There’s A Place

Andar di là – seconda parte

Sono stati i miei a farmi assaggiare per la prima volta la Radenska. Ne ho parlato anche qua, ma insomma, la Radenska è una delle acque minerali più naturalmente gassate del mondo. Diuretica, aiuta la digestione (e vorrei vedere), ha un leggero gusto salino: una meraviglia che ancora in Italia non si trova facilmente: d’altro canto siamo il paese delle acque minerali. Fidelizzo subito i miei compagni di viaggio all’acqua miracolosa e quindi, vista la pioggia, andiamo a vedere la fabbrica della Radenska. Dopo qualche domanda per eliminare il sospetto che fossimo delle spie industriali, ci accompagnano a vedere una delle linee di produzione. Sfortunatamente alla fine non ci danno neanche un gadget. E nemmeno una bottiglietta omaggio. Io mi sento come fossi alla gita d’istruzione delle elementari.

Mi sono chiesto perché non mi abbiano mai portato in gita in Slovenia, mai. Forse perché la mia maestra era una di quelle che non considerava molto l’esistenza di quel paese, o perché pensava che il comunismo si contraesse respirandone l’aria, non so. Quindi ho girato un po’ da bambino, grazie ai miei e ad una loro amica di origini slovene. Mi affascinava quando parlava con le persone del posto, e non vedevo l’ora che mi spiegasse il significato delle parole. Poi, un inverno, siamo andati a Kranijska Gora. Non l’avevo mai visto scritto prima, forse per questo non ho mai sbagliato a pronunciarlo, e, forse per questo non sono mai diventato un commentatore sportivo, non so. Un giorno siamo andati al lago di Bohinj e al lago di Bled: erano ghiacciati e bellissimi. Il loro scongelamento sarebbe durato quasi quindici anni, per me.

La differenza che passa tra il lago di Bohinj e quello di Bled è lo stesso che passa tra le grotte di San Canziano e quelle di Postumia (Postoijne, se lo volete sapere). Anche per questo non troviamo posto a Bled, neanche a pagarlo, o forse a pagarlo sì, ma insomma, e stiamo in una “penzion” privata a Bohinjska Bistrica, un paese a qualche chilometro dal lago. In questo caso credo che bastino le foto.
La signora della pensione parla solo lo sloveno: appena arrivati le mie due parole due la illuminano e ci spiega tutta la questione stanze-doccia-chiave-colazione in sloveno. Per fortuna gesticola abbastanza perché i miei “ja” siano a tempo.
L’ultima tappa del viaggio prevede la discesa della valle dell’Isonzo-Soča, ma il tempo è brutto. Decidiamo quindi di andare in un museo, quello di Kobarid. Il nome, forse, non vi dice niente.

Quando andavo in vacanza da piccolo e dicevo che ero di Gorizia, pochi sapevano dove fosse. Quei pochi che lo sapevano erano adulti e, a seconda dell’età, ricordavano i tempi della “naja”, passati in qualche caserma dell’isontino, oppure intonavano “Gorizia tu sei maledetta”. La maestra delle elementari ci parlava della Grande Guerra. Ungaretti anche, con uno stile un po’ diverso, a dire il vero, ma il legame c’è, visto che la mia scuola elementare è intitolata al poeta. I miei compagni di classe, ogni tanto, tornavano da gite solitarie e domenicali con pallini di granate. Qualcuno anche pezzi di elmo. Le ossa, no. Quelle marciscono. “Sacra terra”, “Isonzo fiume sacro alla patria”, il “Sacrario di Oslavia”. Manca solo l’odore di incenso. Dopo, solo dopo, Caporetto, Kobarid, una cittadina nella valle dell’Isonzo, tra le montagne. Ottobre del 1917. La più grande battaglia montana della storia dell’uomo. Una delle più grandi disfatte mai subite da un esercito. Il fronte che arretra, in una settimana di un centinaio di chilometri, in una guerra che era combattuta a metri.

Il museo è un casino dal punto di vista storico, diciamolo subito. Ma, com’è ovvio, colpisce allo stomaco. Il macello della prima guerra mondiale in scala “ridotta”. Il solito esercito italiano comandato da quel Cadorna che ha ancora vie, monumenti e stazioni a lui dedicate: sbaglia tutto quello che si può sbagliare.
I cartellini esplicativi sono, oltre che in inglese, in italiano, tedesco e sloveno, così come i documenti, i reperti, i diari dei soldati, i manifesti, i giornali In una stanza, lungo la parte superiore della parete, sfilano le bandiere sotto le quali è stata Kobarid: sono decine, a volte si ripetono, e finiscono con quella slovena, e la data dell’indipendenza.
Il fiume sacro alla patria scorre in una patria per la quale credo non sia sacro. Ma se ne sbatte e ci dona il suo colore cobalto per me tuttora inspiegabile.

Non ho mai considerato l’Isonzo, non ho mai considerato il confine, l’entità del confine, fino a quando non me ne sono andato da Gorizia. Non riuscivo ad avere la prospettiva sulle cose, solo adesso, dopo quasi dieci anni che sono a Bologna, riesco a sentirle. Quello che per gli altri era un altro stato, comunista, per giunta, per me era solo qualche metro più in là. Quello che era un confine era una sbarra, doganieri, poliziotti e finanzieri a cui mostrare la prepustnica o, molto più raramente, la carta d’identità. Documenti che non venivano quasi mai guardati, soprattutto se la macchina aveva una targa GO, uguale per le due città divise arbitrariamente tracciando dei segni sulla carta.

La lingua, mano a mano che si va verso ovest, sfuma verso suoni conosciuti, fino al cameriere del caffè di Štanijel che parla un italiano perfetto, e il vecchio vinaio che ci vende il terrano che produce che parla lo stesso italiano con accento sloveno che parlano alcuni anziani a Gorizia. Sto tornando verso dove sono nato.

Sono nato a qualche metro da una riga tracciata sulla carta.

“Guardate”, dico ai miei compagni di viaggio poco prima di tornare in Italia, “l’ospedale di Gorizia è quello là.” Del confine, neanche l’ombra.

Andar di là – prima parte

Non so con precisione dove si trovi il reparto di ostetricia dell’ospedale civile di Gorizia, ma devo comunque essere nato al massimo ad un centinaio di metri dalla Yugoslavia. “Yugo”, la chiamavamo. “Sciavi”, li chiamavano.
A dodici anni ho avuto il lasciapassare, prepustnica, per allungare le passeggiate domenicali. Mia madre mi comprava le scarpe Adidas in un grande magazzino di Nova Gorica.

