linus

Oltre pagina uno

Su Linus, Dario Buzzolan tiene una rubrica intitolata “Chi non muore si risente”, in cui immagina di telefonare a uomini illustri del passato: attraverso una conversazione immaginaria (che ricorda le Interviste impossibili di quarant’anni fa) si commenta l’attualità.

Il protagonista della rubrica del numero di ottobre è lo scrittore Joseph Conrad, che viene interpellato a proposito dell’uso di una sua frase da parte di Matteo Renzi. Non ne ero a conoscenza, ma poco tempo fa il sindaco di Firenze, durante la presentazione della sua campagna elettorale, ha usato una frase di Konrad come slogan, proiettata a lettere cubitali dietro di lui.

“Konrad”: così era scritto, racconta Buzzolan, nel comunicato stampa di quell’incontro. Il problema, però, non è questo. La frase usata era “Solo i giovani hanno simili momenti”: è all’inizio de La linea d’ombra, uno dei romanzi più citati e importanti della letteratura occidentale. Una bella frase, non c’è che dire, nella quale compare la parola-chiave-ombrello-programmatica di Renzi: giovani. Tutto bene, “k” a parte?

No, ci racconta Buzzolan, facendo parlare lo scrittore polacco naturalizzato britannico: Conrad ha avuto una gioventù tremenda, vissuta in povertà, violenza e depressione. Ma l’autore, si sa, è diverso dall’opera alla quale, comunque, una citazione rimanda. E quindi continua Conrad (cioè Buzzolan):

Ma poi, scusi: proprio La linea d’ombra dovevano scegliere? Quella è la storia della fine di una giovinezza. Insisto: se avessero letto qualche riga in più, avrebbero scoperto che la frase “solo i giovani hanno di questi momenti” riprende così alla pagina dopo: “Che momenti? Be’, momenti di noia, di stanchezza, d’insoddisfazione. Momenti d’avventatezza. Voglio dire momenti in cui chi è ancora giovane si trova a commettere azioni avventate.” Le sembra un buon manifesto per una che voglia guidare un Paese?

Per saperlo, però, Renzi doveva leggere oltre pagina uno. Ma perché farlo, quando basta una bella frase ad effetto, che sembra proprio ritagliata sulla parola d’ordine-summa-dogma del politico toscano? (E poi, diciamolo: l’altra scelta – “Gimme Five – Alright”, da un vecchio pezzo di Jovanotti – era poco fine, per quanto giovane e simpatica.)

Questa gaffe, che credo sia stata talmente minimizzata alla sua eventuale scoperta da non avere avuto eco o quasi nelle cronache, è un segno da non sottovalutare, a mio avviso. È l’ennesimo indizio della cialtroneria accettata e diffusa, della superficialità, della citazione copia-e-incolla, del re-post e re-tweet selvaggio, basato unicamente sulla supposta autorevolezza della fonte. Infatti, presumo che Renzi avrà pensato “Ehi, è Konrad, mica dirà castronerie”: ma ciò non basta.

Quell’uso di quella frase sarebbe perdonabile se fosse comparsa sul profilo Facebook di uno studente alle prese con i primi amori letterari. Chiunque altro, però, ha gradi di responsabilità crescente nei confronti di come usa le parole in pubblico: figuriamoci uno che si candida al governo. Questo tipo di attenzione, tuttavia, interessa sempre meno persone: ciò che conta è l’effetto, la key-word, la citazione “giusta”; l’approfondimento è inutile e fa perdere tempo; il contesto è diventato contorno: lo si può lasciare da parte senza problemi.

Ipotizziamo però che Renzi conosca benissimo La linea d’ombra, così come la vita e le altre opere di Conrad: quel “Solo i giovani hanno simili momenti” così usato sarebbe anche peggio, perché supporrebbe l’ignoranza (e la pigrizia mentale e intellettuale) di tutti quelli a cui il messaggio viene indirizzato. I “giovani” in primis, ma in genere ogni potenziale elettore di Renzi. Ci si chieda, allora, se è possibile che uno si proponga alla guida del Paese con questa sfacciataggine: lo è, per due motivi.

Il primo è che questo modello funziona e la storia italiana recente lo conferma. Il secondo è che gli altri candidati sono talmente opachi da far sembrare argento la carta stagnola. Incurante di approfondire gli argomenti e certo che nessuno lo farà, il sindaco di Firenze si propone come l’ennesimo “uomo forte” a cui gli italiani (considerati scemi o almeno superficiali – forse a ragione?) si rivolgono, perdonando gli errori e santificandone le opere, la cui reale conoscenza è spesso ridotta ai soli frontespizi.

