bologna

Gianni e le storie tese

Ieri c’è stata la mezza maratona di Bologna. Incredibile, sportivo come sono, che me la sia persa, ma ormai è inutile piangere sull’acido lattico (versato). Piuttosto, il giorno prima si è svolta una grande kermesse (non vedevo l’ora di scrivere questa parola sul blog) in attesa della competizione. Su un palco in piazza Maggiore si sono esibiti vari artisti, e anche gli Zero Assoluto.
Ma il clou della serata, presentata da un Linus che secondo me non vedeva l’ora di andarsene a correre il giorno dopo, è stata la presenza di Gianni Morandi, che tornava a suonare davanti a San Petronio dopo anni, insieme ad altri, tra cui la nostra blogger, nonché cantante, Syria. Ma soprattutto insieme agli Elio e le storie tese.
Me ne vado quindi in piazza pensando tra me e me che, da anni, vedo il simpatico complessino almeno una volta l’anno, e che avrò la fortuna di sentire “Fossi figo” cantata dal buon Gianni insieme agli Elii.
E invece la sorpresa non sono stati questi, ma proprio Gianni. Mai stato un fan di Morandi: va bene, da piccolo ho cantato anche io “Sei forte papà”, e forse anche “Fatti mandare dalla mamma”, ma insomma, non ho un suo disco uno.
Quando ho visto, quindi, che il concerto stava diventando – appunto – Gianni e le storie tese, con una serie di pezzi a me sconosciuti dell’artista bolognese, omonimo di quello delle nature morte, arrangiati con la band, mi sono detto “e vabbè”. Solo che Morandi ci crede davvero. Lui, in fondo, è quello su mille che ce l’ha fatta, ma è come se fosse ancora in salita. Salta, fa le faccette, gode, strilla, cioè, gli piace proprio cantare, e vuole davvero dare di più. Una rivelazione.
Ma il meglio è successo quando Morandi è letteralmente impazzito. Ha preso la chitarra e ha iniziato la serie dei suoi grandi successi: due parole alla band, tipo: “È in do maggiore”, o “Qui fammi un assolo”, e via: “In ginocchio da te”, “Non son degno di te”, “Se puoi uscire una domenica sola con me”, eccetera. Delle storie tese, ovviamente, il più in palla è stato Rocco Tanica, che credo sia veramente un mostro assoluto, in grado di suonare tutto e subito. Faso e Cesareo un po’ in difficoltà, ma quello veramente in palla – si fa per dire – era Christian Meyer, il batterista. Essendo egli svizzero, “fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” era al massimo la frase per fare sì che lui e la sua fidanzatina si imboscassero tra le Alpi e i verdi pascoli, tra i monti che sorridono e le caprette che fanno ciao.
Come fare, quindi? Semplice: appena iniziava un pezzo, Elio, vicino al batterista, gli mimava il ritmo. Tempo due battute e lo svizzero andava. Uno spettacolo.
Lo so, lo so. Che razza di giovane sono, che vi parlo del concerto di Morandi e non di quello dei TV on the Radio di ieri? Ma di quello hanno già parlato in tanti, e benissimo. Io, invece, mi sono sorpreso ad emozionarmi mentre le migliaia di persone in piazza Maggiore cantavano all’unisono “C’era un ragazzo”.
Ma “Sei forte papà” non l’han fatta, per la cronaca.

Trame nell'ombra (di una sera d'estate)

Pensate alle librerie come luoghi austeri, o come supermercati dove solo se si arriva presto si trova il Montale fresco scontato? Beh, la libreria Trame non è nulla di tutto questo. Per dimostrarvelo (e non solo per questo scopo) domani sera a Trame si fa festa.
L’occasione (puramente strumentale al cazzeggio) è la presentazione dell’ultimo libro di Gianluca Morozzi (ancora lui), L’Emilia o la dura legge della musica, una specie di saggio in prima persona sul rapporto tra la regione in cui vivo e il suo panorama musicale.

Io ci metto la faccia, la voce, la selezione musicale.
Le splendide ragazze di Trame il posto, il vino bianco fresco, i taralli (e tutti i libri che vi va di comprare).
Morozzi scrive libri. E presenzia.
Ad ognuno il suo, insomma.

