsi, c’è un alfabeto diverso, non potremmo leggere le parole. Noi abbiamo questi suoni speciali nella nostra lingua che piacciono alla gente e non credo che in Islanda vorrebbero che cantassimo in inglese.

Secondo te esiste, musicalmente parlando, un “fattore islandese”? Penso che molte delle musiche che arrivano dal tuo Paese, per quanto diverse, abbiano qualcosa in comune che però mi risulta difficile esprimere a parole. Ci riesci tu?
Non so se ce la faccio, perché ovviamente sono islandese e faccio parte della scena musicale del Paese, quindi non so se riesco davvero a sentire il fattore in comune tra tutti. Ma siamo talmente pochi che ognuno cerca di trovare il suo proprio suono: c’è Asgeir, per dire, e sarebbe facile diventare un suo emulo. Ma ognuno cerca la propria strada, anche se forse abbiamo tutti questo “suono islandese”, ma magari non riusciamo a sentirlo. Non credo che noi suoniamo come Asgeir o come la Torrini, ma d’altro canto se tutti gli altri che non sono islandesi amano la musica che viene dal mio Paese e riescono a trarne un’immagine e un sentimento proprio, specialmente se la sentono in islandese, creando una loro visione personale dai suoni e dalla musica… Ma come ti dicevo prima per me è difficile, perché vengo dall’Islanda, faccio parte della scena e dell’ambiente musicale dell’isola.

Per me, e torniamo alla prima domanda che ti ho posto, si tratta di contrasti mischiati tra loro. Parlando di grandi nomi, come Björk: ascoltandola io sento qualcosa di dolce e malinconico, allo stesso tempo vicino e lontanissimo e insieme molto caldo e molto freddo.
Sì, è così, in Islanda è tutto insieme… basta pensare al tempo atmosferico. Noi scriviamo principalmente in inverno e quindi il nostro lavoro è influenzato dal tempo e dalla natura, per così dire. Ecco un fattore comune a tutti, che influenza tutti: come ti dicevo, scriviamo e facciamo cose in inverno, perché stare al chiuso è il migliore modo di fare musica.

Siete molto giovani, come persone e come band: riesci a ricordare il preciso momento in cui vi siete resi conto le cose stavano crescendo sempre di più?
Sì, c’è stato un momento preciso. Perché il punto è che è nato tutto per scherzo. Ci siamo detti “Dai, mettiamoci dei costumi e suoniamo magari in qualche bar, eccetera eccetera” Poi abbiamo contattato Doddi, il terzo membro della band, per lavorare ai brani e all’improvviso è scattato qualcosa, è diventata una cosa più seria. Me lo ricorderò sempre: dopo l’edizione dell’Airwaves 2012 dovevamo tornare a scuola. Era stata una settimana folle, ma abbiamo continuato a studiare… Mi ricordo che eravamo in biblioteca che cercavamo di studiare, per quanto fossimo davvero poco concentrati. A un certo punto ci siamo detti: “Dai, controlliamo la mail, magari è arrivato qualcosa”. E abbiamo visto che c’era una mail della Direct che diceva che era interessata alla nostra musica e che voleva sentire una canzone o due. Ricordo di quanto fossimo stanchi e felici. Ci siamo detti: “Ok, sta diventando una cosa seria”.

Nel tuo caso la mia solita domanda sull’isola deserta, considerando da dove vieni, suona strana, ma te la faccio lo stesso: quali sono i dischi che i Samaris si porterebbero dietro?
Direi il nuovo album delle Warpaint, che è uscito non da molto, ma di cui non ricordo il titolo: è molto bello. Poi il primo disco delle First Aid Kit, meraviglioso. E Debut di Björk, splendido. E poi un ep dei Boards of Canada: ha solo tre canzoni. E anche un cofanetto che ho a casa, che contiene le Sinfonie di Mahler. E devo citare anche Arthur Russell, uno che… non ricordo se il primo o il secondo di Arthur Russell. C’è molto violoncello, cose classiche, ma sembra che faccia pop. Davvero non ricordo il titolo, ma penso sia il secondo. Non me lo ricordo! E’ che oggi si ascoltano poco i dischi… Si ascoltano le hit, o cose del genere, su internet: ascolti tre o quattro canzoni di un musicista e magari non sai neanche da che disco provengano.

Quindi non sei una grande ascoltatrice di dischi…
In effetti potrei impegnarmi un po’ di più. Vorrei essere più brava… In fondo ascolto musica tutto il giorno e trovo sempre qualcosa di nuovo su internet, ma di solito vado su YouTube e ascolto una playlist di un musicista che non indica da che disco siano tratti i pezzi, né da che periodo vengono. Stupido, no? Specialmente quando incappi in un disco che è bello dall’inizio alla fine. Ce n’è uno che posso citare ora, perché l’ho sentito ieri sera dal vivo al festival di Umea. È di Ane Brun, una musicista svedese [in realtà norvegese, ma residente in Svezia, ndr] e credo che si chiami come lei. Ecco, quello è un disco che ho amato dall’inizio alla fine.

La carica dei 101

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Ora che il 2013 è quasi finito, potrebbe essere tempo di bilanci. Invece mi sono posto una domanda: oltre a tenere botta, cos’ho fatto in questi dodici durissimi mesi? Facile: sono andato a concerti. Più di cento in dodici mesi. Eccoli inutilmente elencati, a rimarcare che questo è anche un diario. Buon anno nuovo a tutti.