Andare in Slovenia passando da Gorizia è piuttosto particolare. Anche senza attraversare la piazza Transalpina, già definita “il muro di Gorizia”, anche se era una rete alta un metro che impediva lo sguardo alla bellissima facciata della stazione ferroviaria “di là”. Rete già presa a picconate da Fini nel 1989. Quello che ci frega, a noi italiani, è la voglia di emulazione.

Da piccolo sapevo parlare un po’ di sloveno. Avevo una donna che aiutava mia madre nelle pulizie (e mi sono sempre chiesto se fosse giusto, adesso ho smesso) che mi parlava in sloveno. Nelle scuole a Gorizia non si è mai insegnato lo sloveno. Forse adesso lo si insegna, ma fino a quando ero piccolo io, e c’era ancora la Yugoslavia, anche senza Tito, la Yugo era sciavi e pericolo rosso. Comunismo. Minaccia. Altro. Yughi. Tutta roba che non doveva esistere, e che veniva fortemente contestata da persone che avevano il padre, il nonno, o al massimo il bisnonno, sloveno.

Adesso mi ricordo solo qualcosa, e insegno qualche parola ai miei compagni di viaggio: hvala, prosim, dober dan, kruh, voda. Tanto per non morire di fame ed essere educati. L’altra cosa che insegno è la pronuncia: la c si legge z dura, la č c dolce, la ž come il suono “j” in francese, la š “sc”. E, con buona pace dei commentatori sportivi, si dice “kranska gora”, e non “kraniska gora”, perché la j in mezzo alla parola spesso non si legge. Gli accenti? Mistero.

Si andava di là, quindi, a passeggiare o a fare grandi mangiate, in una gostilna in cui la cameriera ti sciorinava il menù cantilenando, in quell’italiano così simile al goriziano e allo sloveno insieme, “domače”, “casalingo”, lo chiamano, alla faccia della purezza dell’italiano. “Gnoki con šugo rošto, conilijo, karne feri (o ferji, chissà), čevapčiči.” E poi si passeggiava per il Carso.

La zona del Carso è la prima che andiamo a vedere, e in particolare le grotte. Non quelle di Postumia, stupende e monumentali, ma quelle più nascoste e spettacolari di Škočijan, San Canziano, in italiano. In un antro di quel complesso scorre in un canyon enorme il fiume Timavo, un fiume che appare e scompare e riappare e scompare, giocando a rimpiattino tra la Slovenia e l’Italia.

Per me il fiume Timavo era una rupe con dei lupi in bronzo, sulla strada per Trieste, la costiera, una delle strade più belle e pericolose che abbia mai visto. E sotto c’era una frase di Virgilio, tratta dall’Eneide. Guardavo le parole in latino come in una striscia dei Peanuts Linus affermava di guardare soltanto e di non leggere i nomi russi de “I fratelli Karamazov”. Sapevo che lì sotto il Timavo si concedeva alla vista dell’uomo, per poi tornare sotto, nascosto, a scavare e a nutrirsi di roccia bianca. Virgilio sapeva dell’esistenza nascosta del fiume, e ne ha parlato. La cosa ancora mi emoziona.

Nessuno parla, invece, di quello che è accaduto prima della fine della seconda guerra mondiale. L’argomento dominante (e tremendo) sono le violenze titine nel 1945: anche loro, come il Timavo, hanno sfruttato gli anfratti carsici. Ma c’è altro, come l’ospedale partigiano di Franija, che ha preso il nome dalla dottoressa che l’ha diretto dal 1943 al 1945. Un miracolo di ingegneria, un ospedale tra le rocce, con tutto, dalla camera per le radiografie alla sala operatoria, dalla cucina alla centrale elettrica. I tedeschi non l’hanno mai trovato. I feriti vi venivano portati risalendo un torrente gelido. È la seconda volta che lo visito, e rimango sempre colpito dalla commistione di dolore e speranza che trasuda dalle baracche di legno.

“Potremmo andare a Lubiana”, si era detto con il mio fratello di parole, la sua mamma e la sua ragazza di allora quando sono stato a Franija per la prima volta. Alla fine non ci siamo andati. C’ero stato poco tempo prima con P. e, lo ammetto, eravamo rimasti colpiti da ogni tipo di bellezza che ci si presentasse davanti. Lubiana, per me, è una bella ragazza che sorride (e Guccini non me ne voglia se gli rubo la banale metafora).

Ljublijana è, prima di tutto, difficile da scrivere. Perdonatemi, quindi, se la chiamo Lubiana. Lubiana ricorda Gorizia, Trieste, Vienna e Praga, ma si è data qualcosa in più e qualcosa in meno. Non ha il mare ma ha la Sava, ha i turisti ma non sono così allucinantemente italiani come a Praga. E soprattutto respira, a differenza del rantolo di Gorizia. A Lubiana, come in tutta la Slovenia, ci sono giovani-che-fanno-cose. Hanno percepito la fine del regime, ma, per qualche miracolo, non sono andati tutti fuori di testa. Hanno sentito il mercato, ma, per un altro miracolo, sono rimasti attenti al loro patrimonio storico, culturale, e ambientale, soprattutto. A Lubiana l’italiano già non si parla più tanto: quasi tutti sanno l’inglese, e ti senti di essere in una capitale europea. Nello stesso tempo senti l’odore di casa, quell’odore che veniva “da là”, poco oltre la finestra della mia cucina.

Quando ci fu la dichiarazione d’indipendenza slovena, nel giugno del 1991, mio padre ancora lavorava in dogana. Gli dissero di mettere il giubbotto antiproiettile, e lui ce lo raccontava ridendo. Io ridevo un po’ meno. Poi ci fu la battaglia di Nova Gorica, ed esplose un carrarmato: la veranda di casa mia fu velata dal fumo e dall’odore di bruciato. I goriziani andarono in alto, su al castello, forse sperando di vedere qualche sciavo sbucherellato. Se ne andarono annoiati dopo un po’. La Slovenia non seguì la catena di massacri che si stava per compiere. Noi non andammo di là per un po’. Quando ci tornammo, la stella sulla bandiera era scomparsa, iniziammo ad imparare che quella era la Slovenia, non più “la Yugo”. Molti continuano a dire Yugo ancora adesso. Per distinguerla sempre e comunque dall’Italija, pardon, Italia.

