dagli archivi

Dagli archivi: Wild Man Blues (Barbara Kopple, 1997)

Ebbene sì, care lettrici e cari lettori di questo blog: io Woody Allen l’ho visto, all’Auditorium di Roma, il 31 marzo scorso. L’ho visto salire sul palco, vestito esattamente come me l’aspettavo (camicia e pantaloni di velluto a coste), con la sua New Orleans Jazz Band, con la quale suona da un quarto di secolo.

Woody Allen l’ha visto (e molto) anche Barbara Kopple, di cui abbiamo già parlato a proposito di Harlan County, USA, nel 1996. Da ore e ore di girato, la Kopple ha fatto uscire nel 1997 Wild Man Blues. Il documentario, in pratica, segue Allen e la sua band (e non solo) in un tour europeo, tra Spagna, Italia e Gran Bretagna.

Dico “non solo” perché in quel periodo Woody aveva lasciato tutti di stucco a causa del fidanzamento con Soon Yi, figlia adottiva della ex Mia Farrow. Inoltre, grazie alla macchina da presa della Kopple, conosciamo anche membri della famiglia di Allen: sorella e genitori, in particolare.

Nelle note di copertina del DVD la Kopple spiega che la spinta per girare questo documentario è stata soprattutto l’attività cinematografica di Allen: e come contraddirla? L’Allen cineasta è ben presente, per quanto il documentario si sforzi di parlare di musica: e che musica!

Allen, lo sanno soprattutto i suoi fan, ama da morire il jazz classico. Le sue predilezioni, però, oltre ai grandi come Cole Porter e Gershwin, vanno soprattutto alla musica che ha originato il tutto: quelle canzoni, spesso solo strumentali, suonate negli Stati del sud, che univano la ripetitività delle work song, e di conseguenza del blues, con una tavolozza sonora più ricca.

Piccoli complessi, che si esibivano nei cassoni dei camion per aggirare leggi strettissime sui concerti in pubblico: un banjo, una batteria, qualche fiato. Una musica che, dice Allen all’inizio del documentario forse esagerando, “non interessa a nessuno”.

Eppure Woody la suona, imperterrito, prima in un piccolo pub di New York tutti i lunedì sera (leggenda vuole che a causa di uno di questi concerti non andò a Los Angeles a ritirare l’Oscar per Io e Annie: ma tutti i fan di Allen sanno che lui odia la California), più recentemente nel lussuoso Carlton Hotel di Manhattan (se vi interessa ci sono da sborsare diverse decine di dollari per avere un tavolo, nelle sere in cui la New Orleans Jazz Band si esibisce).

È vero che questa musica non interessa a nessuno?

Diciamo che interessa relativamente alla Kopple, affascinata soprattutto dalla persona-Allen, ben lontana dalle aperture che, negli ultimi anni, Woody ha concesso alla stampa.

Interessa relativamente anche al pubblico che affolla i suoi concerti.

Ma interessa moltissimo ad Allen stesso: questo si percepisce in Wild Man Blues, backstage dopo backstage e albergo dopo albergo. È una passione che viene dopo il cinema, ma non si distacca da esso così tanto.
Verso la fine del documentario Allen osserva che il tour è finito: il tempo è passato, è ora di tornare a New York, a mostrare i souvenir del viaggio in Europa ai genitori.

In questi piccoli sprazzi la Kopple riesce ad avere un occhio particolare e ci rivela davvero qualcosa di inedito di un’icona dell’oggi. Per il resto il film è un documento curioso di un hobby importante di un grande scrittore e regista.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

Dagli archivi: Neil Young: Heart of Gold (Jonathan Demme, 2006)

Nel 2005, Jonathan Demme non sa bene cosa fare. Qual è la vostra prima azione quando non sapete cosa fare? Forse tirate fuori il Sudoku, guardate un video su YouTube, tentate di abbracciare una religione o leggete l’oroscopo di Paolo Fox. Jonathan Demme, quando non sa cosa fare, tira fuori il cellulare e chiama Neil Young.

“Che fai, Neil?”
“È un periodaccio.”
“Anche io: mi annoio.”
“Ah, be’, sì. Io invece ho scoperto di avere un aneurisma al cervello, vorrei scrivere un disco, ma ho solo mezza canzone.”
“Uhm, sì. È che io mi annoio, sai…”
“E mio padre è morto da poco.”
“Senti, ma se un giorno venissi là, con la troupe?”
“Vieni pure.”

Tutto vero. Be’, almeno i fatti citati sono documentati.