Diaframma + Stare Mesto, Locomotiv Club, Bologna, 11 gennaio
Bachi da Pietra, Bentivoglio Club, Bologna, 24 gennaio
Kaos + DJ Craim, Locomotiv Club, Bologna, 25 gennaio
Matt Elliot, Happen Club, Modena, 27 gennaio
Comaneci, Bentivoglio Club, Bologna, 30 gennaio
Thony + Mimes of Wine, Covo Club, Bologna, 1 febbraio
Howe Gelb, Chet’s Club, Bologna, 4 febbraio
Ginevra Di Marco, Bentivoglio Club, Bologna, 7 febbraio
The Jon Spencer Blues Explosion + The Mentalettes, Bentivoglio Club, Bologna, 14 febbraio
Darkstar, Bentivoglio Club, Bologna, 15 febbraio
Simone White, Chet’s Club, Bologna, 18 febbraio
Metz + Boomerang, Freakout Club, Bologna, 22 febbraio
Wallis Bird, Unhip Records Headquarters, Bologna, 4 marzo
Kid Koala, Locomotiv Club, Bologna, 8 marzo
Beach House, Estragon Club, Bologna, 9 marzo
Ornaments, Locomotiv Club, Bologna, 15 marzo
Matmos + Dario Neri, Locomotiv Club, Bologna, 16 marzo
Giuradei, Bentivoglio Club, Bologna, 21 marzo
Godflesh + Nerodimarte + Bologna Violenta, Locomotiv Club, Bologna, 22 marzo
Caroline Keating, Bar Modo Infoshop, Bologna, 27 marzo
Adam Green & Binki Shapiro, Covo Club, Bologna, 30 marzo
John Grant, Teatro Parenti, Milano, 11 aprile
Rammstein, Unipol Arena, Bologna, 26 aprile
Ronin + Marnero, XM 24, Bologna, 2 maggio
Gazebo Penguins + I giorni dell’assenzio + The Death of Anna Karina, TPO, Bologna, 4 maggio
Unepassante, Bar Modo Infoshop, Bologna, 8 maggio
Beatrice Antolini, Locomotiv Club, Bologna, 10 maggio
Teho Teardo e Blixa Bargeld, Senza Filtro, Bologna, 11 maggio
Girls vs Boys, Locomotiv Club, Bologna, 12 maggio
Foxhound, Primavera Sound, Barcellona, 22 maggio
Delorean, Primavera Sound, Barcellona, 22 maggio
Blue Willa, Primavera Sound, Barcellona, 23 maggio
Honeybird & the Birdies, Primavera Sound, Barcellona, 23 maggio
Savages, Primavera Sound, Barcellona, 23 maggio
Tame Impala, Primavera Sound, Barcellona, 23 maggio
The Postal Service, Primavera Sound, Barcellona, 23 maggio
Grizzly Bear, Primavera Sound, Barcellona, 23 maggio
Dead Skeletons, Primavera Sound, Barcellona, 23 maggio
Honeybird & the Birdies, Primavera Sound, Barcellona, 24 maggio
Django Django, Primavera Sound, Barcellona, 24 maggio
The Breeders, Primavera Sound, Barcellona, 24 maggio
Neurosis, Primavera Sound, Barcellona, 24 maggio
Blur, Primavera Sound, Barcellona, 24 maggio
The Knife, Primavera Sound, Barcellona, 24 maggio
Daphni, Primavera Sound, Barcellona, 24 maggio
Dead Can Dance, Primavera Sound, Barcellona, 25 maggio
Phosphorescent, Primavera Sound, Barcellona, 25 maggio
My Bloody Valentine, Primavera Sound, Barcellona, 25 maggio
Honeybird & the Birdies, Primavera Sound, Barcellona, 26 maggio
Miguel Serra, Apollo, Barcellona, 26 maggio
Allah-Las, Apollo, Barcellona, 26 maggio
Come, Locomotiv Club, Bologna, 30 maggio
Alessandro Raina, Bar Modo Infoshop, Bologna, 5 giugno
Perturbazione, Botanique, Bologna, 13 giugno
Marnie Stern, Botanique, Bologna, 19 giugno
Ornaments + Zeus + Marnero, Freakout Club, Bologna, 20 giugno
Lambchop, Teatro Masini, Faenza, 21 giugno
Deerhunter, Vicolo Bolognetti, Bologna, 26 giugno
The Black Angels, Cortile del Castello Estense, Ferrara, 5 luglio
Tom Tom Club, Vicolo Bolognetti, Bologna, 10 luglio
Arctic Monkeys + Miles Kane, Piazza Castello, Ferrara, 11 luglio
Elio e le storie tese, Parco della Mezzaluna, Sant’Agata Bolognese, 14 luglio
Petrina, Botanique, Bologna, 18 luglio
Vadoinmessico, Botanique, Bologna, 19 luglio
Vadoinmessico, Hana-Bi, Marina di Ravenna, 23 luglio
Neil Young & the Crazy Horse, Piazza Napoleone, Lucca, 25 luglio
Sigur Ros, Piazza Castello, Ferrara, 26 luglio
King of the Opera + Fast Animals and Slow Kids, Parco della Resistenza, San Lazzaro di Savena, Bologna, 4 agosto
Melt Yourself Down, Propstore, Londra, 17 agosto
Drenge, Rough Trade East, Londra, 19 agosto
Nine Inch Nails + Tomahawk, Mediolanum Forum, Milano, 28 agosto
Elio e le storie tese, Gran Teatro Geox, Padova, 21 settembre
Fuck Buttons, Locomotiv Club, Bologna, 25 settembre
Bob Log III + Adriano Viterbini, Locomotiv Club, Bologna, 27 settembre
In Zaire + Fulkanelli, Locomotiv Club, Bologna, 3 ottobre
Dimartino + Giovanni Truppi, Locomotiv Club, Bologna, 4 ottobre
Virginiana Miller + Elisa Genghini, Locomotiv Club, Bologna, 10 ottobre
Russian Circles + Chelsea Wolfe, Locomotiv Club, Bologna, 14 ottobre
Man or Astroman? + The Octopus Project, Locomotiv Club, Bologna, 17 ottobre
Julie’s Haircut + Portfolio + Blue Willa, TPO, Bologna, 19 ottobre
65daysofstatic + Sleep Makes Waves, Locomotiv Club, Bologna, 24 ottobre
Sycamore Age, Senza Filtro, Bologna, 25 ottobre
Public Image Ltd. + Soviet Soviet, Estragon Club, Bologna, 26 ottobre
Public Service Broadcasting, Salumeria della Musica, Milano, 27 ottobre
Massimo Volume + Modotti, Bronson, Ravenna, 31 ottobre
Gazebo Penguins + Sex Offenders Seek Salvation, Covo Club, Bologna, 1 novembre
Ovo + Zolle + Uochi Toki, Bronson, Ravenna, 2 novembre
Iceage + Modotti, Locomotiv Club, Bologna, 6 novembre
Kaki King, Locomotiv Club, Bologna, 8 novembre
These New Puritans, Locomotiv Club, Bologna, 12 novembre
Steven Wilson, Teatro Duse, Bologna, 13 novembre
Jennifer Gentle + Universal Sex Arena + C+C=Maxigross, TPO, Bologna, 16 novembre
Unknown Mortal Orchestra + Mozes and the Firstborn + Brothers in Law, Mattatoio, Carpi, 22 novembre
Loop, Locomotiv Club, Bologna, 28 novembre
Nick Cave & the Bad Seeds + Basia Bulat, Paladozza, Bologna, 29 novembre
Califone + Aedi, Locomotiv Club, Bologna, 5 dicembre
Calibro 35 + Junkfood, Locomotiv Club, Bologna, 6 dicembre
Saluti da Saturno, Locomotiv Club, Bologna, 10 dicembre
Iosonouncane + K-Conjog + Tempelhof, TPO, Bologna, 13 dicembre
Massimo Volume + Amaury Cambuzat + Ofeliadorme, Estragon Club, Bologna, 14 dicembre
Egle Sommacal, Kinodromo, Bologna, 16 dicembre