Siateci, domani, in via Goito 3/C, dalle 22. Poi non dite che non ve l’avevano detto.

Ferramenta

Non ci andavo mai, in ferramenta. Ho iniziato a frequentare quei negozi quando ho cambiato casa, ma sempre con la frenesia e la fretta di chi ha veramente tanto altro da fare: in quel particolare caso si trattava della ricerca impossibile di un fermacassetto dell’Ikea. Detta così sembra un congegno inventato da Q di 007, invece no. Fondamentalmente è una vite, ma non ce l’ha nessuno, tranne il mobilificio svedese. E quindi aspetto da mesi e mesi un pacchetto prepagato con dei fermacassetti Ikea. Nel frattempo i cassetti sono stati fermati da italicissimi chiodi.
Insomma, ieri sono andato con calma in ferramenta, per fare delle copie delle chiavi di casa, da dare a persone care. Ho dovuto aspettare un po’, e mi sono guardato intorno, realizzando alcune cose. Prima di tutto che non ho idea quale sia la funzione (ma neanche l’entità) della maggior parte delle cose esposte. Cioè, immagino stiano da qualche parte, e presumo che ne sia quotidianamente circondato, ma questo accade anche per le polveri sottili, i bacilli e quelli che votano Forza Italia. Ci sono, ma non si vedono, o (come talvolta ha voluto la natura per proteggerli) non si fanno vedere.
La seconda cosa che ho realizzato in ferramenta è che mi sono dovuto trattenere da un desiderio inarrestabile di comprare le cose di cui capivo l’uso, o per un mio innato (e inedito) istinto, o semplicemente perché ho letto i cartelli e i cartoncini sopra gli oggetti stessi. Lo Svitol, e una specie di tampone per togliere la muffa dalle intersezioni delle piastrelle della doccia (nove euro, vi pare tanto?). Cutter di precisione che non assomigliano per niente a cutter, ma piuttosto a strumenti nati dalla fantasia di Moebius, e poi tante, tantissime forbici di vario tipo. Tutte della stessa marca, che immagino sia leader nazionale nella produzione di oggetti da taglio.

Nella ferramenta dove sono andato, in via Farini, a Bologna, per chi volesse darci un’occhiata, c’è un’aria di antico. Dietro il bancone, una parete fatta tutta a cassettoni di legno, che mostrano campioni del loro contenuto: sui cassetti sono incollate (avvitate, fissate, brugolate, che cacchio ne so) un’infinità di manigline, tiranti, pomelli, cerniere, chiavi, tondini, dadi e dadini. E i clienti chiedono sicuri, indicano, confrontano e scelgono. I clienti insicuri, invece, vanno incontro a due sorti diverse: se si mostrano umili, vengono guidati nel mondo degli oggetti a me sconosciuti. Se invece fanno i gradassi e sbagliano nomi o funzioni, vengono liquidati con rapidi gesti. Le clienti donne, invece, possono essere di due tipi. Ieri è entrata una donna incinta, molto carina. Il titolare l’ha accolta con un grande sorriso, così come tutto il resto del personale e della clientela. Mi sono accorto che aveva il naso malamente rifatto solo quando ha scelto un orrendo pomellino di cristallo per la sua vetrinetta. C’era anche un’altra cliente: una signora anziana che però non si rassegnava al passare del tempo, e neanche alla misura delle chiavi che il commesso le proponeva. Ha optato per una soluzione di ripiego, un taglia e cuci, per entrambi i suoi problemi.

Mi piace andare in ferramenta, mi piace vedere i commessi che fanno i conti sulla carta da pacchi, la stessa che poi usano per avvolgere viti e vitine. Mi piace il rumore della macchina che fa le chiavi, che altro non è che un incisivo fortissimo sul silenzio che di solito regna tra gli scaffali. Mi piace il fatto che tutto sembra vecchio e funzionante, anche il miniventilatore made in China, che si sentirà un pesce fuor d’acqua e non vedrà l’ora di sollazzare per qualche minuto la faccia di qualcuno, prima di amputargli il naso con una pala di plastica.