Dopo un po’, Neil Young entra in studio con una serie di amici, che potrebbero essere definiti “i migliori musicisti di Nashville e dintorni”: ma ha sempre mezza canzone. E ha un aneurisma al cervello. Il primo giorno la canzone è fatta e finita. Neil Young torna in albergo e scrive una seconda canzone. Il giorno dopo la porta in studio. La arrangiano e la registrano. Va avanti così per dieci giorni, e l’album (denso di riferimenti alla sua malattia e alla scomparsa del padre) è finito.

Neil Young va a New York, si opera, fa un po’ di convalescenza. Poi chiama tutti, Jonathan Demme, la troupe, i musicisti con cui ha inciso l’album (Praire Wind), sua moglie, Emmy Lou Harris, e decide di fare una prèmiere mondiale del disco nella cattedrale del country mondiale, il Ryman Auditorium di Nashville. Quell’esibizione è gran parte del contenuto di Neil Young: Heart of Gold, il secondo film-concerto di Jonathan Demme, dopo il celeberrimo Stop Making Sense del 1984, un monumento ai Talking Heads.

Innanzitutto c’è da notare lo splendido lavoro alla fotografia di Ellen Kuras, che si è trovata nella difficile e stimolante condizione di dover illuminare un concerto come se fosse un film, tenendo però ben presente lo spazio quasi mitologico che lo ospitava. Si crea, con il procedere della scaletta (nella prima parte del tutto fedele all’ordine delle canzoni del disco) un’atmosfera quasi da sogno: il pubblico si sente, ma non è quasi mai inquadrato.

Le riprese sono lunghe, fluide, totalmente opposte allo stile ipercinetico abituale nei live. Neil Young parla con il pubblico, introduce i brani, totalmente rilassato, nonostante i soli dieci giorni di prove per il concerto. E’ una meraviglia, e i suoi musicisti non sono da meno. Si arriva alla seconda parte del live, formata da classici di Young selezionati, però, esclusivamente tra le canzoni effettivamente registrate a Nashville. Come mai questa scelta? Facciamo un passo indietro.

“Neil, scusa, permetti una parola?”
“Prego, Jonathan, ho un sacco di tempo, figurati.”
“Ecco, ho cronometrato le prove… Praire Wind, dal vivo, dura un’oretta… È un po’ poco. Non è che faresti qualche pezzo in più?”
“Quanti?”
“Eh, devo arrivare a… Dunque… Una mezz’ora, una quarantina di minuti al massimo. Eh? Grazie Neil, mitico, ciao.”

Gli aneddoti aumentano, ma Young è sempre sobrio e preciso, nel raccontare le storie dietro le canzoni, quando decide di farlo. Talvolta sembra che parli con la voce di alcuni grandi narratori nordamericani, dalla scrittura pulita e struggente al tempo stesso. Non è un caso che Demme chiuda il concerto con il nostro ripreso da dietro, di tre quarti, mentre canta, accompagnato dalla sua fedele chitarra, “The Old Laughing Lady”. Un finale struggente, appunto, ma sobrio per un film, documentario, concerto inaspettatamente emozionante.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel marzo 2011

Dagli archivi: La voce di Pasolini (Matteo Cerami e Mario Sesti, 2006)

Continuiamo a invocare il nome di Pier Paolo Pasolini con la stessa disperazione con cui lo fa un Paese bisognoso di eroi, nell’accezione brechtiana del termine; e proprio sulla voce un po’ nasale e severa del poeta, scrittore e regista, unita a immagini di repertorio che raccontano l’Italia dal secondo dopoguerra, è costruito il bel documentario del 2006 di Matteo Cerami e Mario Sesti, edito da Feltrinelli in un cofanetto con un libro che contiene i testi del film e altri ancora.

Sono i testi di Pasolini che, letti dalla voce di Toni Servillo, si affiancano, rafforzandole, alle immagini: i curatori hanno fatto una scelta efficace delle parole dell’intellettuale. Sono annotazioni, considerazioni estemporanee, stralci di articoli, ma anche poesie, talvolta selezionate tra quelle che Pasolini aveva più care, poiché pensate e scritte in friulano, la lingua (della) madre. Non è un caso che sia una voce femminile a recitarle in originale, con l’inconfondibile timbro di Servillo a sovrapporsi a esse, in una traduzione necessaria, per quanto limiti la musicalità dei versi.

Scorrono intensi e dolorosi i cinquanta minuti circa di La voce di Pasolini, e regalano emozioni e pensieri, specialmente quando è la vera voce del Pasolini regista a manifestarsi. Gli autori del documentario, infatti, hanno recuperato una registrazione in cui PPP detta degli appunti per uno dei tanti film mitici della storia del cinema italiano, quel Porno-Teo-Kolossal che doveva essere interpretato da Eduardo de Filippo e Ninetto Davoli, e che non vide mai la luce, a causa dell’omicidio del novembre 1975.