Le scoperte che ti cambiano il fine settimana (che sia santo o no)

Ok, è vero che sono stato io a introdurre B. a Perle ai porci, la striscia di Stephan Pastis pubblicata ogni mese da Linus. Ma lei mi ha fatto scoprire i cartoni animati tratti dal fumetto: sono qui.
Passo la Pasqua a vedermeli tutti.

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Topa atomica

Catone&Lorentz, sull’ultimo numero di Linus, toccani momenti geniali parlando di ricorso (eh) al nucleare da parte di un Governo il cui rappresentante è assai distratto dalle muliebri grazie. I due ipotizzano che una delle cause di allerta nucleare in Italia potrebbe essere la seguente:

“Il coordinamento delle centrali nucleari viene lottizzato, suddiviso in quota tra maggioranza e opposizione e utilizzato per piazzare parenti, amici e igienisti dentali. In pratica, saremmo i primi al mondo con delle belle fighe ad addomesticare l’uranio”.

*Il titolo del post, manco a dirlo, è una citazione cinefila coltissima.

Di |2011-04-14T08:00:00+02:0014 Aprile 2011|Categorie: I Am The Walrus|Tag: , , |0 Commenti

Donne sole e cani

Devo ringraziare Matteo per avere comprato e letto Ragioni per vivere di Amy Hempel, un volume edito qualche mese fa da Mondadori che contiene le quattro raccolte di racconti brevi pubblicate dall’autrice americana tra il 1985 e il 2005. Nella sua defunta rubrica su “Linus”, “Shorts”, Bianchi parlava in maniera entusiasta di questa scrittrice, pressocché sconosciuta qui in Italia, al punto di convincermi a comprare il libro senza neanche leggerne la quarta di copertina.

Cominciamo da un dato importante: la Hempel si è formata ai corsi di Gordon Lish, proprio lui, l’uomo che contribuì al lancio di Raymond Carver, di cui abbiamo già parlato. La missione minimalista dell’editor è evidente nel taglio dei racconti della raccolta: alcuni di essi sono brevissimi, davvero di poche righe, ma ci sono anche esempi di testi lunghi. Non è una lettura facile, però: la concentrazione degli scritti ha fatto sì che davvero ogni parola, ogni frase, ogni periodo siano densissimi, e due righe davvero possono chiudere, racchiudere e contenere il senso di un intero racconto (e tutto ciò che è stato scritto prima del finale). Non solo: la Hempel ama entrare nella testa dei suoi personaggi, e non è dolce nell’introdurre il lettore ad essi. Li sbatte là, con tutte le loro insicurezze, il loro passato, la loro storia, sfidando continuamente la capacità d’attenzione e la concentrazione di chi si avventura nelle sue storie.
Come capita spesso negli scrittori americani, i luoghi naturali e urbanizzati sono importantissimi: è raro che le storie della Hempel siano ambientate in grandi città, mentre sovente siamo in mezzo a una delle milioni di cittadine “pompa di benzina più mall più zona residenziale” che, di fatto, costituiscono gli Stati Uniti. Ma il dato più ricorrente in questi testi è che parlano quasi sempre di donne sole. Donne anziane che scrivono dall’ospizio lunghe lettere ad artisti che hanno speso con loro una manciata di minuti, donne che hanno subito uno stupro ma forse senza la dose di violenza necessaria per considerarlo tale, donne che scappano da qualcosa o qualcuno e decidono, semplicemente, di non fermarsi più. Altro punto notevole è che spessissimo queste donne hanno a che fare con animali, per lo più cani: evidentemente la Hempel deve amare molto i quadrupedi, perché racconta alla perfezione non solo i modi che i cani hanno di comportarsi, ma, soprattutto, la relazione quasi simbiotica che si crea con i padroni. Capite poi che, mettendo in scena donne sole, il cane diventa spesso (ed esplicitamente) un simbolo di indipendenza per la donna e, allo stesso tempo, un sostituto della figura maschile, di cui spesso di percepisce l’assenza.
Ripeto: non è un libro facile, ma è denso e intenso come pochi. Non è perfetto, e in realtà nei vent’anni che separano la prima raccolta dall’ultima la Hempel cambia poco, ma ci sono cose come “Nel cimitero dov’è sepolto Al Jolson” (che potete leggere qua in inglese) che ti fanno capire come scrivere un racconto breve così sia una prova di bravura estrema e quasi soprannaturale. Un po’ come fare delle figure a corpo libero in uno sgabuzzino, risultando comunque armonici e aggraziati.