E., una meravigliosa persona, frequentatrice e commentatrice di questo blog, e amica speciale di lunga data, ne ha aperta un’altra, di ferramenta, e ha reso pubblico il fatto a tutti noi amici proprio mentre io ero nel negozio che ho descritto. Nel suo, di negozio, non ci sono orari. La sua ferramenta è sempre aperta, qua.

Di |2005-07-12T18:31:00+02:0012 Luglio 2005|Categorie: I Me Mine, I've Just Seen A Face|Tag: , , , |5 Commenti

Sorrisi metallici

Sabato scorso sono stato, per la prima volta in vita mia, al Gods of Metal. Pensavo di raccontare qua alcune delle cose buffe che ci sono successe, ma ci ha già pensato Valido, quindi andatevi a leggere i suoi resoconti.
Parlerò invece di alcune sensazioni che ho provato. Intanto, la gente, la quantità strabordante di persone che si è riversata nell’Arena del Parco Nord qui a Bologna. Roba da ripetersi continuamente “Sono ad un raduno di metallari nel 2005”, chiudere gli occhi, strabuzzarli, ripetere dall’inizio. Qualcosa come trentamila persone almeno, ma probabilmente di più. Trentamila persone che hanno sborsato cinquanta euro a giornata. Ed ecco la prima considerazione.
Al metallaro non gliene importa nulla dei soldi, quello che conta è vedere il concerto, i suoi idoli che saltano da una parte all’altra del palco, le chitarre suonate a mille all’ora, circondato da sudatissime t-shirt nere. Non esiste la politica di prezzo, l’autoriduzione, si paga e basta. Orgogliosamente.
Attenzione, non crediate che guardi tutto dall’alto, eh no. Perché come molte persone di mia conoscenza, più o meno coetanee, il mio primo approccio con la musica è stato proprio con l’heavy metal. Ma non sto parlando delle prime canzoni ascoltate (altrimenti Cristina D’Avena andrebbe in rovina, e sarebbe in piazza Verdi a mendicare una birra), bensì della prima passione musicale. Per me, un nome: gli Iron Maiden, headliner della prima giornata del festival. Per una serie di motivi, quindi, ho visto gli Iron Maiden quasi quindici anni dopo avere sentito le loro prime cose, e, diciamo, quattro anni dopo avere smesso di sentirli.

Fede: Hai qualcosa degli Iron in cd?
Io: No, tutto in cassetta. Ma tutto.

Questo dialogo è esemplificativo di quando collocare gli Iron Maiden nella mia vita, fatta di walkman, cassette e disagio da provincia remota. Ma è stato un concerto bellissimo, ho cantato tutte le canzoni (breve considerazione: in quali accidenti di neuroni sono immagazzinati i testi delle canzoni degli Iron Maiden? Perché quelli e non – anche – la storia romana, che pure devo avere studiato, come da programma ministeriale?), e mi sono distratto solo durante gli assoli. Seconda considerazione.
L’assolo è il cancro che ha divorato il metal dall’interno. Sebbene, infatti, le scenografie siano spesso pacchiane, le mosse improponibili, per non parlare (talvolta) dei testi, tutto passa e va, basta crederci almeno per un po’. Ma gli assoli, cristo, gli assoli no. Perché esiste l’assolo heavy metal, che a volte si impersonifica, raggiungendo la corporeità (nel caso in questione, una grossa corporeità)? I riff rimangono, e vengono pesantemente sfruttati anche adesso (vedi l’ultimo singolo dei Daft Punk). Il discorso vale anche per gli Slayer, che hanno preceduto i Maiden (altro concerto decisamente emozionante). E vale per tutti i pezzi metal, almeno per chi ama questo genere. Insomma, inizia il pezzo, riff iniziale, si inizia a scuotere la testa, si batte il piedino, ci si getta nel pogo, ritornello cantato a squarciagola, e poi… Come il coitus interruptus, l’assolo (anche se i fan degli Iron Maiden si riconoscono per la caratteristica peculiare di cantare gli assoli: na nananaaaa naaa naaa, o con variante vocalica: oooo-ohohohooooo): si tenta di tenere il tempo per qualche secondo, il tempo di sentire dodici scale pentatoniche, ma poi basta, ci si guarda intorno, si fa o-oh, ma, fondamentalmente, si aspetta che tutto ricominci.
Ma mi sono divertito, eccome. È stato come piombare ai miei quindici anni, senza passare dal via, così. Mi è spuntato un brufolo, ho pensato ad una mia compagna di classe tettona ma inguardabile, e ho sorriso.
Eh, già, ho sorriso, perché la terza considerazione è che, a differenza di discotecari mascellati, indierocker attenti a non spettinarsi la frangetta, emoboys che si tingono la chioma di nero, b-boys che, alla fine, soffrono della scomodità di pantaloni troppo larghi, i metallari si divertono e sono veramente felici. E, soprattutto, se ne sbattono delle mode e della ricerca spasmodica e spesso insensata del nuovo-a-tutti-i-costi: le decine di migliaia di persone che erano sabato a cantare con Bruce Dickinson ne sono la prova. Anzi: la fottuta prova.