Anche la Slovenia finisce un po’ prima del suo confine. C’è una zona che si chiama Prekmurije, cioè oltre il fiume Mura, una zona che per motivi geografici è molto di più legata all’Ungheria che alla Slovenia: i nomi sono diversi e sulla cartina stradale che abbiamo, esattamente come al confine con l’Italia, l’Austria e la Croazia, sotto a molti nomi di città ce n’è uno più piccolo, spesso con qualche zeta e gi in più. Niente più montagne, ma pianura. E le “tipiche fattorie a l” (come dice la Lonely Planet) sono ovunque e punteggiano una zona altrimenti perfettamente piatta. Alloggiamo in una di queste, che odora di legno ed erba. Vediamo un cavallo bianco, chiaramente un “lipizzano”, originario cioè di Lipica, una cittadina vicino al confine italiano. Vediamo anche due gattini, di cui uno malato e uno soriano. Un rospo. Ma capisco che siamo in Ungheria, perché sui pali, in alto, ci sono le cicogne.

Sono stato a Budapest per la prima volta nel 1986, credo. Era la festa nazionale, ci davano mele verdi in ogni negozio. Ne ho mangiate due. Non ho capito molto, all’epoca.
Ci sono tornato dieci anni dopo: le cose erano notevolmente cambiate. Quella volta, però, non ho visto le cicogne, che invece mi avevano affascinato, forse anche grazie ai miei otto anni. Avrò pensato ai bambini portati da questi enormi uccelli? No, perché, lo ricordo bene, nel mio librino di educazione sessuale, prima di “mammaepapà” c’erano le api (davvero!), i cani (giuro) e, appunto, “mammaepapà”.

continua

Un tempo qui era tutta montagna

Clicca sulla foto se la vuoi vedere più grande. Se.

Fare un resoconto dettagliato dei miei tre giorni in montagna sarebbe noioso quasi quanto passare una serata girando per i locali notturni dei posti dove sono stato per il ponte del due giugno, pur non essendo altrettanto breve, visto che tutto chiude prestissimo lassù. Cercherò quindi di fare un riassunto.
Innanzitutto c’è da dire che io e la Natura non abbiamo un buon rapporto, tranne quando la Natura si presenta sottoforma di sella di cervo in crosta di nocciole. Animalisti e vegetariani, fatevene una ragione, non voglio mancarvi di rispetto. Tanto più che il cervo è stato convinto dialetticamente a farsi servire con contorno di cavolo cappuccio, almeno secondo quanto mi ha assicurato la proprietaria del ristorante dove ho mangiato, Chez Frau Blücher.
Clicca sulla foto se la vuoi vedere più grande. Se.Ma non buttiamoci subito sul cibo. La montagna è aria pura, valli, boschi, splendide passeggiate. Passeggiate, appunto. Appena arrivati M., chiamato scherzosamente “Mein Kapitan” per l’uniforme che indossava e per la particolarità di esprimersi a scudisciate, ha convinto noialtri a fare una “breve escursione”, fino alla “Malga alta”. Che era veramente alta. “L’escursione è facile”, ha detto con accento prussiano. Effettivamente così era, una volta passato il ponte di tronchi sul torrente e dopo avere scongiurato l’infarto per tre volte. “Vedrete, ne vale la pena”, ci ha detto. E non abbiamo potuto dargli torto quando, un’ora e mezza dopo, assetati e con il cuore che aveva lo stesso numero di battiti di un rave party, abbiamo sentito un’odore e un rumore inconfondibile: quelli delle ruspe. La “Malga alta”, evidentemente, stava diventando la “Nuovissima Malga alta”, a colpi di bulldozer.
M. non si è lasciato prendere dallo sconforto. “Un po’ più in là c’è un posto bellissimo, andiamo”. E lì ho sperimentato la vera dilatazione dello spazio-tempo. I “cinque-dieci minuti” che ci volevano per raggiungere il posto bellissimo sono durati quasi un’ora. Alla fine siamo arrivati in un locus amoenus chiamato “Regina del bosco”. Fondamentalmente una capanna e un tavolino deserti, molto simili come atmosfera al campeggio “Crystal Lake” di Venerdì 13. “Ma perché ‘Regina del bosco’?” ha chiesto un malcapitato. L’abbiamo capito subito. Il nome derivava dalla specie dominante dell’area, la zanzara tigre. Siamo stati immediatamente attaccati da decine di insetti, che hanno tentato di pungerci ovunque, infilandosi sotto i pantaloni e sbattendosene allegramente della Convenzione di Ginevra. “Ripieghiamo”, ha ordinato la nostra guida tenendo alta la sua Luger e facendo dietro front.
Il giorno dopo, altra escursione. “Stavolta è un po’ più difficile”, ha detto M. Dopo un quarto d’ora due di noi cercavano un defibrillatore con l’892424, riuscendo ad ottenere soltanto il numero di svariati produttori di speck. Dopo mezz’ora, finite le inumazioni, M. ha esclamato: “Oh, adesso sì che iniziamo veramente a camminare”. Io non ho visto nulla, se non una stradina che si inerpicava tra i massi su nel bosco. Il risultato? Settecento metri di dislivello in due ore di camminata. M. ha ripetuto “siamo quasi arrivati” per tutta la seconda metà del percorso, e ha smesso solo quando uno di noi l’ha minacciato, come le scimmie di 2001, brandendo un femore, povero resto di un’escursionista trovato per strada.
Alla fine, però, lo ammetto, ne è valsa la pena.
Tornati a casa ci siamo rifatti con un lauto pasto: polenta con ragù e formaggi. Durante la notte sono stato raccolto dalle guardie forestali mentre vagavo per i boschi declamando poemi di Schiller. Dopo avermi picchiato per avere sbagliato dei genitivi, le guardie mi hanno lasciato libero e sono tornato a casa, nascondendomi da M. grazie ad un provvidenziale costume da strudel rimasto lì da anni. Sono stato scoperto, inevitabilmente, all’ora della merenda del giorno dopo.
Ma no, alla fine è stato bello. L’unica cosa che mi lascia perplesso è che, a meno che non si possa considerare “selvaggio” un rospo, non ho visto animali selvaggi. A parte questi strani insetti dal colore del tutto inspiegabile e me stesso durante l’ora dei pasti.

L'intruso: ancora un post sulla sala da biliardo?