Intessuto nel discorso sull’Italia che forma l’asse principale del documentario, quindi, ce n’è un altro, accompagnato dalle immagini di Gianluigi Toccafondo. Pasolini racconta quello che, secondo le sue intenzioni, sarebbe stato il film conclusivo della sua carriera di cineasta, un lavoro duramente accusatorio rispetto allo stato delle cose, con trasfigurazioni mitiche di metropoli quali Roma, Milano e Parigi. Voleva rappresentare tre tipi di utopia, con il film, destinati a crollare in maniera apocalittica e a portare con loro la Fede, ultimo orizzonte ideale e continuo punto di confronto del Pasolini regista e sceneggiatore, ma non solo.

Basterebbe forse solo questo prezioso documento per rendere La voce di Pasolini un documentario da vedere a tutti i costi, ma il film principale che si trova nel DVD viene affiancato da diversi extra, tra cui è doveroso segnalare almeno La fine di Salò, un’inchiesta sul finale dell’ultimo film di Pasolini in cui vengono intervistati attori, autori, tecnici e amici e vengono mostrate immagini inedite catturate sul set.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

Dagli archivi: Kinski, il mio nemico più caro (Werner Herzog, 1999)

Esperimento: pensate forte a Klaus Kinski. Che vi viene in mente? Probabilmente il profilo di un pazzo o, se ne sapete di cinema, ma soprattutto se vedete i film, avrete ricordato l’attore tedesco in Aguirre, furore di Dio, o in Fitzcarraldo, o ancora in Woyzeck, Nosferatu o Cobra Verde. Questi sono i cinque film che hanno riunito Klaus Kinski e Werner Herzog tra il 1972 e il 1987. Apparentemente l’unione casuale di un geniale e folle regista con un geniale e folle attore. Ma, come si scopre in Kinski, il mio nemico più caro (1999), forse le cose non stanno così.
La prima smentita ce l’abbiamo all’inizio del film: scopriamo che la famiglia poverissima di Herzog alloggiava in una pensione di Monaco con… Klaus Kinski. All’epoca, siamo negli anni ’50, Klaus cercava di sfondare come attore e Werner era un adolescente che subiva, con fascino e paura, le sfuriate del coinquilino. Piatti distrutti, porte sfondate, urla per due giorni di seguito. Era destino, direbbe qualcuno, quel destino che rimane un concetto centrale nel pensiero tedesco del XX secolo.

Vent’anni dopo i due si trovano sul set di Aguirre: nel documentario Herzog decide di ripercorrere il suo rapporto professionale con Kinski (dopo questo epilogo “familiare”) tornando sui set dove la loro relazione si è consumata, talvolta letteralmente.
Herzog parla con le comparse indie, con il direttore della fotografia, con le maestranze dell’epoca: tutti sono d’accordo nel dire che Kinski era violento, fuori di testa, aggressivo, tanto quanto vigliacco a suo modo. Propugnava la bellezza assoluta della natura e, pur avendo la giungla vergine sudamericana a cinquanta metri dal luogo dell’azione filmica, non vi mise mai piede. Lo sentiamo sbraitare per sciocchezze grazie a registrazioni di fortuna e talvolta lo vediamo interrompere scene con violenza o agire in esse con altrettanta irruenza, spaccando letteralmente la testa con un colpo di spada a un comprimario.

Sarebbe corretto quindi liquidare uno dei più grandi attori di sempre del cinema europeo con una diagnosi presa a caso dal DSM? No, anche perché il soggetto che lo dirigeva non era da meno. Traspare, infatti, nel pacato tono teutonico di Herzog, un vero e proprio odio violento nei confronti di quello che viene comunque considerato il suo attore feticcio. Sebbene lui smentisca, la leggenda che racconta di un Kinski diretto da Herzog con un fucile puntato addosso: e la minaccia di morte da parte del regista effettivamente c’è stata. “Per evitare che lasciasse il set”, dice Herzog, “gli ho promesso che gli avrei piantato otto pallottole in testa e ne avrei lasciata una per me”. Insomma, scaramucce che sicuramente capitano a tutti sul lavoro almeno una volta alla settimana.
D’altro canto c’è stata la combine per fare sì che, nell’autobiografia dell’attore, la figura del regista emergesse come quella di un pazzo, sadico, megalomane. “Se non scrivo cose violente, non venderà”, confessa Kinski a Herzog in uno dei momenti di intima confidenza e debolezza. E il regista si affianca all’improvvisato scrittore con un dizionario, per trovare i termini più pesanti da affibbiare… a se stesso.