Pushing the envelope: intervista a Kaki King

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La mia conoscenza di Kaki King è direttamente legata al mondo dei blog. Poco meno di una decina di anni fa, infatti, un’amica-di-splinder, M., mi parlò di questa giovanissima chitarrista che faceva miracoli. “Tipo Ani Difranco?” “Di più”, mi aveva detto M., facendomela ascoltare. All’epoca, però, pensai che quello era funambolismo, più che musica. Qualche tempo dopo, però, cambiai idea e ascoltai attentamente le sue canzoni, trovandoci un’abilità notevole non solo nell’esecuzione, ma anche nella scrittura dei brani. Da allora ho avuto modo di chiacchierare con la musicista, ma solo agli inizi del mese sono riuscito (finalmente) a farla suonare a Maps, poco prima dell’ultimo concerto a Bologna (una città per la quale Kaki non ha mai nascosto il suo amore viscerale). Qui di seguito trovate la trascrizione dell’intervista, che potete sentire sul sito della radio insieme allo showcase.

Vorrei davvero sapere qualcosa sul tuo passato e sul tuo futuro: sono passati dieci anni dal tuo esordio discografico. Pensi di avere raggiunto degli obiettivi che ti eri posta allora, non te ne sei posta nessuno, ti senti più vecchia… Raccontami.
Non avevo obiettivi, all’epoca; neanche mi aspettavo di fare la musicista, per vivere: è successo, attraverso diversi accadimenti. L’unico obiettivo che credo di avere mantenuto è quello che noi chiamiamo “pushing the envelope”, cioè oltrepassare i limiti, sperimentare, cercare di fare sempre qualcosa di nuovo. Non è facile: nel mondo della chitarra, così come nella musica in genere, è stato fatto tantissimo, ma le mie orecchie cercano sempre di captare quella cosa, magari piccola, che ancora nessuno ha considerato. Ecco la sfida: non che ci riesca sempre, è ovvio. Dieci anni dopo mi sembra quindi, sorprendentemente, di avere appena iniziato: forse è un cliché, ma per me è vero. Il processo di scoperta della chitarra è infinito e non finirò mai di imparare. Non diventerà mai qualcosa di facile, è sempre una sfida. Sono grata per questo, perché se raggiungessi il massimo nel mio mestiere e non potessi andare oltre, che vivrei a fare? Quindi ci sono dei progetti molto interessanti nel mio immediato futuro, molto al di là della mia “comfort zone”, dello stare a mio agio.

Quali sono le cose che affronterai che ti metteranno a disagio?
In questo momento sono molto a disagio, perché sto creando un pezzo per chitarra e un’orchestra di sedici elementi, quartetto d’archi, oboe, clarinetti, ottoni, eccetera, che debutterà alla Carnegie Hall nella prossima primavera, a maggio. Sto scrivendo io stessa le partiture, ma non ho davvero imparato a farlo quando studiavo musica: ero un’adolescente, me l’hanno insegnato, ma insomma, devo imparare da capo qualcosa che la maggior parte dei musicisti conosce già. Una bella sfida, per non parlare del rapporto con il direttore d’orchestra e con questi musicisti davvero eccezionali: può intimidire. Inoltre lavoro con gli ETHEL, un quartetto d’archi molto famoso di New York: abbiamo collaborato diverse volte, suonano in un mio disco [l’ultimo Glow, del 2012, ndr] e andremo in tour insieme. Quindi, scrivo anche per loro, ancora una volta scrivendo le parti. Ma quando hai a che fare con persone che suonano così bene il loro strumento, devi scrivere per loro, conoscere quello che sono capaci di fare, ciò che gli piace e che non gli piace… Insomma, è questione di sfumature. Infine, sto progettando un live con una chitarra completamente bianca sulla quale vengono proiettate delle immagini che interagiscono con le mie mani mentre suonano. Le immagini sono proiettate anche su un grande schermo dietro di me, quindi c’è interazione tra queste diverse immagini e animazioni che in qualche modo raccontano una storia. Ecco, questo è il mio nuovo progetto che diventerà il mio nuovo album; d’altro canto, non mi sono mai molto occupata delle luci e simili, e l’aspetto visivo è così focalizzato su me che suono che tutta questa evoluzione è totalmente nuova. Ancora una volta: non sono in una posizione comoda, ma penso di dare il meglio in queste circostanze.