Ci ero tornato, per puro caso, il primo giorno in cui aveva aperto, il primo settembre, con C., che mi ha battuto. Ma non era per quello che non ci avevo più messo piede, ma solo perché la mia vita, ultimamente, è un frenetica al punto tale da non permettersi due colpi a stecca. Terribile.
Il primo settembre lui non c’era. Oggi sì.
Pensate a qualcosa che non ci sta in un contesto che amate. L’amante della vostra donna nella vostra camera da letto. Uno scarafaggio che zampetta su una pizza quattro stagioni (priva di olive, metti che uno si possa confondere). Una cacca su un cuscino di velluto in una vetrina di Cartier (questa non è mia, ma non ricordo la fonte). Cose così, insomma.
Nella mia amata sala da biliardo stasera c’era una macchina per il videopoker. Che, voglio dire, non è un intruso in sé. Ma del resto, nel mondo, non sono intrusi neanche gli amanti., gli scarafaggi e le cacche. Esistono. Il punto è dove stanno.
La sala da biliardo ha un’aura mitica. Tutte le persone che ci hanno messo piede, anche se appartenenti all’altro sesso, e quindi tendenzialmente non interessate allo splendido gioco, ne sono rimaste affascinate, come del resto gli avventori della sala rimangono affascinati dalle fanciulle che ci capitano. E sono tendenzialmente interessati ad esse. La sala da biliardo è popolata da birre, sigarette, panini al prosciutto, carte sbattute con forza, panini, scrocchi delle bocce, rumore di stecche, luci al neon.
Adesso nella sala da biliardo c’è una macchina per il videopoker. Due vecchini le stavano seduti accanto, giocando noncuranti a ramino. Lei lampeggiava e sbriluccicava, cercando di attirare la loro attenzione.
Per ora ha vinto il ramino. Speriamo bene.

Spirito partyottico

Ne parlo con molto ritardo, è vero, ma mi capirete: ho dovuto digerire quello che ho vissuto.
Nell’ultimo fine settimana di settembre sono stato invitato a Cattolica per un dibattito sulla guerra in Iraq. Ma siccome conosco delle persone che abitano nella ridente località della riviera, sono arrivato il giorno prima dell’incontro, per stare con i miei amici. E sono uscito, sabato sera, con una mia coetanea. Quello che segue è la cronaca fedele di quello che è successo.

Siamo andati in un locale: sedie di paglia, tavolini di paglia, musica di paglia. Un perfetto locale estivo se non fosse stata la fine di settembre, o meglio, l’inizio dell’autunno. Nessuno voleva accorgersi del freddo. Le camomille e i the caldi venivano passati sottobanco, travestiti da cocktail strani ed esotici, guarniti, ovviamente, con decorazioni di paglia.
Poi ci siamo trasferiti in un Irish pub. Io credo che ormai in Italia ci siano più sedicenti Irish pub che pizzerie. Mi immagino uno che vuole aprire un locale, e pensa: “Sono ad un metro dal porto, farò la maggior parte dei soldi da giugno a settembre… Che locale faccio?” In quel momento vede il suo vicino che apre il locale-tutto-di-paglia di cui sopra, e decide, mestamente, di aprire un Irish pub. Ma ci crede, ed ha una lista di birre da fare invidia ad un locale di Dublino. Ma se ne fottono tutti, e ordinano solo delle medie alla spina. Ecco perché i proprietari di Irish pub iniziano, un po’ alla volta, a decorarli con sgabelli afro.
Ma torniamo a noi. In questo pub siamo in tanti, oltre a me e alla mia amica: uno di quelli seduti al mio tavolo tiene in bella vista un palmare. Chiedo che lavoro faccia, per avere un palmare. “Ha una ditta di cancelli elettrici”, dice la mia amica. “Ah”, dico io. E lo guardo mentre illustra le mille funzioni del suo orologio. Per testarlo, manda una mail dall’orologio al palmare, con un mp3 in allegato che viene fatto suonare sullo stereo del locale. Applausi a scena aperta. Immagino che, se ci fosse una giustizia divina, non dovrebbe ricordarsi dove ha messo il telecomando del cancello di casa sua.
“Sono stufa di stare qua”, dice la mia amica. “Uh?” faccio io, poco prima di premere il grilletto. Rimetto la pistola in tasca e ce ne andiamo.
Arriviamo in un altro locale che si affaccia una delle strade principali di Cattolica. C’è un freddo porco, ma ci sono ancora i tavolini fuori e gli avventori che li occupano (tra cui il vostro eroe) sono solo parzialmente salvati dalla presenza dei fungoni riscaldanti. Da dentro il locale un casino assordante. Intorno a me gli uomini e le donne sono tutti uguali, anche di età. Ovviamente statisticamente e biologicamente non è possibile, ma loro ci provano lo stesso. Ho visto una quarantenne che era vestita in maniera molto più sbarazzina della tredicenne che aveva accanto, che, dal suo, era conciata come una vecchia battona. Le accomunava uno sguardo triste. E mi sono reso conto che stavo vedendo la riviera romagnola alla fine di settembre, con le persone che si aggrappavano all’estate con i denti (che battevano dal freddo).
E poi via, verso un posto che si chiama “Foliès”. Nonostante ci abbia passato le tre ore più lunghe della mia vita, ancora non capisco se sia stato in una discoteca a forma di circo o viceversa. Dieci euro di ingresso. Dentro una bolgia infernale. La mia amica si mette a ballare, io non ne ho voglia, e rimango in vista, appoggiato ad un palco su cui c’è il dj e due che ballano (chiamiamole cubiste). Alla mia destra uno sconosciuto che mi inizia a guardare. Io lo guardo, gli faccio un bel cenno neutro a significare “ti ho visto, embè”. Lui si avvicina e mi urla nell’orecchio: “Girati, guarda che belle le cubiste”. Mi giro: una sembra Ken travestito da Barbie. L’altra, effettivamente, è bella, ma si dimena con tale convinzione al ritmo degli Aventura che capisco che non potremo mai avere un futuro insieme. Mi rigiro. L’uomo si riavvicina. E mi dà da bere il primo di una lunghissima serie di Cuba Libre. Gratis. “Sono Pierluigi”, mi fa. “Piacere”, urlo io. Ma lui non mi ascolta, rimane fisso a guardare le cubiste.
Ad un certo punto la musica si ferma e parte l’inno italiano. Una donna vestita con il tricolore inizia a volteggiare nell’aria, sostenuta da cavi d’acciaio, e sventola due bandiere italiane. Pubblico in delirio. Pierluigi mi dà un altro Cuba libre, io manco lo ringrazio, troppo scioccato da quello che ho visto finora. Vasco Rossi remix, tre canzoni una dopo l’altra. Sento distintamente un orgasmo collettivo. E poi partono i latinoamericani. Una ragazza mi viene davanti e si agita un po’ a trenta centimetri da me. Non la guardo neanche, perché non ne ho voglia. Pierluigi mi guarda come se fossi un alieno, e mi dà un altro Cuba Libre. “A te piace solo bere, eh?” Mi ha preso per un alcolista asessuato: meglio che anonimo? Poi un altro, alla mia sinistra, mi fa: “Quella lì…” Ma la musica e alta e non capisco. Urlo di ripetere. “Quella lì ne voleva, eh, di zucca gialla”. Zucca gialla. Parte “Meu amigo Charlie Brown”, mi unisco al trenino e con questo stratagemma guadagno l’uscita. Fuori fa freddo. Inorridisco. Mi è entrata in testa “L’estate sta finendo” dei Righeira e pare che non se ne voglia andare. Rabbrividisco, mi chiudo la giacca sul davanti e me ne vado a casa.