Mein liebster Feind, recita il titolo originale del documentario: l’ultima parola, in fondo, non è così lontana dall’inglese friend e dal tedesco Freund, ma vuol dire l’esatto opposto. A vedere determinate sequenze del film, o alcune famose scene che ritraggono i due personaggi di cui stiamo parlando, pare che la pellicola colga esattamente questo centro indefinito tra due opposti. È una zona grigia che esiste, ed è quella abitata dai personaggi kinskiani più riusciti, controllati, creati, stimolati e plasmati da Werner Herzog.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel febbraio 2011

Dagli archivi: Jimi Hendrix: Voodoo Child (Bob Smeaton, 2010)

Jimi Hendrix, si sa, è una delle icone del rock: sembra una frase fatta, ma la parola “icona” può avere come significato quello di immagine condivisa e immediatamente riconoscibile. Ecco quindi che ci vengono in mente le copertine dei dischi o gli scatti dei concerti più famosi del chitarrista, spesso tratte dalle esibizioni a Monterey, Woodstock e all’Isola di Wight.

Perché un lavoro audiovisivo su uno dei più grandi musicisti del secolo scorso abbia un motivo di interesse, quindi, ci vogliono immagini e/o storie inedite o, quanto meno, poco viste: poco “iconiche”, appunto.

Jimi Hendrix: Voodoo Child riesce ad azzeccare in parte questo obiettivo: ripercorrendo in maniera rigidamente cronologica la vita e le opere del chitarrista mancino di Seattle, usa delle immagini effettivamente poco viste, ma organizza il materiale in modo davvero pacchiano.

Innanzitutto l’approccio filologicamente corretto di raccontare tutto attraverso la musica e le parole che Hendrix ha pronunciato nelle interviste tra il settembre del 1966 e lo stesso mese di quattro anni dopo (lo stesso usato dagli autori di Berlusconi Forever!) è rovinato dalla decisione di fare “leggere” le cose dette da Hendrix alla carta stampata dal musicista Bootsy Collins: quest’ultimo imita sì il tono calmo e dolce che Jimi aveva davvero ma, appunto, lo imita (come Neri Marcorè nel film di cui sopra! Ok, basta con i paralleli agghiaccianti).

Ma, soprattutto, nel raccontare il nostro si sente fortissimo il peso della famiglia, che ormai regola e amministra ogni uscita discografica legata a Hendrix, compresa la mega antologia West Coast Seattle Boy nella quale è incluso il DVD di cui stiamo parlando.

La scelta, non originale anch’essa, è parlare di Jimi, ma anche di James Marshall Hendrix: insomma, un po’ il figlio legatissimo al padre, a cui manda numerose lettere e cartoline, un po’ l’uomo che infiammò letteralmente i palchi di mezzo mondo. Solamente che nel parlare dell’uomo non si va a fondo, e nel parlare del personaggio non si racconta nulla che già si sappia. In particolare gli Hendrix hanno messo, evidentemente, un bel divieto a tutto ciò che riguarda sesso e droga.

Sì, Hendrix rilascia un paio di dichiarazioni che indicano un “libero arbitrio” nell’uso delle sostanze stupefacenti, ma sembrano, più che dei contenuti interessanti posti in un certo snodo del documentario, una spunta sulla riga “droga”: “Ok, ecco cosa dice, andiamo avanti”. Sul sesso le cose vanno più o meno allo stesso modo. Ora, non vogliamo di certo l’ennesima occasione di sfruttamento di questi lati del personaggio, ma ignorarli del tutto è smaccatamente censorio.

Allo stesso modo, ma in questo caso è un bene, non si specula sulla scomparsa di Jimi Hendrix, avvenuta nel settembre del 1970: con la sua morte si conclude il documentario, che rimane passabile per chi non sappia nulla o quasi di questo grande musicista, ma che aggiunge davvero poco alla sterminata quantità di materiale che lo riguarda.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nell’aprile 2011

Dagli archivi: I diari della Sacher (AA VV, 2001-2002)

A Pieve Santo Stefano, un paesino di meno di quattromila abitanti in provincia di Arezzo, esiste da una quindicina d’anni l’Archivio Diaristico Nazionale. Il nome spiega tutto: in questa sede, aperta alla consultazione pubblica, vengono conservati diari, memorie ed epistolari inviati dalla gente comune. Chiunque, come si diceva, può sfogliarli: ogni testo, infatti, è catalogato e archiviato con estrema precisione.

Nel 2001 Angelo Barbagallo e Nanni Moretti, cioè la Sacher Film, in collaborazione con quella che allora si chiamava Tele+ e con RaiTre, iniziano la produzione di una serie di mediometraggi che prendono spunto proprio da alcuni testi conservati all’Archivio.