Non so se guardi il pubblico, quando suoni, ma se lo fai ti chiedo quale sia l’atteggiamento di chi ti ascolta che più ti rende felice.
Per me è dura, perché alcune delle mie canzoni sono molto energetiche, ma altre scavano a fondo nelle emozioni, e spesso sembra che la gente, semplicemente, mi fissi quando suono e non capisco cosa provino. Mi guardano e basta e penso: sono arrabbiati? Ho sbagliato qualcosa? Poi, dopo il concerto, vengono da me e mi dicono “Dio, quella canzone è stata un sogno, meravigliosa…” Ti posso dire che mi piace tanto quando dal pubblico mi sorridono, quando mi restituiscono un po’ di amore. Quando sei a teatro e vedi una rappresentazione c’è la quarta parete: il pubblico guarda e non interagisce. Talvolta la gente prende i miei live per uno spettacolo teatrale, perché suono la chitarra in maniera intensa, ma la verità è che amo entrare in contatto con il pubblico, vorrei ricevere anche io un po’ di bene, oltre ai baci che mi mandano.

Capisco il paragone con il teatro, ma, da spettatore dei tuoi live, ti posso dire che guardandoti fare quei prodigi con la chitarra si ha paura di farti perdere la concentrazione. Magari ho voglia di urlare, ma poi mi dico: e se urlo e sbaglia?
(ride) Non ci avevo mai pensato!

Se ci dai il permesso, possiamo urlare e fare un po’ di casino?
Certo, sarebbe meraviglioso! Dovete farlo!

Il 2013 è quasi finito: c’è stato qualche disco che ti ha colpito in qualche modo?
Mi sento un po’ in imbarazzo, perché ho passato il 2013 ascoltando quasi del tutto musica vecchia. Non voglio scegliere il disco sbagliato… Mi è piaciuto molto l’ultimo disco dei Tame Impala: per qualche ragione è finito sul mio stereo e l’ho ascoltato a ripetizione, è figo. Poi… è difficile, sulle cose recenti. Ho sentito molta bossanova brasiliana, ma ho prestato poca attenzione alla musica nuova, quest’anno: ho ascoltato molti chitarristi classici e compositori come Stravinskij, Chopin, Prokof’ev… Stavo imparando di nuovo a leggere e scrivere musica per orchestra, è stata la mia sfida. Quindi rifiuto ufficialmente di rispondere alla domanda, perché sento di essermi persa molto, ma dovevo recuperare alcune altre capacità.

Semplicemente rock: intervista ai Drenge

Drenge - 19.08.13 -03

Il 19 agosto scorso ero a Londra: un paio di giorni dopo avere intervistato i Melt Yourself Down avevo appuntamento con i Drenge, che quel giorno facevano uscire il loro album di debutto per la Infectious Records, una delle etichette britanniche più attente alla nuova musica che, ancora una volta, non ha sbagliato. Rory e Eoin Loveless, batteria e voce/chitarra, fanno un rock scarno e crudo, senza ammiccamenti, potente. E, soprattutto, che funziona. Poco prima dello showcase alla Rough Trade (dove buona parte del pubblico era coetaneo, se non più giovane, dei due fratelli ventenni di Sheffield) ho chiacchierato con la band, arrivata all’appuntamento in notevole ritardo e con l’imbarazzo di due ragazzi che hanno scazzato di fronte a Pat, il capo dell’etichetta, e al secondo giornalista italiano con cui avevano avuto mai a che fare fino ad allora. Eoin, il più grande, aveva l’aria più spavalda. Il batterista (come molti batteristi?) era più introverso e vagamente vittima del maggiore. Ma entrambi hanno dimostrato qualità che si percepiscono anche nella loro musica: sono sinceri e diretti. Quale band “hype” ammetterebbe di avere suonato cover dei Keane e dei Razorlight?

Come avete cominciato a suonare? Qual è la storia della band ad oggi?
Rory. I nostri genitori ci hanno spinto a imparare il piano quando eravamo piccoli, suonavamo insieme, ma non ci piaceva il piano. Quindi io ho cominciato a suonare la batteria e Eoin la chitarra. Alla fine abbiamo fatto altre lezioni, suonato insieme e imparato delle cover. Quindi, un paio d’anni dopo, abbiamo scritto le nostre prime canzoni…

Che anno era?
R. Circa il 2011…
Eoin. 2010.
R. Nel 2010. E abbiamo iniziato a fare qualche concerto a Sheffield e diciamo che tutto è cominciato da lì. Abbiamo poi fatto un concerto a Londra, quindi a Manchester, a Leeds e poi in tutto il Regno Unito. Abbiamo continuato, registrato qualcosa, quattro pezzi due anni fa, a settembre, e altri tre o quattro un anno dopo. Il contratto discografico è arrivato a dicembre 2012 e quindi abbiamo registrato alcune cose per metterle insieme e fare il disco… che è uscito oggi!
E. Da quelle sessioni abbiamo fatto tanti altri concerti…

Guidando avanti e indietro da Sheffield! Vi ricordate che cosa suonavate agli inizi, che tipo di jam facevate, o erano cover?
R. Sì, facevamo cover di vari musicisti… I Keane…
E. [un po’ imbarazzato] Era molto tempo fa…
R. Abbiamo anche fatto una specie di cover alla lontana di “What A Wonderful World” di Louis Armstrong. E poi i White Stripes…
E. Anche se è un po’ deprimente ammetterlo… anche i Razorlight.
R. Già, i Razorlight.

Di tutte le band citate mi pare che i White Stripes siano gli unici a cui il vostro suono si avvicina, ma sono curioso della scelta di Louis Armstrong…
E. In realtà posso solo dirti che quella canzone mi piace e mi sono chiesto che ne potevo fare.