Appuntatevill'

Com’è già successo, uso squallidamente il blog come agenda.

Si inizia oggi pomeriggio alle 18 al Castello Estense di Ferrara, dove ci sarebbe una lettura di Davide Bregola e Gianluca Morozzi. Solo che, siccome quest’ultimo ha deciso di dedicarsi solo alla scrittura, come sempre sarò io a leggere le sue cose. Se continua così la gente crederà che io sono Morozzi, e quindi lui diventerà me e, finalmente, leggerà le sue cose.

I Laghetto in un elaborato travestimento.

Si continua stasera, con Monolocane. Ospiti i Laghetto, che presenteranno il loro nuovo disco Pocapocalisse. Inoltre sono previste discussioni sulla decaduta del ninja nell’immaginario occidentale e corsi di cucina creativa on air. Come al solito, potete sintonizzarvi sui 96.3 o 94.7 MHz, se siete a Bologna. Se siete altrove, o non avete una radio, in streaming qui o qui.

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Infine, una cosa per la settimana prossima. Martedì 3 maggio alle 21, alla biblioteca di Villa Spada a Bologna, Morozzi, stanco di stare lì a far nulla mentre io sputacchio parole, suonerà la chitarra, mentre io leggerò brani suoi, miei e di altri. Per non scontentare nessuno.

RicordaRivoluzioni

Sento per bene solo adesso, dopo mesi dalla sua uscita, il disco d’esordio degli Offlaga Disco Pax, Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione).
I richiami musicali sono evidenti: senza sforzarsi troppo, viene subito in mente lo stile dei CCCP, quello più parlato e meno legato al punk. Ma il richiamo è solo superficiale, e non può andare più a fondo, se vogliamo guardare bene, perché sono passati degli anni importanti.

I CCCP suonano sentendo nell’aria la caduta del blocco sovietico: descrivono il mutamento in atto sotto i loro occhi, cosa difficilissima, e tentano di fissarne alcuni punti, tra un pezzo e l’altro dei loro dischi.
Gli ODP iniziano a suonare quando l’89 è passato da un pezzo. La loro operazione, quindi, è dichiaratamente un recupero della memoria, dell’Italia socialista (e quanto è difficile ormai associare il nostro paese a questo aggettivo senza pensare a Craxi bersagliato di monetine fuori dall’hotel Raphael, almeno per chi, come me, è nato alla fine degli anni ’70), dell’Emilia rossa, la stessa regione – ma decisamente non gli stessi luoghi – nella quale vivo da quasi dieci anni. Cavriago, un paese alle porte di Reggio, come capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Italiane. Cavriago e la sua via Carlo Marx, e il busto di Lenin, tuttora sindaco onorario del paese.
L’infanzia aromatizzata al cinnamon, i racconti di partigiani narrati dagli stessi partigiani, il partito comunista al 70, ma anche 80 per cento.
Gli ODP sanno che tutto questo non esiste più, non si rifugiano nel ricordo, lo evocano, con oggetti, sapori, frasi, toponomastiche, in un’operazione che non può non ricordare quella di Matteo B. Bianchi (e di altri prima di lui). E non si vergognano di usare parole come socialista, nel senso vero del termine, di chiamare la figlia del sindaco “compagna”, ma senza il sorrisetto ironico che usiamo “noialtri”, nati irrimediabilmente post.
Ma non pensiate che gli ODP siano seriosi: come tutte le persone intelligenti usano l’ironia nelle giuste dosi, quando più serve, e, prima che suonare, scrivono dei racconti bellissimi che hanno forza evocatrice per tutti. Anche per me, così lontano da tutto questo.