In un paio d’anni vengono prodotti dodici film, intitolati I diari della Sacher, che vengono presentati con successo alla Mostra del Cinema di Venezia e al Festival di Locarno, diventando anche un’ottima palestra per alcuni registi che negli anni successivi hanno debuttato con lungometraggi più o meno fortunati. Qualche esempio?

Tra i prodotti del 2001 ci sono Bandiera rossa e borsa nera, una storia tratta dal diario di Gloria Chilanti, un’adolescente che si trova a vivere nella Roma della Resistenza. Alla regia Andrea Molaioli, spesso aiuto regista di Moretti, che ha firmato qualche anno fa il fortunato La ragazza del lago.

Un altro dei diari è diretto, invece, da Susanna Nicchiarelli: la regista del recente Cosmonauta racconta una storia ambientata qualche anno prima, sempre nella capitale. In Cacridobò, infatti, Leda Casalini, Lydia Cristina, Vittoria Boni e Wanda Doniselli ricordano la loro vita di ragazze nel ventennio fascista. A differenza di altri documentari, questo è tratto da un diario scritto allora, ottant’anni fa, non ci sono ricordi filtrati dal tempo e messi su carta. La Nicchiarelli riprende le due superstiti delle quattro amiche per la pelle che raccontano cosa voleva dire essere quindicenni in quel periodo storico così particolare.

In genere in questi mediometraggi di mezz’ora circa l’uno è lo stesso “diarista” a essere davanti alla macchina da presa: l’operazione è interessante perché, nella maggioranza dei casi, assistiamo a un doppio racconto. Riprendendo pagine del proprio diario, infatti, il protagonista di ognuno degli episodi narra di sé seguendo il filo delle pagine, ma anche della memoria.

Ciò che la pagina ha per forza di cose ridotto, asciugato e sintetizzato riprende aria: si aggiungono quindi nuovi aneddoti, vengono alla mente nuovi volti, si correggono ricordi imprecisi. Le testimonianze vengono condite da filmati di repertorio e musiche dell’epoca che viene raccontata. Tutto diventa complementare ai diari, talvolta stampati e usciti nelle librerie per editori come Giunti, Mursia e Terre di Mezzo, altre volte rimasti soltanto nel preziosissimo tesoro contenuto tra le mura dell’Archivio (che, per inciso, ha anche un canale YouTube).

Citare tutti gli episodi qua sarebbe poco utile: il nostro consiglio è di cercare di recuperare questi gioielli, ne verrete conquistati, sin dalle prime parole che, come in ogni diario che si rispetti, di solito riguardano la presentazione del protagonista.

Un altro Diario della Sacher del 2001 è firmato da Valia Santella che, in Nel nome del popolo italiano, racconta la storia di Claudio Foschini, uno che potrebbe stare in Romanzo Criminale, visto che ha vissuto negli stessi anni e negli stessi ambienti rappresentati nel film e nella serie televisiva tratti dal romanzo di De Cataldo.

In questo caso la presentazione del protagonista, che Foschini legge dai suoi quaderni ripreso dalla Santella è incredibile. “Era il giorno 30 luglio del 1949 alle ore 12 fra le baracche del rione Mandrone acquedotto felice nascevo io in qualche modo anch’io avevo come Gesù il bue e l’asinello, il bue una puttana e l’asinello, Agostino il ladro” (sic). Roba da film, no?

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel dicembre 2010

Dagli archivi: Mario Bava, Maestro of the Macabre (Garry S. Grant, 2000)

Il detto “Nemo propheta in patria” è spesso abusato, ma non è un caso che l’unico documentario su una delle nostre glorie cinematografiche nazionali, Mario Bava, sia di produzione statunitense. Furono infatti per primi statunitensi, francesi e inglesi ad apprezzare i film di Bava, il cui riconoscimento in Italia è cosa tutto sommato recente.

Mario Bava – Maestro of the Macabre è diretto da Garry S. Grant e scritto da Charles Preece, autore quest’ultimo anche di altri documentari monografici di argomento cinematografico. Il film, uscito nel 2000 e proposto come bonus disc nella ricchissima edizione DVD della Ripley’s del film d’esordio del regista sanremese, La maschera del demonio, racconta la storia di questo grande nome del cinema nostrano, concentrandosi sulla sua filmografia da regista, iniziata appunto nel 1960 con il celeberrimo horror interpretato dall’icona Barbara Steele.

Definire Bava un artigiano, come spesso si sente dire, non è solamente un modo di dire: la sua carriera cinematografica, infatti, è stata influenzata molto – come si sottolinea nel documentario – dal lavoro di scultore del padre, e dalle decine di film per i quali ha firmato la fotografia, prima di dedicarsi completamente alla regia per vent’anni, fino alla sua morte nel 1980.