Guida per la matricola – quarta e ultima parte

6. Musica e cultura
“La dotta” è uno dei modi di nominare Bologna (“la grassa” e “la rossa” sono altri due, delle “tre T” ho già parlato altrove). Ma non si tratta solo di università: la città offre un numero spropositato di eventi culturali ogni giorno, ha il più alto numero di sale cinematografiche in rapporto al numero dei residenti, molti teatri, librerie a profusione. Certo, un cocktail fatto male può costare anche dieci euro, ma che c’entra.
Librerie. La più nota è la Feltrinelli di Piazza di Porta Ravegnana, sotto le due torri. Fornitissima, dotata di commessi di solito scazzati e poco gentili, dentro ci troverete di tutto. Anche dei libri. Il sabato e la domenica è affollata come la riviera romagnola a Ferragosto. Da segnalare anche la Feltrinelli di via dei Mille, aperta anche di notte, meta di intellettuali vampireschi e di pornomani disorientati come le falene dalla luce al neon dell’insegna, e la Feltrinelli International di via Zamboni, dove si possono comprare film, fumetti, libri su cinema e musica. Il paradiso del giovane, insomma. Anche perché ci sono i libri in lingua straniera, e di solito li comprano gli studenti Erasmus quando sono tristi perché gli manca il suolo natio. Quindi deboli. Quindi facilmente colpibili. Oh, io non vi ho detto niente. Fate voi. Da segnalare anche la Libreria di teatro, cinema e spettacolo di via Mentana, gestita anch’essa da un burbero individuo che apre quando cazzo gli pare; la Libreria delle donne, adesso in via San Felice, ma anni fa in via Avesella, sul cui muro campeggiava la scritta/graffito “Un uomo morto è uno stupratore in meno” (ovviamente le donne della libreria delle non c’entrano con la scritta, ma mi veniva un senso di disagio a leggerla…); esisteva anche Mondo Bizzarro, un negozio (con annesso spazio espositivo) in cui potevate trovare letteratura e cultura estrema. Che ne so, fumetti di liceali lesbiche giapponesi con disturbi della personalità, film di commercialisti vampiri, magazine di feticismo del segnale stradale, sadomaso tra sindacalisti. Molto interessante. E i gestori ne sapevano ed erano simpatici. Oh. Se ne vanno sempre i migliori.
E passiamo ai cinema. Ce ne sono tanti, quindi non ha senso che io parli di tutti. Solo qualche dritta. Se siete dei veri cinefili non potete prescindere dalla programmazione del cinema Lumière, dove ci sono retrospettive, rassegne e a volte anche i dibattiti, proprio loro. Il pubblico delle due sale del cinema Lumière, a differenza del pubblico normale, è silenziosissimo durante la proiezione. Ma rumorosissimo prima e dopo. Mentre aspetta che il film inizi, il pubblico del Lumière disquisisce sulla filmografia completa del regista del film in programma, come riferimenti critici accurati. Dopo, commenta il film, proponendo svariate ipotesi di lettura, anche lì con note a margine. Insomma, una rottura di palle. Sempre che non ci sia il dibattito. In tal caso prendono la parola gli individui più assurdi che, dopo avere fatto una domanda-intervento-comizio di mezz’ora, si accasciano al suolo, emozionati perché è una delle prime volte che tante persone paiono attente a quello che dicono, dopo una vita di silenzi e di frustrazioni.
Ma non si vive di soli libri e cinema, no? Ovviamente anche la musica è importante. Quindi, ecco a voi alcuni negozi di dischi e luoghi di concerti. Iniziamo dai negozi di dischi.
Uno dei più noti è Nannucci, in via Oberdan, uno dei primi in Italia a fare vendite per corrispondenza. Ancora adesso è molto frequentato perché conveniente. Le cassiere non sono simpatiche, ma i ragazzi lavoranti ne sanno abbastanza. Ci trovate anche vinili e ragazzi appassionati di musica che non hanno un blog: roba vintage, insomma.
Il Disco d’oro, in via Galliera, è molto fornito, ma è il tempio dello snob. I proprietari ti guardano male se non compri la musica che piace a loro, anzi, sembra quasi che ti facciano un favore a venderla. Ma attenzione: non stiamo parlando di Stevie Wonder versus il rock, come in Alta Fedeltà, ma del peccato estremo (agli occhi dei proprietari) di non conoscere le ultime tendenze della musica elettronica della Sassonia-Westfalia. Imperdonabile.
Ricordi Media Stores, in via Ugo Bassi, è importante per vedere che musica si compra veramente nel mondo, e per ridimensionare ogni snobberia e indifighetteria. Qui ci sono stormi di adolescenti che prendono a manate cd di Limp Bizkit e Christina Aguilera. I calendari di Eminem. I DVD dei Blue. Mica cazzi. Istruttivo, ridimensionante.
Rock Shop: sito in via della Grada, lo segnalo perché è ben fornito, c’è un buon catalogo a prezzi medi, ma soprattutto perché è il primo e unico negozio di dischi a Bologna dove sia stato installato un distributore di bibite. Refrigerante.
Ma dove sentire dal vivo i gruppi di cui avete acquistato il cd? Attenti, perché nei prossimi paragrafi non si parlerà solo di cultura, ma soprattutto di stili di vita, etichette, scena. Sì. Scena. E che volete farci…
Estragon: un tempo c’erano i gruppi ggiovani, e l’organizzazione era legata anche all’ambiente della sinistra universitaria. Dai Modena City Ramblers ai Punkreas: erba ed erbazzone, sentirsi alternativi e diversi, insomma. Da quest’anno dovrebbe ospitare i concerti più grandi della stagione del Covo: e qui apriamo un capitolo importante. Volete essere veramente con la gente che conta? Andate al Covo, soprattutto il giovedì, venerdì e sabato. Usate alcune guide come si fa quando si va all’estero con la Lonely Planet e non stupitevi di quello che sentirete provenire dal palco. È l’indie, cari, termine vago ma adatto a tutte le stagioni. I gruppi indie (ma ne riparleremo) si dividono in tre: ci sono quelli che hanno il nome formato dall’accostamento di due termini apparentemente scollegati (es. Bycicle Roosters, Screaming Trees), quelli che hanno il nome formato da una frase bizzarra (es. Death Cab for Cutie, No Residents Allowed, I Am Kloot) e infine quelli che hanno un nome normale, ma di solito fanno musica triste (es. New Year, Karate, Brainwasher). Fregatevene: imparate tutti i nomi dei musicisti che suonano, ma attenzione: ognuno dei membri di ogni gruppo ha almeno un progetto musicale parallelo, quindi siate completi nell’esposizione. Affermate sempre che il loro primo disco è il migliore, e che hanno suonato meglio nel concerto segreto del Festival del salame caprino di Forlimpopoli, comprate spilline che non avevate il coraggio di mettere neanche alle medie ed passeggiate con sicumera nel Covo. Poi potete anche evitare di vedere il concerto, ma scrivetene una recensione da qualche parte.
Atlantide: si trova alla fine di via Santo Stefano. Imperdibile per sentire le nuove tendenze del grindcore portoghese, dell’hardcore lituano e dell’uso combinato di urla e chitarre distorte. Però c’è la birra a poco.
Cassero: uno dei veri posti di tendenza, è la sede dell’Arci Gay e Arci Lesbica. Queerwave, sculettamenti, ma anche tanti etero che hanno il terrore di essere sfiorati, ma si mostrano lo stesso là in mezzo. I gay e le lesbiche si divertono e se ne sbattono. Anche se a volte la qualità della musica lascia a desiderare.