Penso a me, da piccolo, nella sezione del Partito comunista, in una città che rimarrà sempre e comunque democratico-cristiana, anche quando il primo di questi due termini perderà irrimediabilmente di significato. Penso a me più grandicello, che raccolgo firme nel corso della cittadina e prendo insulti, o, quando va bene, occhiatacce. Penso a me, che sogno l’Emilia cantata dai CCCP, e invece mi trovo a due passi qualcosa che sta cambiando, la Slovenia, della quale non riesco ad avere un’occhiata approfondita e critica, perché tutto è troppo veloce, rapido, e si muove al ritmo schizoide, fatto di esaltazione e depressione, delle droghe sintetiche che sono così diffuse tra i miei coetanei “di là dal confine”. Penso a me a Bologna, appena arrivato, e a come sguazzo in quello che apparentemente mi sembra un “mondo giusto”, ma che in realtà è, anch’esso, drammaticamente in fase di rapida mutazione.

Penso che, di un sacco di cose, non ho i miei ricordi, ma quelli degli altri.
Grazie, Offlaga Disco Pax, perché mi avete regalato una nostalgia di cui posso appena distinguere i contorni.

Se non conoscete gli ODP, manderò qualche loro pezzo stasera a Monolocane. In diretta dalle 2230 sulle frequenze di Città del Capo – Radio Metropolitana, o in streaming qui o qui.

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The Monolocane Sessions (John Peel, si fa per scherzare, eh)

Puntata decisamente speciale quella di Monolocane di stasera. Infatti, saranno miei graditi ospiti in studio Jonathan Clancy e Bruno Germano dei Settlefish, che presenteranno per la prima volta in radio alcune tracce del loro ultimo disco The Plural of the Choir, in uscita tra pochissimo per Unhip records, in versione acustica.
Roba grossa, amici. E delicata allo stesso tempo, come piace a noi.
Dalle 2230 alle 0030 sui 96.3 o 94.7 MHz di Città del Capo – Radio Metropolitana, se pasteggiate a lambrusco e tortellini. Se no, potete sentire il tutto in streaming dal sito della radio o su RadioNation.

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Apparizioni (e sparizioni): il ritorno degli Slint

Brian McMahan

Ci sono degli accadimenti che, appena vengono annunciati, diventano “eventiimperdibili”. Ovviamente il concerto al T.P.O. degli Slint è uno di questi. Prima per molti motivi concordavo con lei, soprattutto perché, intorno a me, si pompava la cosa come non mai, e quando le cose si pompano come non mai, divento automaticamente sospettoso. E quindi, il sapere che il tour europeo degli Slint, dopo l’annullamento della data di Barcellona, prevedeva Bologna come unica data del sud Europa; sapere che avevano chiesto un bel po’ di soldi, e quindi il biglietto non sarebbe stato a prezzi popolari; sentire persone che dicevano “è meglio essere lì verso le nove”, quando mai al T.P.O. ci sono andato prima delle dieci; sentire dagli organizzatori che c’erano oltre ottocento prenotazioni, anzi, sentire che c’erano delle prenotazioni per un concerto al T.P.O… Insomma, mi stava passando la voglia di andarci.
Ma mi sono trovato dentro, con un bel po’ di euro in meno, un timbro verde sulla mano destra, e l’idea comunque di vedere qualcosa di bello, ma in maniera disagevole. E invece…