Di band con la vostra line-up ce ne sono: se doveste, quindi, definire la vostra caratteristica, la vostra peculiarità, cosa direste?
E. JEFF the Brotherhood sono in due, sono fratelli, ma più vecchi di noi. Potremmo quindi definirci la versione più giovane di quella band. Ecco la nostra peculiarità! In realtà penso che molte di questi duo vengono dagli Stati Uniti, non ci sono molte band britanniche così formate che fanno rock. E inoltre veniamo dalla campagna e abbiamo un gusto musicale molto ampio. Ecco, queste sono nostre caratteristiche che si rispecchiano anche nelle canzoni.
R. Quando abbiamo iniziato a suonarle, tre anni fa, non conoscevamo molti gruppi. La maggior parte dei nostri amici ascoltava dubstep o elettronica, cose così. Ovviamente ora è meno strano perché ne conosciamo di più.
E. Ha senso quello che hai detto?
R. No. [ridono]

La stampa musicale inglese è nota per creare fenomeni ogni settimana e il chiacchiericcio intorno al vostro nuovo album è enorme e non solo nell’ambiente strettamente musicale. Questo vi mette sotto pressione?
R. No, non mi sento sotto pressione.
E. Basta ignorare queste cose e andare avanti. Non è che ti dicono che hai fatto il miglior disco del mondo, dicono che è un disco molto buono e va bene così. Non è un album difficile, appartiene a un genere semplice, basilare, uno dei più vecchi. Non è nulla di complesso o che cambi le carte in tavola: è semplicemente rock. A parte quello che si dice intorno al disco, è un genere diretto che credo noi non suoniamo così male.

Un parlamentare inglese vi ha citati come band da ascoltare, in un’intervista ormai nota. In risposta a questa intervista, però, avete detto (cito) che “sarebbe stato meglio che la gente ci avesse conosciuto in maniera diversa”. Qual è il modo migliore di scoprire la vostra musica?
E. Abbiamo fatto da spalla ad alcune delle nostre band preferite: ecco un buon modo. A me piace chi apre i concerti, cerco sempre di vedere le band di supporto perché spesso si fanno delle belle scoperte. Abbiamo visto gli Splashh, quattro ragazzi che vengono dall’Australia, dalla Nuova Zelanda e da Londra, e c’erano due band con loro, i Wolf Alleys e i Big Deal: davvero bravi. Ci siamo ritrovati spesso nel circolo dei festival e siamo diventati amici.
R. Penso che abbia fatto gioco anche una bella comunità on line: blog e simili. E per gli appassionati di musica c’è una ricchezza di buone informazioni. È un bel modo per farsi conoscere. Perché in fondo se piacciamo a Tom Watson [il parlamentare di cui sopra, ndr], questo ci fa conoscere a un pubblico a cui in realtà della nostra musica non interessa poi molto, e d’altro canto la musica che facciamo non è per loro. Viene accolta in maniera frontale e ignorante da persone a cui non interessa la musica.

Qual è la vostra posizione sul download legale o illegale? Rendereste il vostro disco scaricabile liberamente?
R. Non saprei. Penso sia importante avere la possibilità di ascoltare la musica gratuitamente, ma è altrettanto importante dare un sostegno alle band. La gente lo fa venendo ai concerti. Il modo che ho io di comprare la musica è di ascoltare qualcosa on line e se mi piace la compro su un supporto fisico, anche perché in un certo senso se la pago le do più valore. E’ bello tornare a casa da un tour e mettere su un disco: mi piace più che avere musica costantemente. Ma se non hai i soldi e apprezzi la musica, be’, non farei nulla per impedire che tu possa ascoltare ciò che ti piace.
E. Credo che il punto sia come sfrutti l’artista scaricando musica gratuitamente, se suoni questi pezzi in un dj set o in un club. Abbiamo firmato un contratto per vendere il disco, non perché la gente lo scaricasse. Non sono come Kanye [West, ndr, il cui ultimo disco Yeezus non ha copertina], che pare incoraggi la pirateria. Abbiamo fatto in modo che la versione finale su vinile sia la migliore possibile in assoluto che tu possa comprare. Abbiamo impiegato del tempo per l’artwork, è l’unico formato che ha la stampa in caratteri dorati sul retro… Insomma, è speciale. Abbiamo anche fatto uscire dei singoli su sette pollici e ovviamente puoi anche comprarlo in mp3, ma cerchiamo di spingere la gente verso il lato fisico del disco, con la copertina grande e le stampe colorate.

Accidenti, l’ho appena comprato in cd.
E. Ma va bene lo stesso! È venuto molto meglio di quanto credessi: è stata la prima cosa che abbiamo avuto in mano ed ero colpito dalla stampa delle parole… È davvero bello. Insomma, il cd arriva secondo ma di poco, al fotofinish! (ride)

Parliamo un po’ delle parole delle canzoni: hanno a che fare col posto da dove venite? Ha avuto un’influenza sulla scrittura?
R. Certamente. Eoin ha scritto la maggior parte delle canzoni in un anno di pausa: non faceva niente se non stare seduto a casa e scrivere canzoni. Si è annoiato. C’è molto cinismo, cose buffe senza significato, momenti più rabbiosi…

Sei intervenuto nella scrittura delle parole?
R. Ci ho provato, ma mi ha cacciato via!
E. Sarebbe stato bello condividere anche questo, ma era una specie di frustrazione per me e per lui. Insomma, i compiti ce li dividiamo così.
R. Il posto da dove veniamo è distante e remoto: ci vuole un’ora di autobus per arrivare a Sheffield, il che è molto scocciante. Quando suonavamo a Sheffield dovevamo tornate con l’autobus e non potevamo rimanere a sentire le band dopo di noi. Non potevamo fare nulla! Io sono andato a scuola a Sheffield ed ero stupidamente invidioso dei ragazzi che abitavano là.