Ogni volta che vedi una bella donna, ricorda che qualcuno è stanco di lei, dicono gli uomini. E io so dove vanno, queste donne, con la loro stanca bellezza che qualcuno non desidera, queste donne che devono vivere come i pini bianchi dell’alta Sierra, lì prima di Cristo, nutriti chissà come dal vento di montagna.
Si dedicano agli animali, giorno dopo giorno, accarezzandoli dentro una gabbia e dicendo: “Come sta il cucciolo della mamma? Si sente solo il cucciolo della mamma?”
Le donne se ne vanno alla fine della giornata, fermandosi a domandare a un guardiano: “Andranno a stare in un bel posto?”. E tornano dopo un giorno o due, chinandosi a osservare un gatto con un occhio solo e chiedendo, come se intendessero adottarlo: “Come faccio a presentare un nuovo gatto al mio cane?”
Ma le adozioni sono rare: la cosa importante è che, quando si lasciano alla spalle le tenere creature che non le lascerebbero mai, le donne abbiano qualcuno da lasciare, sempre che abbiano donato loro il cuore.
(Amy Hempel, “Nel rifugio per animali”, in Ragioni per vivere, Mondadori, Milano, 2009, p. 148, trad. di Silvia Pareschi)

Era una nota buia e tempestosa…

Inutile negare che devo molto a Matteo B. Bianchi, una delle pochissime persone che ho conosciuto nel mondo editoriale che non fosse uno stronzo. Ho presentato spesso i suoi libri e lui ha introdotto con passione la presentazione milanese de La guerra in cucina, qualche mese fa. Ma soprattutto Matteo, qualche anno fa, ha scelto un mio racconto per la sua rubrica su Linus “Laboratorio esordienti”, ed è stato un onore essere pubblicati  grazie a lui su una delle riviste più importanti del panorama editoriale italiano, di cui io sono affezionato lettore fin da quando ero piccino. Oltre a quello spazio, Matteo curava anche una piccola rubrica di novità letterarie “altre” rispetto a quelle recensite dal grande vecchio Piero Gelli. Si chiamava “Shorts”, ed era davvero un bell’osservatorio sui giovani autori, e non solo.
Perché declino tutto al passato? Perché dal numero di maggio, Matteo non ha più i suoi spazi. Perché non  li ha più? Leggetelo sul suo blog.
È uno schifo, e lo sarebbe anche se non avessi mai neanche letto una riga di Matteo. Ma, conoscendolo, perdonatemi, sono ancora più incazzato.

La guerra a Milano

Ebbene sì, lettori milanesi del blog (ma ce n’è qualcuno?). Vabbè, comunque: io e il mio libercolo La guerra in cucina sbarchiamo venerdì 15 gennaio alla Libreria Centofioridi piazzale Dateo. Là alle 19 Gianluca Morozzi e Matteo B. Bianchi presenteranno me e i miei racconti, e io li ringrazierò. Accorrete numerosi: ringrazierò anche voi, firmerò le copie, stringerò mani e bacerò bambini e statuette-ricordo.

Peraltro Matteo ha anche recensito il mio libro sul numero di Linus in edicola in questi giorni: se cliccate sull’immagine la vedete grande e potete leggere le belle cose che ha scritto sui miei scritti (ops). Fatevi vivi!

Ts-ts-ts Tdsch: you could write it so much better

Sono stato uno dei difensori dei Franz Ferdinand, quando uscì il loro primo disco. Con il passare del tempo, aspettando il loro secondo disco, iniziavo a sfregarmi le mani e a pensare: “E adesso? Che farete?” E invece il secondo disco dei Franz Ferdinand è come il primo: divertente. Sono d’accordo con quello che dice Bertoncelli sul numero di ottobre di Linus, e credo sia una delle prime volte. Però c’è un però. Se no, uno che fa, scrive un post per dire di essere d’accordo con Bertoncelli?
Il però è dato da qualcosa che suona come ts-ts-ts. Che non è la versione triestina dell’est-est-est, bensì il rumore del charleston in levare.