E invece, grazie a C., e soprattutto ai suoi amici fonici, mi sono visto tutto il concerto seduto praticamente sul palco, ad un paio di metri dagli Slint. Ma andiamo con ordine.
Ad aprire, i Radian, un gruppo che basta sentirlo per un paio di minuti per capire che sono germanici (austriaci, in questo caso), nel migliore senso del termine. Non li conoscevo, ma mi hanno affascinato. Vicino a me e a C., seduto fumante e bevente birra di continuo, un non ben identificato ciccione. Abbastanza brutto, ma mansueto: comunque un po’ inquietante.
Finalmente salgono sul palco gli Slint. Già, il palco. Dopo il concerto dei Radian, il palco viene preparato dall’entourage degli Slint, in questo modo. Ogni amplificatore viene segnato con un nastro rosa fosforescente, ogni sporgenza, idem. Non solo: viene anche segnato con delle frecce rosa il percorso che va dal “backstage” al palco, andata e ritorno (da notare che il percorso è lo stesso). Guardo e non capisco. Comunque.
Il concerto degli Slint è potente, e mi rendo conto che il ciccione birra-e-sigarette è il bassista del gruppo. Già, infatti, chi li conosceva gli Slint? Io ammetto la mia ignoranza musicale, ma Spiderland l’ho sentito per la prima volta un paio di anni fa, come molti di voi che state leggendo, credo (e se non l’avete, compratelo, veramente: se non vi piace vi restituisco i soldi di tasca mia). Immediatamente, anche senza etichette preventive (tipo “ha dato il via al post-rock”), ci si rende conto che è un capolavoro, esattamente come mi bastano le poche note iniziali del primo pezzo per capire che questi Slint vengono da qualche altra parte e da qualche altro tempo. Credo siano uno di quei gruppi che, anche se venissero ibernati e poi scongelati tra vent’anni, per un’altra reunion, lascerebbero comunque tutti a bocca aperta. Mi godo il concerto da seduto, e ogni tanto i fonici portano pure da bere a me e a C. Noti volti della scena musicale bolognese mi guardano, dalla platea e da bordo palco, con un’espressione che pare dire: “Cazzo è quello? Che ci fa lì lui?” Io me ne sbatto e mi beo di David Pajo ad un paio di metri da me.
Brian McMahan è messo in modo tale da essere rivolto proprio verso di me, quando canta. Mi sento come se fossi nella loro sala prove, in certi momenti del concerto, ed è una sensazione incredibile. Perché sembra proprio di vederli, questi quattro ragazzini, mentre pensano e provano quattordici anni fa la manciata di pezzi dei loro due album. Silenziosi e perfetti, così diversi dal gruppo che veramente esplose nell’anno in cui uscì Spiderland, i Nirvana.
Non riesco a seguire i diversi pezzi, mi sembra che sia un’unica canzone (e qui sta la grande differenza della mia percezione della serata rispetto al resto del pubblico: è stato un concerto continuamente interrotto, tra un pezzo e l’altro, da almeno cinque minuti di pausa), come un respiro.
E i respiri possono finire di colpo, senza alcun avviso. Gli Slint, dopo l’ultima nota, sono usciti senza dire una parola, niente di niente, ma proprio niente.
Immagino siano tornati nel luogo e nel tempo da dove sono venuti, seguendo delle frecce colorate.

The sun was setting by the time we left. We walked across
the deserted lot, alone. We were tired, but we managed to smile.

Però non hanno neanche sorriso.

Slint, live at TPO, Bologna, Italy – Photoset

Fiocca la neve fiocca

Che la neve ci abbia rotto le palle, beh, è evidente. L’ho pensato anche ieri pomeriggio, quando qui a Bologna continuava a fioccare, con l’aggiunta di un vento freddo che non facilitava le cose, e probabilmente faceva compiere alla popolazione anziana (notoriamente più leggera) evoluzioni che manco a Holiday on Ice.
Ma mentre aspettavo l’autobus per andare in radio, mi sono accorto dei fiocchi che si depositavano sul mio cappotto nero. Li ho guardati attentamente (e non oso immaginare che cosa abbiano pensato di me le persone alla fermata) e mi sono reso conto che si vedeva, nei fiocchi più piccoli, la tipica forma del fiocco di neve, come nell’immagine qua.
L’emozione che ho provato mi ha fatto dimenticare della preoccupazione che avevo sentito quando mi ero reso conto che ero rimasto freddo a tutta questa neve. Perché io, tutta questa neve in città, non l’ho mai vista.