Ditemi quali sono i vostri dischi dell’isola deserta: cinque, due a testa e uno che vada bene per tutti e due.
E. Il tuo? No, iniziamo con quello che porteremmo entrambi. Moderno o classico?
R. Io direi classico, perché è sicuramente bello. Forse Highway 61 Revisited di Bob Dylan.
E. Sì, va bene, c’è “Desolation Row”, non è un album da spararsi così, è la canzone lunga alla fine… Highway 61 Revisited per tutti e due. Poi io mi porterei White Blood Cells dei White Stripes e anche Romance Is Boring dei Los Campesinos! O Pearl Mystic degli Hookworms.
R. È una domanda difficile… Probabilmente Solid Air di John Martyn, mi piace un sacco. E Los Angeles di Flying Lotus.
E. Quando pensiamo a questa cosa dell’isola deserta, non credo che vengano fuori i nostri dischi preferiti…
R. … ma quelli a cui pensiamo al momento!
E. No, no… Mi viene da pensare: “Sono bloccato su un’isola deserta con questi dischi, quindi devono essere dischi che ho già amato”.

Grazie a Emily Clancy per l’aiuto nella traduzione. L’intervista viene trasmessa oggi a Maps e potete ascoltarla qua.

La bellezza di “Tookah”: intervista a Emiliana Torrini

emiliana

Ci sono delle interviste che sulla carta non sono più difficili di altre, ma che vengono rese ardue dalle condizioni in cui si svolgono. Da quando mi era stata ventilata la possibilità di intervistare la Torrini a quando la chiacchierata è avvenuta effettivamente è passato più di un mese, ma questo è normale. Meno consueto è che proprio nel momento dell’intervista tutti i telefoni della Rough Trade di New York (dove la musicista si trovava per provare il nuovo tour, che tocca Milano l’11 novembre, unica data italiana) abbiano deciso di andare in tilt e che quindi la chiacchierata sia avvenuta via cellulare. “In questi uffici c’è poco campo”, mi ha detto la Torrini prima che cominciassi a registrare. O almeno, credo abbia pronunciato quelle parole: intendere le sue risposte in certi frangenti è stato davvero difficile. Ecco quello che ci siamo detti.

L’ultimo disco si chiama Tookah. Che significa?
“Tookah” è una parola venuta fuori mentre improvvisavo una canzone: ogni volta che la cantavo mi rimandava a qualcosa di dolce, a qualcosa in me. Mi dà l’idea di essere qualcosa di bello, gentile, legato alla felicità, come se fosse un posto bello. Abbiamo avuto fortuna che sia spuntata così. Ormai è qualcosa legata alla mia essenza interiore: è stata una bella scoperta, e l’ho chiamata “tookah”.

Il disco ha un’atmosfera felice, ma talvolta i testi non lo sono, diventano quasi violenti, come nell’ultima traccia che chiude il disco in un modo piuttosto crudo. Quali erano i tuoi pensieri e sentimenti quando la registravi?
Il disco e la sua copertina parlano molto del dualismo: i due lati di noi, inscindibili. Non possiamo esistere solo con uno. L’album inizia con “Tookah” e finisce con “When Fever Breaks”; ci sono alcune canzoni, come “Blood Red”, in cui due voci si parlano, in cui una parte dialoga con l’altra. Il disco racconta dell’opposizione sì/no, di quella buono/cattivo, di questo tipo di conversazioni. L’argomento mi affascina, perché anni fa, quando ho subito un certo trauma, ho avuto un momento difficile, ho sfiorato la malattia mentale e ho dovuto riconsiderare queste due parti. Trovo il concetto molto interessante. È vero, il disco finisce in maniera violenta, ma si tratta di una violenza particolare: nessuno viene ucciso. Si parla più di passione, di perdita, di un dirottamento dell’amore che confonde.

In che periodo della tua vita esce questo disco? Non sei molto prolifica, quindi immagino che ti prenda i tuoi tempi: quando hai colto la prima scintilla e hai deciso di produrre il disco?
C’è stato davvero tanto tanto lavoro dietro all’ultimo disco. Con il disco precedente sono stata in tour per due anni e mezzo e mancavano tre settimane alla fine del tour quando ho scoperto di essere incinta di mio figlio. Ho quindi deciso che sarei rimasta a casa per un paio di anni, a fare la mamma. E mentre facevo la mamma dedicavo del tempo alla scrittura del disco, forse due volte alla settimana: era un’esperienza meravigliosa, ancora una volta c’erano due lati. C’era questa piccola creatura bisognosa di cure: pensavo che doveva mangiare, un giorno sarebbe andato all’università… Volavo con la mente. Ero molto confusa e ho dovuto prendere una pausa dai momenti creativi dedicati al disco perché non ero pronta. E quando ho deciso che non ero pronta… naturalmente è lì che è iniziato il vero lavoro. Ho fatto una sorta di viaggio del suono, ho sperimentato il comporre con altre persone, una sorta di sinfonia… Così venuto fuori un disco, Tookah.

Come hai lavorato con i produttori e coautori del disco, Dan Carey, Simon Byrt e Ian Kellet? Quali sono stati i loro ruoli e a cosa hanno contribuito davvero?
Con Dan abbiamo un metodo di lavoro per cui siamo completamente collegati in studio: lui suona alla chitarra e io sono al microfono con gli accordi. Se, quando inizia a suonare, io reagisco in qualche modo, registriamo e infine spuntano anche le parole. C’è improvvisazione: lui si occupa della parte di chitarra, io della melodia e delle parole.