Questo suono, o timbro, per i lettori colti e preparati, sta diventando ormai una caratteristica di molta musica degli ultimi anni, fino ad essere un vero e proprio tratto distintivo di quello che qualche scriteriato chiama “punk-funk”. Un genere che, d’altro canto, sta perdendo sempre più identità, mischiandosi naturalmente con tutto il resto. In sè la cosa non è il male. Ma pensate ad un altro timbro tipico: questo.

Ebbene sì, è il rullante anni ’80: impossibile non riconoscerlo, impossibile limitarlo ad alcuni gruppi, generi o tendenze. Il rullante anni’80 ha invaso la musica di quella decade, ed è impensabile oggi sentire un pezzo di quel decennio senza sentire un formicolio alle gambe e alla testa: sono gli scaldamuscoli che si stanno formando intorno ai vostri polpacci e i capelli che stanno iniziando un lento processo di cotonatura. Processi inarrestabili, se non fermando la canzone.
Mi chiedo quindi cosa succederà tra dieci o vent’anni, quando sentiremo un disco dei Franz Ferdinand, dei Discodrive, dei Clap Your Hands Say Yeah o di qualche altra decina di gruppi. Forse sentiremo pungerci la pelle dalla crescita spontanea di decine di spillette.

Andar di là – prima parte

Non so con precisione dove si trovi il reparto di ostetricia dell’ospedale civile di Gorizia, ma devo comunque essere nato al massimo ad un centinaio di metri dalla Yugoslavia. “Yugo”, la chiamavamo. “Sciavi”, li chiamavano.
A dodici anni ho avuto il lasciapassare, prepustnica, per allungare le passeggiate domenicali. Mia madre mi comprava le scarpe Adidas in un grande magazzino di Nova Gorica.

Andare in Slovenia passando da Gorizia è piuttosto particolare. Anche senza attraversare la piazza Transalpina, già definita “il muro di Gorizia”, anche se era una rete alta un metro che impediva lo sguardo alla bellissima facciata della stazione ferroviaria “di là”. Rete già presa a picconate da Fini nel 1989. Quello che ci frega, a noi italiani, è la voglia di emulazione.

Da piccolo sapevo parlare un po’ di sloveno. Avevo una donna che aiutava mia madre nelle pulizie (e mi sono sempre chiesto se fosse giusto, adesso ho smesso) che mi parlava in sloveno. Nelle scuole a Gorizia non si è mai insegnato lo sloveno. Forse adesso lo si insegna, ma fino a quando ero piccolo io, e c’era ancora la Yugoslavia, anche senza Tito, la Yugo era sciavi e pericolo rosso. Comunismo. Minaccia. Altro. Yughi. Tutta roba che non doveva esistere, e che veniva fortemente contestata da persone che avevano il padre, il nonno, o al massimo il bisnonno, sloveno.

Adesso mi ricordo solo qualcosa, e insegno qualche parola ai miei compagni di viaggio: hvala, prosim, dober dan, kruh, voda. Tanto per non morire di fame ed essere educati. L’altra cosa che insegno è la pronuncia: la c si legge z dura, la č c dolce, la ž come il suono “j” in francese, la š “sc”. E, con buona pace dei commentatori sportivi, si dice “kranska gora”, e non “kraniska gora”, perché la j in mezzo alla parola spesso non si legge. Gli accenti? Mistero.

Si andava di là, quindi, a passeggiare o a fare grandi mangiate, in una gostilna in cui la cameriera ti sciorinava il menù cantilenando, in quell’italiano così simile al goriziano e allo sloveno insieme, “domače”, “casalingo”, lo chiamano, alla faccia della purezza dell’italiano. “Gnoki con šugo rošto, conilijo, karne feri (o ferji, chissà), čevapčiči.” E poi si passeggiava per il Carso.

La zona del Carso è la prima che andiamo a vedere, e in particolare le grotte. Non quelle di Postumia, stupende e monumentali, ma quelle più nascoste e spettacolari di Škočijan, San Canziano, in italiano. In un antro di quel complesso scorre in un canyon enorme il fiume Timavo, un fiume che appare e scompare e riappare e scompare, giocando a rimpiattino tra la Slovenia e l’Italia.

Per me il fiume Timavo era una rupe con dei lupi in bronzo, sulla strada per Trieste, la costiera, una delle strade più belle e pericolose che abbia mai visto. E sotto c’era una frase di Virgilio, tratta dall’Eneide. Guardavo le parole in latino come in una striscia dei Peanuts Linus affermava di guardare soltanto e di non leggere i nomi russi de “I fratelli Karamazov”. Sapevo che lì sotto il Timavo si concedeva alla vista dell’uomo, per poi tornare sotto, nascosto, a scavare e a nutrirsi di roccia bianca. Virgilio sapeva dell’esistenza nascosta del fiume, e ne ha parlato. La cosa ancora mi emoziona.