E siamo arrivati alla fine. Se tutto è andato bene, avete una casa, bei libri, film dischi, la pancia piena, un cannone in mano, un/una partner, non avete dato il vostro numero di telefono ai marxisti-leninisti, quando entrate al Covo vi salutano anche le spine della birra, avete tra pochissimo un appuntamento al 36. Quando ecco che vi sorge un dubbio: ma io non ero venuto a Bologna per studiare?

Guida per la matricola – terza parte

5. Sesso e relazioni sociali
Un dato fondamentale vi ronza nella testolina, lo so. Novantamila studenti universitari. Diciamo, rispettando le proporzioni mondiali, quarantamila uomini e cinquantamila donne dai diciotto ai trent’anni, mantenendoci larghi. Quindi: Alma mater ormonum. La primavera a Bologna è una stagione considerata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, ma come fare a non limitarsi alla contemplazione di bei giovani e belle giovani? Una cosa fondamentale da scegliere è come gestire la vita universitaria, la scusa per la quale siete a Bologna. Dunque: per coloro i quali fanno facoltà a netta prevalenza maschile, come ingegneria, consiglio di andare a studiare da qualche parte nelle biblioteche di via Zamboni. Ma anche di studiare qualcos’altro: se andate al 36 (ricordate?) con un libro che si chiama Integrated Mechanics and Application in Modern Stuff Building, è decisamente dura farvi passare per un romantico e maledetto studioso di filosofia. Secondo me per questo gli ingegneri sono stressati: perché perdono un sacco di tempo che dovrebbe essere dedicato alla studio andando nelle sale di lettura delle facoltà umanistiche. E poi devono studiare di notte. Non a caso ho parlato di maschi iscritti ad ingegneria. Le ragazze che fanno la stessa facoltà, infatti, sono una ventina, si conoscono tutte per nome, e, indipendentemente dalla loro bellezza o simpatia, sono oggetto di attenzioni vagamente pesanti nei confronti dei loro colleghi, che le guardano come si guarderebbe una pozza d’acqua nel deserto. Sì, con la lingua di fuori.
Ci sono facoltà che storicamente sono dominate dalla presenza femminile: una su tutte Scienze della formazione. Le ragazze di Scienze della formazione, però, hanno un debole per gli ingegneri (e vediamo domani che succede in via Zamboni).
Capita, a volte, di essere fermati per strada da persone a caso. Di solito queste sono di tre tipi, assai accomunabili.
1. ciellino: subdolamente vi offre il suo aiuto, perché sembrate disorientati (e lo siete). “Sono dello Student Office“, dice. Furbetto: chi penserebbe che dietro ad una sigla dal suono tanto ufficiale si possa nascondere un’organizzazione come CL? Del resto anche la setta di Charles Manson si chiamava “La famiglia”. Queste sono scelte azzeccate di marketing, c’è poco da fare. Con la scusa di avere le ultime dispense su cui preparare il temibile esame di diritto privato, il ciellino (o la ciellina) vi attirerà in una morsa di rosari, appartamenti di soli maschi e di sole femmine (questi ultimi hanno sempre destato in me un certo interesse – sociologico, ovviamente), messe cantate obbligatorie alle sei del mattino. Quindi dite “no grazie” e andate avanti. Ma ecco che vi ferma il
2. marxista: siete di sinistra? Bene, Bologna è il posto che fa per voi. Perché le organizzazioni politiche universitarie non si accontentano di distinizioni bipolari, e neanche di schieramenti paralleli all’ordine parlamentare. No. A Bologna potete scegliere tra marxisti-leninisti, trozkisti, internazionalisti, anarchici, stalinisti, socialisti rivoluzionari. E sicuramente mi sfugge qualche gruppo. Ognuno di essi ha la sua rivista (noiosissima, roba che in confronto Il Capitale si legge con la velocità di un Almanacco di Topolino), e, ovviamente, ognuno è in lotta con l’altro. I marxisti-leninisti, in particolare, hanno una tendenza catechista: vi fermano per strada e vi propongono di partecipare a delle “Lezioni di marxismo”. Voi, che vi sentite dei marxisti un po’ parvenu, senza titolo di studio, decidete di partecipare, e lasciate al marxista in questione (o alla marxista) il vostro numero di telefono, sperando che, chissà, con la scusa delle lezioni… Invece no. Quelli vogliono la vostra anima e, se non la ottengono, ve la rompono. Se non andate ad una lezione, vi chiamano a casa, e vi chiedono la giustificazione: dico sul serio. Conosco delle persone che per sfuggire alla persecuzione dei marxisti-leninisti, sono sotto il programma protezione testimoni. Quindi non date il vostro numero di telefono, chiedetelo voi al prossimo. Ehi, marxista-leninista che leggi, non mi sto riferendo a te;
3. punkabbestia: il punkabbestia ha comunque bisogno di un’interazione con voi. O perché vi deve vendere il fumo (ottimo per terreni accidentati, con buon battistrada, ma non eccellente per usi psicotropi), o perché deve chiedervi qualcosa, di solito una cartina (non fate gli spiritosi: non si è perso), o un chilum, o un fazzoletto per pulirlo, o una sigaretta, o degli spiccioli. Voi comportatevi come credete, sta a voi decidere cosa dare e quanto. Ma non vi preoccupate se, ad un vostro rifiuto, il punkabbestia vi urla dietro “borghese di merda” (capita, capita…), anche se avete mandato a fanculo il marxista-leninista: non siete dei borghesi di merda. Basti pensare che i piercing del punkabbestia costano quanto tre mensilità del vostro posto in tripla sopra gli sfiatatoi delle cucine di McDonald’s. Quindi, tirate dritto e andate in sala studio. Lo scopo non è finire il capitolo sulla letteratura cilena, ma rimorchiare la persona a fianco alla quale vi siete seduti. Casualmente, eh.