Grant e Preece adottano uno stile piuttosto convenzionale: seguendo una linea “biografica”, esaminano le varie fasi della carriera di Bava alternando brani dei suoi film, a testimonianze di registi e critici per lo più statunitensi (da Tim Burton a Joe Dante a Kim Newman) e di collaboratori e familiari del regista. Non è chiaramente la forma a essere interessante in Maestro of the Macabre, né una particolare innovazione critica o prospettica (per esempio quando si parla di Italia non si esula da immagini cartolinesche di alberi, fontane e Cinecittà che si alternano su un’aria d’opera…): è una contrapposizione a colpire lo spettatore.

Da un lato la semplicità assoluta e l’ironia superlativa di Mario Bava che, è noto, non si prendeva mai sul serio su niente, ed era prontissimo a smorzare ogni entusiasmo cinèphile di rilettura critica della sua opera. Dall’altro risulta evidente come i film del nostro, specialmente gli horror, abbiano avuto un’influenza enorme su tutto il cinema di genere a venire, sia dal punto di vista estetico che dei contenuti. L’uso delle luci, la rilettura del gotico, lo stilema dello zoom, la rappresentazione della donna sono solo alcune caratteristiche per cui si è coniato l’aggettivo “baviano”.

Bava, insieme a Riccardo Freda, ha dato il via alla stagione dell’horror italiano, influenzato dalle produzioni Hammer degli anni ’50 e in contemporanea ai primi film AIP di Roger Corman (in seguito molto debitori del cinema baviano). Ma la strada che ha percorso, come spesso capita per alcuni geni solitari, è stata del tutto personale: il suo modo di mischiare elementi della tradizione gotica, del giallo e, una tantum, della fantascienza, è stato sempre avulso da qualsiasi tipo di compromesso, che non fosse la magica congiunzione tra appeal popolare (inteso come pop) e alto valore artistico. Spesso, inoltre, il suo cinema è stato anticipatore di tendenze e sottogeneri: due esempi per tutti sono il poliziesco all’italiana declinato con il sadismo e la violenza di Cani arrabbiati e lo splatter di Reazione a catena che informa buona parte dei momenti più felici dello slasher americano degli anni ’80.

Mario Bava – Maestro of the Macabre, in conclusione, è un buon documentario, ma Bava ha bisogno di qualcosa di più che faccia giustizia all’importanza del suo lavoro. D’altro canto, scrivendo queste parole, ce lo immaginiamo sorpreso e quasi scioccato dal fatto che ci sia ancora qualcuno che spende pellicola e inchiostro per un onesto artigiano, tenutosi sempre lontano dalle luci della ribalta: probabilmente il migliore che il cinema italiano abbia mai avuto.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel dicembre 2010

Dagli archivi: Harlan County, USA (Barbara Kopple, 1976)

Barbara Kopple è del 1946, quindi ha più o meno venticinque anni quando decide che il suo secondo documentario, dopo il film collettivo Winter Soldier, avrà a che fare con i sindacati dei minatori americani: c’è una lotta interna nel mondo corporativo di una delle categorie di lavoratori più sfruttate e sottopagate in assoluto. Barbara Kopple ha circa 30 anni quando vince un Oscar per il migliore documentario. Quello che accade in questi cinque anni è Harlan County, USA.

Il lavoro sul film è iniziato da un po’ quando, nel giugno del 1972, 180 minatori di un paesino nella contea di Harlan nel Kentucky entrano in sciopero per rivendicare diritti negati da decenni. Kopple e la sua troupe decidono che quello è il vero focus su cui puntare: vivranno con i minatori e le loro famiglie per anni e seguiranno tutte le fasi dello sciopero, fino alla conclusione della lotta, producendo, alla fine, poco più di un’ora e quaranta di montato. Il film prenderà il nome della contea in cui è in gran parte ambientato e uscirà nell’ottobre del 1976, per vincere l’ambita statuetta qualche mese più tardi.

Non è così banale che l’eccezionalità di Harlan County, USA sia la storia che racconta: una lotta durissima e violenta contro i grandi gruppi energetici condotta dagli ultimi. La comunità dei minatori vive in baracche sugli Appalachi, senza acqua corrente; è decimata dalla povertà, dall’indigenza e dalle malattie, compresa l’antracosi (una patologia tipica dei minatori, che porta alla distruzione progressiva del tessuto polmonare).

E deve vedersela non solo con l’immediata conseguenza dello sciopero, cioè la decurtazione del già misero salario, ma anche con la violenza dei crumiri che, armati, sfondano i picchetti. Il tutto senza che la legge alzi un dito, o quasi: Kopple, infatti, ci regala uno dei momenti più alti e tesi del documentario proprio quando gli scioperanti e i crumiri si fronteggiano, entrambe le parti con armi alla mano e lo sceriffo locale a fare da mediatore.