Cosa mi racconti degli strumenti usati? Ho letto in rete che Dan ti ha portato dei synth e cose del genere: è stato un regalo, una sorpresa o è stata più una cosa di lavoro?
No, stavamo guardando dei video su YouTube di questi cugini che hanno fatto un nuovo strumento: si chiama Swarmatron e l’abbiamo ordinato. È arrivato dopo mesi, perché andava costruito ex novo. Nel frattempo ne abbiamo visto un altro per caso in cui un nerd del sintetizzatore ne suonava uno chiamato Oppenheim che mi ha veramente colpito. Sono diventata patita del mondo dei synth e abbiamo deciso di usarlo per un progetto collaterale a cui stiamo lavorando, di divertirci suonandolo. Insomma, sono io che ho portato questi synth e le idee a loro legate nel disco. È stato un viaggio bellissimo, perché è stata anche una sfida per Dan il fare musica così, il mischiare bene una musica diciamo folk con l’elettronica e i synth. Dev’essere fatta molto bene, o può venire uno schifo. È difficile tenere tenere un suono piacevole ma avere spazio nella musica, silenzi, le dinamiche giuste. Insomma, è stata una sfida su qualcosa di bello, interessante…

Hai registrato il disco pensando alla sua resa live oppure l’ambito di studio e quello dal vivo sono separati del tutto, per cui pensi all’arrangiamento live dopo che hai chiuso l’album?
Di solito accade dopo, sì. Mentre lavoravamo al disco non pensavamo assolutamente a nient’altro. Non si va oltre a “Che bella canzone, questa!”, quando scriviamo. Si tratta di qualcosa di molto chiuso e intimo, una bolla in cui viviamo. Solo dopo pensiamo ai live: talvolta è piacevole, altre è una specie di lotta, perché alcune canzoni non riescono così bene dal vivo, alcune sono migliori di altre. Ma certo, quando pensi al live entri in un mondo completamente diverso: pensi a come renderle sul palco, ma anche a come provarle. È del tutto differente.

Le nuove canzoni, dal punto di vista dei timbri e dei colori, influenzano la resa dal vivo dei brani più vecchi? Lo spirito di Tookah, insomma, le infonde dal vivo?
Sì, ma è una cosa che avviene col tempo, non subito. È qualcosa che ha a che fare con il suonare insieme. Più si suona insieme, più le cose si inquadrano in un disegno preciso, ma non è una cosa che stiamo facendo ora. Per ora sto ancora sudando con le prove con la band, perché sono in un Paese diverso [gli Stati Uniti, ndr], non posso andarmene troppo, ma le cose inizieranno a evolvere, penso. Lo spero! [ride] C’è una nuova band che deve imparare le canzoni nuove… Gli inizi sono sempre momenti interessanti.

Quali dischi ti sono piaciuti di più, tra quelli usciti quest’anno?
In quest’anno ho ascoltato molto il disco di Ásgeir Trausti, nella versione islandese, che adoro. Ho ascoltato anche John Grant. Faccio dei mix cd per mio figlio, perché non intendo sedermi in macchina e ascoltare le canzoni dell’asilo! Ho fatto questi cd, così li ascoltiamo insieme in macchina. Velvet Underground, Harry Nilsson, i Beach Boys, cose così.

A proposito della versione inglese dell’album di Ásgeir Trausti, quando sono stati pubblicati i primi video su YouTube ho visto alcuni commenti piuttosto critici da parte di utenti islandesi a proposito della traduzione. Tu che ne pensi? E, in genere, qual è la differenza tra cantare in inglese o islandese, una lingua peraltro molto musicale.
Non saprei: credo solo che sia bello che ci siano due versioni del disco per Ásgeir. Va bene, chi vuole l’ascolta in inglese, se no c’è quella in islandese. È bello avere la possibilità di scegliere. Adesso, perchè è Ásgeir, probabilmente potrebbe cavarsela anche cantando solo in islandese, ma credo sia fantastico che ci siano entrambe le versioni. Io sono cresciuta parlando anche molto inglese: ero in Germania, Italia (ma non parlo italiano) e ho cominciato a scrivere in inglese presto. In tutta la mia carriera sono stata molto criticata per non cantare in islandese, ma credo che sia una questione legata ai tempi. La musica su internet è in quantità soverchiante, ognuno ha migliaia di dischi sull’iPad, ma nessuno sa cosa possiede. La gente sta tornando alle proprie radici, davvero tanto. Torna al loro Paese e sta accadendo anche in Islanda. Ásgeir Trausti sta tornando a cantare in islandese, molto di più di quanto facesse prima. I fan a casa sono sempre di più, e questo penso che accada ovunque. Le persone stanno perdendo molti legami con la propria musica e con chi la fa. Comunque non so se farò mai un disco in islandese: dovrei cominciare a scrivere in quella lingua e non l’ho mai fatto!

Qui l’intervista audio, che va in onda nella puntata di Maps di oggi.
Grazie a Emily Clancy per l’aiuto nella traduzione.

“Vogliamo che l’ascoltatore si perda nella nostra musica”: intervista ai MGMT

mgmt

Diciamolo subito: l’ultimo disco dei MGMT, il cui nucleo è formato da sempre da Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser, non funziona quanto il predecessore, Congratulations, un album che in molti, a mio avviso, hanno completamente sottovalutato. Ma il self titled uscito a settembre dimostra come la band persegua una propria strada, rischiando e mettendosi in gioco di continuo. Non è un caso che anche l’ultimo disco veda alla produzione di molti pezzi Dave Fridmann, al lavoro su quasi tutti i dischi dei Flaming Lips, una band per molti versi simile ai MGMT. In entrambi i casi c’è una ricerca del tutto personale nei suoni e nei temi, e un flirt da sempre esplicito con la psichedelia, intesa in diverse accezioni. La scorsa settimana, a Maps, ho intervistato al telefono Andrew: abbiamo parlato del disco, della band, della psichedelia e del potere magico della musica. Ecco la trascrizione della chiacchierata, che trovate in versione audio qua.