Poi sono scivolato per terra.

Di |2005-03-04T11:42:00+01:004 Marzo 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |9 Commenti

Excuses

L’ultima volta che ho visto i Karate era il febbraio di due anni fa. Li aspettavo con ansia, anche se il disco che stavano portando in tour era (ed è) quello che mi piace di meno, Some Boots. Il concerto era stato bello, con Geoff Farina che cantava e suonava senza guardare niente e nessuno. I Karate erano usciti, poi erano stati richiamati sul palco del Covo e avevano iniziato il bis. Ma al secondo pezzo era successo qualcosa, Farina se n’era andato senza dire praticamente nulla, lasciando bassista e batterista senza parole, letteralmente ghiacciati. E così il pubblico.
Arrivare ieri al TPO con l’idea di intervistare lo stesso Farina mi agitava. Mi ero preparato le domande, guardando altre interviste, cercando di non ripetere sempre le stesse cose, provando a misurare le parole, con il terrore di “sbagliare”, e che lui si girasse e se ne andasse, senza una parola. Quella era la sua ultima immagine nei miei occhi. E invece no, è stato gentile, carino e moderatamente chiacchierone, ma soprattutto rilassato (potrete sentire l’intervista giovedì).

E poi il concerto. Dopo un inizio in sordina (Bob Corn, lo ammetto, non l’ho sentito), il macello fatto dai Redworms’ Farm è devastante: il batterista si presenta a petto nudo, ma non ha l’aria dello sbruffone, anzi. Certo, fa una certa impressione vederlo così quando metà del pubblico ha addosso il cappotto e l’altra metà inizia a percepire netti segni di congelamento. Ma basta il primo pezzo per capire che avrà caldo anche mezzo nudo: rigido come un robot e pesante come un carroarmato è lui che guida il terzetto brano dopo brano, sparando sulla batteria con una precisione e una velocità incredibile. Mentre suonano, penso ad una dichiazione di Farina sull’inutilità dell’eccessivo volume quando si suona e immagino il cantante dei Karate riparato dietro il bancone del merchandising. I Redworms’ Farm concludono un set tiratissimo quando il batterista inizia a fumare (non nel senso che si accende una sigaretta: fuma proprio dalla testa, dalla schiena, dalle spalle). Forse è un segnale convenzionale.

Quando il palco è sgombrato, sembra che anche il rumore del concerto precedente si sia diradato: l’unica costante è il freddo. I Karate escono, e attaccano con “Alingual”, una delle canzoni più lente dell’ultimo disco Pockets. Sono così: o ci stai, o puoi andartene a bere qualcosa. Loro suonano e basta, per loro stessi e per chi li vuole ascoltare. Sì, anche per quei tre fan dei Redworms’ Farm completamente ubriachi che continuano a gridare “karate” per tutto il tempo, tanto che mi verrebbe da avvicinarmi a Geoff Farina e sussurrargli: “Oh, non ci badare, eh. Sta’ qua, finisci il concerto, su, su, dai.” Ma Farina sta bene, abbozza qualche parola in italiano, senza dire “spaghetti”, saluta, ringrazia, dice che ha il naso chiuso, continua, suona, improvvisa. Soltanto un paio di pezzi da Some Boots, più di qualcuno da Unsolved, i necessari richiami all’ultima uscita.
Prima del concerto, alla fine dell’intervista, gli avevo chiesto se in scaletta ci fosse Caffeine or me. “Sì”, mi ha detto.

excuses are okay
however senseless they might be
and senseless is to say
that they don’t make sense to me
excuses are okay
however senseless they might be
excuses are okay

Adesso te lo posso dire, Geoff: ci sono rimasto molto male, l’ultima volta che ci siamo visti. Un professionista come te che, per un errore, se ne va così. Ma prendo il vostro concerto di ieri come una meravigliosa e lunghissima scusa, priva di senso come a volte è la Musica.

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