Se questa è la vicenda principale narrata, ci sono alcune sottotrame, per così dire, ben presenti. Innanzitutto le lotte ai vertici della United Mine Workers of America (UMWA), la principale organizzazione sindacale dei minatori: scontri furiosi che portano ad accuse (poi rivelatesi fondate) di corruzione nei confronti di un leader e di omicidio su commissione di un rivale, con sterminio totale della famiglia di quest’ultimo.

Quella che rappresenta Kopple è l’America rurale, che parla un inglese stentato; l’America di “un fucile in ogni casa”; l’America della giustizia personale, delle lotte di potere e del profitto a tutti i costi. Ma è anche l’America cantata da Seeger, Springsteen o meglio, in questo caso, l’America del bluegrass. È la musica, infatti, la grande coprotagonista di questo documentario: una passione di Kopple che, non per niente, firmerà nel 1999 My Generation, incentrato sulle tre edizioni del Festival di Woodstock.

In questo caso, però, le aule comunali, le case e le manifestazioni raffigurate in Harlan County, USA risuonano dei banjo, delle chitarre e di pochi altri sporadici strumenti che servono per suonare una delle musiche più antiche e popolari degli USA. Sono le parole delle canzoni bluegrass a rendere immediatamente cronaca quel che accade, anche se risalgono agli anni ’30. Per i minatori, infatti, il tempo pare non scorrere mai, le vite immutabili come le loro condizioni lavorative: o quasi.

Vi svelo infatti che la conclusione delle vicende narrate nel documentario di Kopple è abbastanza positiva: “Anche grazie alla presenza della troupe”, hanno dichiarato congiuntamente gli interessati. Talvolta, insomma, il grande cinema serve.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel dicembre 2010

Dagli archivi: due documentari su Stanley Kubrick

Due documentari non bastano per tracciare anche solo i contorni di una personalità artistica complessa come quella di Stanley Kubrick: crediamo sia interessante, però, giustapporre un prodotto ben confezionato, classico nella forma e nell’esposizione come Stanley Kubrick: a life in pictures, di Jan Harlan, e un piccolo prodotto molto più recente e breve del primo, cioè Stanley Kubrick’s Boxes, di Jon Ronson.

Il documentario firmato da Harlan, assistente e cognato del grande regista americano, è come potete immaginarvelo: uscito nel fatidico 2001, due anni dopo la scomparsa di Kubrick, è narrato da Tom Cruise, ed è diviso in una serie di capitoli ognuno dedicato a un film o a precisi momenti nella vita di Kubrick.

Ci sono testimonianze di familiari e di nomi illustri (da Woody Allen a Matthew Modine, da Malcom McDowell ad Arthur C. Clarke), brani di film, qualche materiale inedito che, per due ore e un quarto, pavimentano la strada tracciata secondo criteri rigidamente bio-filmografici. Del resto, lo si capiva anche dal titolo.

Ciò che rimane, dopo la visione di A life in pictures, solitamente è una duplice voglia: una, tutto sommato accontentabile, che consiste nel rivedere tutti i suoi film. L’altra, vera utopia, di conoscere di più del suo modo di lavorare e pensare, a prescindere da esposizioni da manuale.

Stanley Kubrick’s Boxes, del 2008, ha un elemento comune, oltre al soggetto del documentario, con il titolo appena esaminato: il titolo è veritiero. Infatti Jon Ronson, conduttore radiofonico, giornalista, documentarista e autore – fra gli altri – del libro da cui è stato tratto il film L’uomo che fissava le capre, parla di un migliaio di scatole stipate in diversi spazi della residenza dei Kubrick il cui contenuto, organizzato maniacalmente dallo stesso Stanley, è pressoché sconosciuto.

Non so se mi spiego.

Per cinque anni, quindi, Ronson esamina scatola per scatola, scoprendo, ad esempio, che Kubrick siglava e archiviava ogni lettera che gli fosse arrivata da un fan, fosse essa positiva o negativa nei confronti del suo lavoro, ma anche se da lui giudicata opera di un folle. Non solo: mandava i suoi assistenti a fotografare intere strade londinesi o di altri centri urbani porta per porta, ma mica per trovare le location nelle quali girare, no. Per ricostruire tutto negli studi di Pinewood, dove Kubrick ha realizzato gran parte dei suoi film.

Questi due esempi, però, sono forse fuorvianti: ciò che emerge dal contenuto delle scatole, ma soprattutto dalle interviste fatte ad assistenti e familiari, non è la pazzia presunta del regista, su cui in molti hanno ricamato, ma piuttosto l’enorme amore che Kubrick nutriva nei confronti del suo lavoro. Un amore maniacale, certo, contrassegnato da un senso per la precisione che potrebbe sembrare folle, ma che ha portato a quei film. Un metodo che Kubrick fece sempre più suo: uno degli aneddoti più impressionanti che vengono narrati riguarda il mistero del tempo sempre più lungo intercorso tra un film e l’altro nell’ultima parte della sua carriera.