Uno dei nuclei tematici di Congratulations, il disco che precede MGMT, aveva a che fare con le conseguenze del successo del disco precedente, Oracular Spectacular: quali sono le basi del nuovo disco e come si collega al precedente?
Nel nuovo disco ci sono un paio di pezzi che, dal punto di vista tematico, dei testi, si rifanno alle esperienze vissute con i primi due album. Dal punto di vista musicale, invece, ci siamo mossi su terreno completamente nuovo: le nuove canzoni sono basate su improvvisazioni, sono un perdersi dentro alla musica. Abbiamo voluto fare delle canzoni che sembrassero provenire da un’altra dimensione.

Sembra che in MGMT abbiate raggiunto una piena “consapevolezza psichedelica”, dopo averne avuto qualche indizio in Oracular Spectacular e alcune piene conferme in Congratulations: avete quindi ottenuto il suono che cercavate da sempre, oppure questo è solo un altro passo verso una nuova tavolozza sonora?
Io e Ben crediamo che il nuovo disco rappresenti bene dove siamo ora, ma non è che abbia il suono definitivo della band. Speriamo sempre di cambiare suoni in ogni disco, pur rimanendo riconoscibili al pubblico. Ci sono alcune band che si comportano così. Quindi sì, credo che il prossimo disco sarà diverso ancora. Comunque credo che nel nuovo album ci siano un paio di episodi dove portiamo all’estremo la psichedelia, o meglio, la nostra idea di psichedelia che è portare la gente altrove (ride).

Come e dove avete registrato il disco?
A differenza del passato, abbiamo completamente scritto e registrato l’album in studio. Solo in occasione della prima sessione avevamo una canzone fatta, per il resto abbiamo lavorato in studio con Dave Fridmann (il produttore del disco, ndr). Lo studio è nella parte occidentale dello stato di New York, vicino al lago Eerie e ci siamo stati anche da soli, Ben e io, in pieno relax. In quei momento la nostra unica preoccupazione era creare musica che per noi fosse naturale e onesta.

Perché avete deciso di registrare la cover di “Introspection” di Faine Jade?
È una delle mie canzoni preferite del periodo psichedelico-pop, o flower-pop degli anni ‘60, che un mio amico mi ha passato un paio di anni fa. A un certo punto eravamo in studio e ci chiedevamo cos’avremmo fatto: abbiamo deciso di registrare una canzone scritta da altri, così da poterci concentrare solo sul suono, non sui testi o sulle strutture. Ci sono un sacco di album da cui estrarremmo delle cover…

Lavorare a una cover è un modo per rilassarsi e staccarsi dalla routine?
Esatto.

“Plenty of Girls in the Sea” è probabilmente la canzone, insieme alla cover citata prima, che si rifà in maniera più evidente all’era psichedelica “classica” degli anni ‘60. Mi ha ricordato alcune delle canzoni più leggere e meglio confezionate di Syd Barrett. Lui e il suo periodo sono i principali punti di riferimento dell’ultimo disco e della vostra musica in generale?
Syd Barrett e i primi Pink Floyd sono certo un riferimento e sono anche d’accordo su “Plenty of Girls in the Sea”: si rifà agli anni ‘60, anche se noi la vediamo orientata anche verso Harry Nilsson e i Cramps. Tuttavia credo che il disco sia anche influenzato da una serie di musicisti elettronici del periodo tra la fine degli anni ‘80 e i primi ‘90, molto importanti nella definizione del suono. Abbiamo cercato di ricrearli.

In molti testi di MGMT troviamo dei riferimenti all’inganno, all’illusione, anche alla bugia, come nel singolo “Your Life Is a Lie”. Come mai sei interessato a questi concetti, che tavolta come in “Congratulations”, la title track del penultimo disco, sono perfino coniugati in maniera concreta e realistica: lì dicevate che il successo non portava alle conseguenze che uno si aspetta o che gli pare di vedere…
Ben e io amiamo molto il concetto di dualismo nella musica: talvolta creiamo musiche ritmate e felici e le accoppiamo a testi sinistri o paranoici. È una delle cose che amiamo di più del fare musica insieme. Ma il tema delle bugie o, se vogliamo, della cospirazione, è ben presente anche nel primo disco. Nel secondo album un pezzo come “Flash Delirium” parla di come ci sia continuamente un mondo di distrazioni, e si fluttua sulla vita senza rendersi conto che ci sono alcune cose che rimangono a lato che sono molto più vere di quanto si creda. Quello che abbiamo voluto trasmettere in diverse canzoni del nuovo disco: credo sia salutare porsi alcune domande anche solo per pochi secondi, come il chiedersi se la propria vita sia una bugia. Il pezzo non è un modo per imporre qualcosa dall’alto alla gente, è più un suggerimento di porsi questa domanda da soli. Insomma, la psichedelia può essere spaventosa, ma allo stesso tempo portare a viaggi bellissimi.

E torniamo al dualismo…
Esatto.

Un’altra figura ricorrente è quella del narratore che trascina l’ascoltatore nel suo mondo, un mondo magico (o fin troppo reale), talvolta in maniera molto esplicita. Penso all’inizio di “Your Life Is a Lie”, dove canti: “Here’s the Deal / Open Your Eyes” (“L’accordo è questo / Apri gli occhi”). Ma in “Introspection” viene messo in discussione il potere delle profezie, o delle visioni. Quindi: la musica ha o non ha un potere sciamanico?
Penso di sì. Ben e io ci giochiamo, con questa cosa: specialmente nell’ultimo album, dove abbiamo improvvisato molto, come dicevo, e siamo arrivati quasi a stati di semi-trance, dove canalizzavamo qualcos’altro nella musica. È qualcosa che ho provato a fare anche nella scrittura di alcuni testi, perché molti autori che amo usano questo metodo per scrivere e creare. Arrivare a questo stato di semicoscienza, o come lo vuoi chiamare, è un approccio sciamanico, magico per fare arte e musica. Ecco perché abbiamo pensato all’Optimizer, questa componente visuale del disco che pensiamo aiuti l’ascoltatore a concentrarsi sulla musica, senza distrazioni. Vogliamo che l’ascoltatore si perda e venga trasportato dal disco.

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