Nella prossima puntata: musica e cultura.

Guida per la matricola – seconda parte

La casa che a Bologna non potrete mai avere (anche perché i colli non sono così alti)

3. Vitto e alloggio
E qua si apre un capitolo potenzialmente infinito. Nel senso che il vitto, ma soprattutto l’alloggio, sono uno dei problemi che ci si trova ad affrontare da subito. E’ più facile trovare un loft in equo canone a Manhattan che un posto in tripla a Bologna, si dice. Ed è vero. Il consiglio è di guardare gli annunci attaccati sui muri della zona universitaria, anzi, di guardarli mentre vengono appesi. Infatti resistono sui muri più o meno trenta secondi. E nessuno prende un bigliettino con un numero di telefono. Annientare la concorrenza è fondamentale, nella lotta spietata per l’alloggio, quindi è bene memorizzare il numero di telefono e ingoiare per intero il foglio di carta su cui è scritto.

Lei troverebbe facilmente casa a Bologna (se non rivela di essere argentina, quindi molto meridionale)

È molto facile trovare casa a Bologna se si è una ragazza, possibilmente del nord, figa, ricchissima, vergine-ma-pronta-a-darla, non fumatrice, che fa settimana corta, iscritta a ingegneria, giurisprudenza o economia. Anche se non volete sobbarcarvi una costosa operazione di cambio di sesso, più economica di una singola in zona tangenziale, comunque, non dovrete mai, ripeto mai, dire che siete iscritti all’Accademia di belle arti o al Dams. Per l’occasione preparate l’esame di analisi uno e di diritto costituzionale, anche se il sogno della vostra vita è studiare la storia del documentario nei paesi in via di sviluppo. Delle nozioni base di matematica e giurisprudenza potranno tornare utili nei colloqui preliminari per la casa, e, dovesse andare male al Dams, potrete cambiare facoltà in un battibaleno.
Le case a Bologna non sono come nella splendida sit-com Via Zanardi 33. Sono delle stamberghe fatiscenti, quasi tutte. Oppure sono degli open space con vista su piazza Maggiore: ma il canone mensile se lo può permettere solo Cordero di Montezemolo quando le Fiat non sono in calo. Quindi abituatevi a chiudere un occhio se i rubinetti della vostra futura casa perdono, se le porte non si chiudono bene, se l’impianto a gas non è a norma. E’ già tanto che abbiate un tetto. Se siete riusciti a vedere una casa e vi sembra che i vostri probabili futuri coinquilini siano normali, scappate a gambe levate. Per una sorta di disegno divino, almeno un coinquilino deve essere un pazzo furioso, che lava la bicicletta nella vasca da bagno o mette i pezzi della Vespa nella lavastoviglie (per inciso: questi sono due cose realmente fatte da uno dei miei coinquilini, un giorno ne scriverò). La convivenza universitaria è un’esperienza formativa quanto fare il militare. Con la differenza che pagherete moltissimo per farla. Ma è un investimento per il futuro, come un master. E non dovete andare in giro con la cravatta.
Per quanto riguarda il cibo, sappiate che potete procacciarvelo posti diversi. Ci sono i supermercati, ma quelli del centro costano come se le banane e le scatolette di tonno fossero disegnate da Cartier. Ci sono i vari piadinari, take away, indiani e cose del genere. Ma spesso tutto sa di piadina. E infine ci sono i vari negozi di alimentari dei pakistani, il cui vantaggio è che sono aperti sempre, sempre, sempre. Certo, il pane è gommoso, la verdura vi saluta quando entrate nel negozio e vi conviene pagare un pacco di pasta col bancomat, ma ogni cosa ha il suo prezzo. E poi sembra di andare a fare la spesa da Apu dei Simpson.

4. Droghe (bici)
Di solito nelle città la disponibilità di droghe è direttamente proporzionale al numero di giovani presenti. Fate conto che a Bologna ci sono 90000 studenti. Ho detto tutto.
Ai miei tempi, diciamo nel 1996, quando si usciva dalle lezioni, si veniva letteralmente invasi dagli spacciatori, che offrivano per lo più del fumo, di qualità media. Adesso come adesso la qualità della roba che si trova per strada è nettamente peggiorata: non compratela, tanto vale fumarvi la ruota di scorta della macchina, e il prezzo più o meno è quello. Se qualcuno vi offre dell’erba, non accettatela. O è talmente piena di ammoniaca che quando ve la fumate vedete la vecchietta dell’Ace che vi insegue, o è imparentata con la marijuana solo in quanto facente parte del regno vegetale. A questo proposito: fumare il prezzemolo o il the non fa alcun effetto. La malva sì, ma di questo, un’altra volta.
A Bologna è abbastanza tollerato che si fumi per strada. O meglio, se alle forze dell’ordine girano i coglioni, vi arrestano anche se rollate una legale sigaretta di tabacco, ma comunque, diciamo che vige abbastanza il fatto di chiudere un occhio. Detto questo, evitate di urlare “Avete un chilum?” per strada, e, soprattutto, non passatelo ai carabinieri. Per quanto per voi possa essere un gesto di fratellanza, loro non la vedono così, inspiegabilmente.
Un’altra cosa. Se qualcuno vi ferma per strada sussurrando “bici”, non vi sta offrendo una pastiglietta magica che vi farà correre come se foste Coppi. Vi sta proprio offrendo un velocipede. In tal caso, comportatevi come se foste a Marrakech: abbassate il prezzo. Tanto poi la stessa persona che vi ha venduto il mezzo, ve lo ruberà e lo rivenderà. A meno che non abbiate la faccia tosta di un conoscente che (giuro) è andato da uno e gli ha iniziato ad urlare in faccia che quella che stava vendendo era la sua bici, e non era assolutamente vero. Il malcapitato, dopo avere tentato una blanda opposizione, ha capitolato, e gli ha ceduto la bicicletta.
La bicicletta è fondamentale a Bologna: scorrazzare su due ruote è bello ed entusiasmante. Tutti vanno in bicicletta a Bologna. Fino a che non viene loro rubata. A me hanno rubato due biciclette, di cui l’ultima era bellissima, legata ad un palo con due lucchetti di sedici chili. Provate i lucchetti da venti.
Ma via Zamboni non è solo fumo e bici: può capitare che vi vengano proposti anche altri oggetti. Negli ultimi otto anni mi sono stati offerti: cellulari, una penna stilografica, un motorino, un casco, un cd portatile, e una chitarra classica. Con custodia. Perché loro alla soddisfazione del cliente ci tengono.