Nessuno parla, invece, di quello che è accaduto prima della fine della seconda guerra mondiale. L’argomento dominante (e tremendo) sono le violenze titine nel 1945: anche loro, come il Timavo, hanno sfruttato gli anfratti carsici. Ma c’è altro, come l’ospedale partigiano di Franija, che ha preso il nome dalla dottoressa che l’ha diretto dal 1943 al 1945. Un miracolo di ingegneria, un ospedale tra le rocce, con tutto, dalla camera per le radiografie alla sala operatoria, dalla cucina alla centrale elettrica. I tedeschi non l’hanno mai trovato. I feriti vi venivano portati risalendo un torrente gelido. È la seconda volta che lo visito, e rimango sempre colpito dalla commistione di dolore e speranza che trasuda dalle baracche di legno.

“Potremmo andare a Lubiana”, si era detto con il mio fratello di parole, la sua mamma e la sua ragazza di allora quando sono stato a Franija per la prima volta. Alla fine non ci siamo andati. C’ero stato poco tempo prima con P. e, lo ammetto, eravamo rimasti colpiti da ogni tipo di bellezza che ci si presentasse davanti. Lubiana, per me, è una bella ragazza che sorride (e Guccini non me ne voglia se gli rubo la banale metafora).

Ljublijana è, prima di tutto, difficile da scrivere. Perdonatemi, quindi, se la chiamo Lubiana. Lubiana ricorda Gorizia, Trieste, Vienna e Praga, ma si è data qualcosa in più e qualcosa in meno. Non ha il mare ma ha la Sava, ha i turisti ma non sono così allucinantemente italiani come a Praga. E soprattutto respira, a differenza del rantolo di Gorizia. A Lubiana, come in tutta la Slovenia, ci sono giovani-che-fanno-cose. Hanno percepito la fine del regime, ma, per qualche miracolo, non sono andati tutti fuori di testa. Hanno sentito il mercato, ma, per un altro miracolo, sono rimasti attenti al loro patrimonio storico, culturale, e ambientale, soprattutto. A Lubiana l’italiano già non si parla più tanto: quasi tutti sanno l’inglese, e ti senti di essere in una capitale europea. Nello stesso tempo senti l’odore di casa, quell’odore che veniva “da là”, poco oltre la finestra della mia cucina.

Quando ci fu la dichiarazione d’indipendenza slovena, nel giugno del 1991, mio padre ancora lavorava in dogana. Gli dissero di mettere il giubbotto antiproiettile, e lui ce lo raccontava ridendo. Io ridevo un po’ meno. Poi ci fu la battaglia di Nova Gorica, ed esplose un carrarmato: la veranda di casa mia fu velata dal fumo e dall’odore di bruciato. I goriziani andarono in alto, su al castello, forse sperando di vedere qualche sciavo sbucherellato. Se ne andarono annoiati dopo un po’. La Slovenia non seguì la catena di massacri che si stava per compiere. Noi non andammo di là per un po’. Quando ci tornammo, la stella sulla bandiera era scomparsa, iniziammo ad imparare che quella era la Slovenia, non più “la Yugo”. Molti continuano a dire Yugo ancora adesso. Per distinguerla sempre e comunque dall’Italija, pardon, Italia.

Anche la Slovenia finisce un po’ prima del suo confine. C’è una zona che si chiama Prekmurije, cioè oltre il fiume Mura, una zona che per motivi geografici è molto di più legata all’Ungheria che alla Slovenia: i nomi sono diversi e sulla cartina stradale che abbiamo, esattamente come al confine con l’Italia, l’Austria e la Croazia, sotto a molti nomi di città ce n’è uno più piccolo, spesso con qualche zeta e gi in più. Niente più montagne, ma pianura. E le “tipiche fattorie a l” (come dice la Lonely Planet) sono ovunque e punteggiano una zona altrimenti perfettamente piatta. Alloggiamo in una di queste, che odora di legno ed erba. Vediamo un cavallo bianco, chiaramente un “lipizzano”, originario cioè di Lipica, una cittadina vicino al confine italiano. Vediamo anche due gattini, di cui uno malato e uno soriano. Un rospo. Ma capisco che siamo in Ungheria, perché sui pali, in alto, ci sono le cicogne.