“Le scatole”, dice Ronson, “svelano il mistero: Kubrick tra un film e l’altro si preparava”. Era un’attività necessaria, anche se talvolta portava a esiti disastrosi, basti pensare che nel tempo in cui Kubrick e il suo staff organizzavano il materiale di preproduzione per un film che toccava il tema dell’Olocausto, Spielberg pensava, preparava, produceva e distribuiva Schindler’s List. E tutto il materiale del progetto Aryan Papers? Ordinato, etichettato e messo da parte. In una scatola.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel novembre 2010

Dagli archivi: La vita in un giorno (Kevin MacDonald, 2011)

Che cosa avete fatto il 24 luglio 2010? Io quel sabato, credo, non ho fatto nulla di eclatante, come è probabile, statisticamente, che sia vero per la stragrande maggioranza della popolazione del globo.

Alcuni, però, uomini, donne, sani, malati, italiani, olandesi, afghani, giovani e adulti, hanno risposto a un appello di cui si è parlato anche su questo blog: hanno raccontato con i propri mezzi di ripresa video quel loro giorno e hanno mandato il tutto a un canale YouTube.

Sono arrivati 80000 video da 140 Paesi, per un totale di 4800 ore di filmati. Più di sei mesi di girato.

Da questa variegata e immensa mole di materiale, i produttori Ridley e Tony Scott, il regista Kevin MacDonald e il montatore Joe Walker hanno tratto un film di un’ora e mezzo, presentato alla scorsa edizione del Sundance, al Festival di Berlino e, ovviamente, su YouTube.

Questo è Life in a Day, o in italiano La vita in un giorno – La storia di un giorno sulla Terra.

Seguendo una scansione temporale, dai primi risvegli della mattina presto, quando la luna è ancora splendente nel cielo, fino alle ultime ore della giornata, rimbalzando tra i cinque continenti, il film ha un certo fascino antropologico. Sarebbe una di quelle cose che andrebbero messe nelle capsule che vengono mandate nel cosmo con, al loro interno, cose che rappresentano l’essere umano.

Un messaggio nella bottiglia spaziale che forse mostra l’uomo un po’ più buono di quel che è realmente, ma pazienza. È affascinante vedere popoli diversi che fanno fatica a svegliarsi, si lavano, mangiano, vanno al lavoro, eccetera.

Perché, giustamente, il film parla di “un” giorno della vita del pianeta, uno qualsiasi. Ci sono, certo, alcune figure che risaltano più delle altre, come quella del coreano che è quasi dieci anni che gira il mondo in bici, o della donna che è andata sotto i ferri per un cancro, o del ragazzo che riprende la telefonata con la quale racconta alla nonna della propria omosessualità.

Ma Life in a Day non vuole essere un “mondo movie”: i riflettori non sono puntati sull’esotico (quando il materiale è fornito da 140 Paesi, tutto è esotico o niente lo è), né sul voyeuristico, né sull’anormale. Descritta così l’ora e mezzo di durata parrebbe infinita: e in effetti i primi minuti non sono facili, arrancano lenti; poi, mano a mano che il film prosegue, ci si inizia ad appassionare a… A cosa, a chi, visto che non ci sono protagonisti, coprotagonisti o antagonisti?

Ci si affeziona a degli sconosciuti, quindi, in sostanza, all’uomo, in un rigurgito di umanesimo inatteso. Ci si commuove, si ride e si patisce, e ci si sorprende a provare queste emozioni: ecco il grande lavoro di chi ha ordinato le migliaia di frammenti arrivati per questo progetto.

Il montaggio e il linguaggio filmico mostrano pienamente le loro potenzialità di latori di senso, un canto di lavoro africano (non a uso e consumo di un documentarista, ma reale) ritma anche una scena girata a migliaia di chilometri da là, bambini di tutti i colori fanno i capricci e delle persone muoiono schiacciate da altre in un tunnel.

Già, il 24 luglio 2010 ne perirono 21 alla Love Parade di Duisburg: in alcuni frammenti la cronaca, ciò che viene tramandato e ricordato, entra nel giorno di Life in a Day, creando un effetto straniante e schizofrenico.

Se da un lato, infatti, la tragedia è ancora più toccante (grazie al rinnovato umanesimo di cui sopra), dall’altro è vista come un’altra delle cose successe a un organismo complesso e enorme, quello della Terra e dei suoi abitanti.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nell’aprile 2011

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