Nella prossima puntata: sesso e relazioni sociali.

Guida per la matricola – prima parte

1. Orientamento

“Girando ancora un poco ho incontrato uno che si era perduto
gli ho detto che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino
mi guarda con la faccia un po’ stravolta e mi dice “sono di Berlino””.
Lucio Dalla, “Disperato erotico stomp”

Allora, il mio senso dell’orientamento fa schifo. Davvero, una volta mia madre mi ha trovato in cucina che urlavo “dove sono” e preparavo dei bengala per segnalare la mia posizione. Ma a Bologna non mi sono mai perso. Fondamentalmente Bologna è un’ellisse, il cui perimetro è formato dalle mura. I due fuochi dell’ellisse sono le due torri, abbastanza visibili, direi, e piazza Malpighi. L’asse che unisce questi due fuochi è formata dalle vie Rizzoli e Ugo Bassi, al centro del quale ci sta Piazza Maggiore. L’asse è messa in asse con la via Emilia, quindi teoricamente potreste andare da Piacenza fino a Rimini andando sempre dritti, passando per piazza Maggiore. Rispettando i semafori, si intende. Le strade del centro o sono dei raggi che si dipartono dai fuochi e arrivano alle mura, cioè alle porte (dodici), o sono parallele rispetto ai viali stessi. I numeri civici decrescono mano a mano che ci si avvicina al centro.
Facile no?
Bene. Adesso che avete comprato una cartina, potete addentrarvi nel centro di Bologna.

2. Università
Congratulazioni! Vi siete iscritti nella più antica università del mondo occidentale. È per lei che siete a Bologna, almeno ufficialmente. L’università di Bologna, Alma Mater Studiorum (trad.: l’anima de tu’ madre e degli studi), è stata fondata nel 1088 e le cose, a livello organizzativo, non sono poi cambiate molto. Le principali facoltà sono tutte intorno a via Zamboni. Segnatevi questa via, perché, casualmente, intorno ad essa ci sono anche copisterie, librerie universitarie, bar, sale studio, biblioteche, donne e uomini disponibili, spacciatori, biciclette, annunci che offrono stanze e posti letto, birra.
Volete impressionare le persone che incontrate? Ecco un trucchetto.
A Bologna i numeri civici di via Zamboni (intitolata ad un antifascista, non al chitarrista dei CCCP) sono comunemente usati per indicare l’istituto, la facoltà o qualsiasi cosa si trovi a quel numero. Quindi, se qualcuno vi dice “ci vediamo al 36”, vorrà dire alla Biblioteca di Discipline Umanistiche. Il 38 è la Facoltà di Lettere, il 33 la Biblioteca di Arti Visive, e così via. Attenti a non dare un numero sbagliato, o darete un appuntamento in una casa privata o, peggio, in una libreria di zootecnica.
Ovviamente esistono delle superstizioni legate alla carriera universitaria (il compimento della quale è notoriamente uno degli ultimi obiettivi da perseguire nella città felsinea). Per esempio, pare porti sfiga attraversare diagonalmente piazza Scaravilli, quella della facoltà di economia, o anche il portico dei Servi, vicino a Scienze politiche. Si dice anche che salire sulle Torri prima della fine degli studi fa sì che non vi laureiate mai. Io, per sicurezza, non ho fatto nessuna delle cose sconsigliate. Mi sono laureato. E sono quasi disoccupato. Sono cose.

Nella prossima puntata: vitto, alloggio e droghe.

C'ha detto bbene

Giovedì scorso, in stazione, ho acceso una sigaretta mentre aspettavo il treno, che continuava ad accumulare ritardo. Ho tenuto il mozzicone tra le dita e l’ho lanciato con perizia con un colpo del dito medio. La cicca ha descritto una traiettoria piuttosto tesa ed è andata a finire esattamente sul binario, in bilico, senza muoversi, ad un paio di metri da dov’ero. Sono rimasto allibito a guardarla, pensando a cosa quell’evento avrebbe potuto significare. Insomma, che uno lanci con una certa forza un mozzicone di sigaretta sui binari, e che questo rimanga in bilico sul binario stesso (la cui sezione non è piatta) non è cosa comune. Pensando alla probabilità che quest’evento accadesse, mi sono detto che avrei dovuto subito giocare al Superenalotto. In quel momento è arrivato il treno e ha portato via il mozzicone dalla sua situazione di magico equilibrio.
In viaggio verso Roma ho pensato a quell’episodio de Ai confini della realtà che si intitola “A Penny for your Thoughts”, praticamente la storia di uno che lancia una monetina al ragazzo dei giornali, per strada, e questa rimane in piedi, in verticale. Da quel momento il protagonista del telefilm ha il potere di sentire tutti i pensieri degli altri (“I pensieri degli altri” è proprio il titolo italiano). Le persone intorno a me leggevano: Il Giornale, Intimità della famiglia (che esiste ancora e lotta insieme a noi), Libero e Gente. Io, per fortuna, non avevo alcun potere telepatico.
Ho anche pensato che la cosa del mozzicone sul binario poteva voler dire qualcosa sulla Notte Bianca, il cui ricordo della passata edizione ancora è ben impresso. Ho quindi immaginato, per la notte di sabato, possibili inondazioni, le cavallette, una tempesta radioattiva.

Invece no.
Quando io e il mio fratello di parole siamo tornati a casa stamattina alle sette, c’era l’elettricità, e durante la notte non era caduta neanche una goccia d’acqua.
Sarà solo per questo che mi sono divertito di meno?

P.S. (che sta per “pazzesco squallore”) Ho finalmente comprato una macchina fotografica digitale. E siccome non ho un cacchio da fare, apro un fotoblog, che si chiamerà “A Pic in the Life”. Come frase sotto ci sarà, al posto della citazione lennoniana, “Well I just had to laugh / I saw the photograph”. A fianco del titolo “Il fotoblog di A Day in the Life”. Tutto questo lavoro testuale e di contenuti è stato fatto da un team della Bocconi che ho profumatamente pagato. Ma non mi è stato dato alcun template, quindi proponetemene uno voi, che siete bravi con l’html, ispirandovi a questo. Non oso chiederlo direttamente alla mia webmaster, che è stata sì brava a creare questo candido e arioso ambiente in cui ogni tanto scorrazzate. Vi pagherei, per farlo, se non avessi dato tutto ai signori della nota università meneghina. Ma in cambio avrete la mia stima, la mia gratitudine, e altre cose inutili, come un link e un paio di Gmail. E vi offro una pizza, dai. Almeno quella si mangia.

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