Sono stato a Budapest per la prima volta nel 1986, credo. Era la festa nazionale, ci davano mele verdi in ogni negozio. Ne ho mangiate due. Non ho capito molto, all’epoca.
Ci sono tornato dieci anni dopo: le cose erano notevolmente cambiate. Quella volta, però, non ho visto le cicogne, che invece mi avevano affascinato, forse anche grazie ai miei otto anni. Avrò pensato ai bambini portati da questi enormi uccelli? No, perché, lo ricordo bene, nel mio librino di educazione sessuale, prima di “mammaepapà” c’erano le api (davvero!), i cani (giuro) e, appunto, “mammaepapà”.

continua

Aggiornamento autocelebrativo

Ne ho parlato qualche giorno fa, e adesso il mio racconto è pubblicato anche sul sito di Linus, che credo cambierà tra non molto, con l’uscita del nuovo numero in edicola.
Così potete leggerlo aggratis e non dire: “E io ho speso quattro euro e mezzo per leggere questo?”

Io, nel frattempo, programmo la mia seconda visita in assoluto all’Ikea, per tentare di ripetere l’exploit di più di un anno fa.

Di |2005-04-05T14:39:00+02:005 Aprile 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |10 Commenti

Bring your friends

Ci vuole tanto tempo per ascoltare i tre cd e per vedere il dvd del cofanetto With the Lights Out. Ogni canzone è difficile da sentire, il suono è spesso sporco e lontano anche dalla raffinata produzione di Nevermind, e da digerire. È istintivo cercare di intravedere nei video il viso di Cobain, ma non è facile. Sembra sempre nascosto, e spesso lo è. Come ha scritto Bertoncelli sul numero di dicembre di Linus, ascoltando i dischi si prova un senso di disagio. Sì, perché per quanto ne sapessimo delle difficoltà private di Cobain, sfociate nel gesto più intimo e privatamente doloroso che si possa immaginare, si sapeva poco della sua musica, del suo modo di sentirla. Non basta avere sentito e letto le sue dichiarazioni di amore e di riconoscenza nei confronti di Melvins, Beatles, Dinosaur Jr e Sonic Youth, tanto per fare quattro nomi. Quando si sente Kurt suonare a casa sua, provare le canzoni, quando lo si vede suonare ventenne a casa di Krist Novoselic sempre rivolto contro il muro, come se volesse sfondarlo con la voce, ecco che penetriamo con violenza una sfera che Cobain stesso ha sempre voluto mantenere privata, a prezzo della vita. E si sente un disagio e un dolore diverso da quello che ci ha colpiti dieci anni e mezzo fa.

Non intendo fare il fighetto. Non sapevo cosa fosse Bleach, prima dell’uscita di Nevermind. La maggior parte di noi ha sentito l’immediatezza di “Smells like teen spirit”, e si è accodata ai suoi accordi iniziali, sentendoli veramente come propri, o solo usandoli per prendere il ritmo e saltare verso altre persone ed altre camicie a quadri svolazzanti. Avevamo bisogno di Kurt Cobain, perché non avevamo nessuno, in quel momento. Dovevamo rifarci al passato, a qualcosa di lontano, che aveva il fascino della morte. E mi fa strano adesso vedere come si pongono di fronte a Cobain gli adolescenti con cui talvolta lavoro. Kurt è come Jim. Niente cognomi, niente gruppi. Solo nomi. Idoli. Qualcuno di appartenente ad un altro tempo, che è morto violentemente e con la coscienza di farlo. Qualcuno che, con Grohl e Novoselic, non dimentichiamolo, ha veramente segnato un’epoca, in sette anni. Sette anni, la gente si stupisce, si meravigliano anche i recensori. “Soli sette anni”, dicono. I Beatles hanno avuto una carriera di otto anni in un periodo in cui i percorsi musicali potevano tranquillamente durare il doppio. I Nirvana hanno avuto un percorso di sette anni quando i percorsi musicali iniziavano ad essere di qualche decina di mesi. Adesso i tempi sono cambiati, due diciottenni su tre (secondo quanto scritto nelle note del disco) non sanno chi sono i Nirvana. Facciamo loro ascoltare qualche canzone, cercando di non sentirci vecchi. Anzi, alziamo il volume e facciamogli sentire “Smells like teen spirit”. Noi, almeno, quella canzone ce l’avevamo.

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