I’ve Just Seen A Face

Neighbours 6

Qualche notte fa sono stato svegliato da un rumore strano. Mezzo addormentato ho pensato: “Un pianto. Un forte pianto. Che succede?”. Mi sono tirato su sul letto, e ho capito che quello non era un pianto, ma un gemito proveniente dall’ultimo piano. Un po’ sorridendo, un po’ incazzato perché svegliato ancora una volta dagli amplessi dei miei vicini di casa, mi sono addormentato. Non prima di avere sentito distintamente i due orgasmi, separati. “Abbattiamo il mito dell’orgasmo simultaneo”, ho pensato, rifiutando di partecipare in alcun modo al loro piacere da lontano.
Il giorno dopo, verso l’ora di pranzo, ero nella mia stanza che controllavo la posta elettronica. Dall’ultimo piano provengono delle urla, ma di tipo diverso. Una voce femminile dice, lamentandosi: “Ma mi avevi promesso che avrei lavorato con te anche l’anno prossimo” (per evitare facili incomprensioni: il vicino dell’ultimo piano fa il barista, e anche che le sue partner occasionali: portarsi il lavoro a casa. Bah.). Silenzio. Ancora silenzio. Io tendo l’orecchio.
“E NON MI TOCCARE, CAZZO!”, urla lei.
Ancora silenzio, poi una risatina maschile. Una porta sbattuta. E poi della musica tamarra, sparata a palla.

La musica. Il vero problema del vicino dell’ultimo piano è la musica che ascolta. Stamattina mi ha svegliato verso le dieci. Il problema, ripeto, non è l’ora, ma la musica. Io non so dove prenda i dischi che ascolta, ma vi dico che Los Cuarenta, in confronto, potrebbe essere definita una raffinata collezione di musica da camera.
Stamattina il vicino dell’ultimo piano ha ascoltato una canzone sola, cantata in inglese da un uomo che non conosco. Intendiamoci: dopo averla ascoltata una volta ho pensato di regalargli tutti i dischi di Michael Bolton, meno dannoso. Solo che, ad un certo punto, completamente fuori ritmo, fuori dalla melodia, fuori da tutto, il vicino barista ha urlato uno straziante “Goodbye”. E basta. Ha spento lo stereo. Quest’uomo sta soffrendo. E, di riflesso, frantuma anche le mie, di palle. Aiutatelo, aiutatemi.

Di |2004-07-05T13:13:00+02:005 Luglio 2004|Categorie: I've Just Seen A Face|Tag: , , , , |9 Commenti

Referrers – Gente che cerca altro – 6

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6. sito setta molto satanica 666 metal

“C’è bisogno di qualcosa di più”, pensava Mirco. “Mirco, con la c, mi hanno chiamato quegli stronzi”, pensava Mirco con la c in un naturale impulso di ribellione adolescenziale verso i suoi genitori. “Manco con la k, che fa fico. Con la c. Se lo venissero a sapere gli altri del gruppo”. Il gruppo, i Satan’s Adepts, era il gruppo black metal di Taràno di Sotto. Anzi, a ben vedere era il gruppo di Taràno di Sotto. L’unico esistente. Concerti all’attivo: uno, alla festa di Giovanni, il cantante, per i suoi diciassette anni. Dopo i primi due pezzi, “Satan is the Lord” e “Evil is the Reason”, la vicina di casa, signora Tebaldi, aveva telefonato per chiedere di abbassare lo stereo. Nessuno aveva avuto il coraggio di rivelarle che quello che l’aveva disturbata era il potente e satanico suono del primo concerto dei Satan’s Adepts, da Taràno di Sotto. Che quello che cantava in maniera così splendidamente gutturale da non riuscire a parlare poi per almeno due ore dopo la fine del concerto era Giovanni, che lei aveva visto nascere. O meglio, era Skull, il cantante dei Satan’s Adepts. E che la batteria con doppia cassa era suonata da Riccardo, sì, il figlio del postino, che si faceva chiamare Bloody Rick, però. Eccetera. Avevano smesso di suonare e basta. Mirco aveva poggiato il basso all’amplificatore, imprecando contro la signora Tebaldi.
Ma i Satan’s Adepts non decollavano. Ovvio, diceva Roberto, il chitarrista (l’unico che non aveva soprannomi: ma del resto era l’intellettuale del gruppo). Bisognava ispirarsi a qualcun altro. Ma a chi?
“Cerca un po’ su internet”, aveva suggerito Giovanni. Roberto si era limitato ad annuire, e aveva acceso una sigaretta. Aveva diciotto anni ed era l’unico che fumava. Anche gli altri avevano provato, ma senza successo. Solo Skull non aveva neanche provato. “Per la voce”, si giustificava.
“‘Setta satanica’ non basta”, pensava Mirco con la c.
Riaprì Internet explorer. La pagina iniziale era quella dei Deicide. Andò su Google e pensò alle parole da mettere. “‘Sito’, sicuramente. Poi ‘setta’. Satanica. Metal, metti che troviamo anche un’altra ispirazione musicale”.
Niente.
“Molto satanica, metti che trovi solo dei pagliacci. E aggiungiamoci anche il sei sei sei”, pensò Mirco.
Sentì una voce. Sua madre lo chiamava per la cena. Guardò una pagina internet tra i risultati del motore di ricerca.
Il giorno dopo anche i Satan’s Adepts avevano un blog. Roberto approvò la scelta, fumando l’ennesima paglia.

Neighbours 5

Quando sono venuto a vivere in questa casa, loro non si vedevano mai. Però si sentivano. Una volta sono tornato a casa e i miei coinquilini mi hanno detto che avevano litigato, tirandosi piatti e oggetti, come nei film. Dalla finestra della cucina, dall’altra parte del pozzo luce, in alto, potevamo vedere una parte del loro appartamento, decorato in maniera bizzarra. Ecco che la coppia del secondo piano, eliminata la dicitura “quelli che quando litigano urlano e si spaccano i piatti in testa”, è diventata “quelli con la casa dipinta” o, più brevemente, “i pittori”.
Poi, finalmente, li abbiamo visti, e sono diventati “i tossici”. Entrambi sulla trentina, alti e magri, emaciati, non parlano mai. Forse hanno bisogno di un servizio da dodici, per farlo. Non pare che sentano musica, né guardino la televisione. Si vede soprattutto lei, che ogni tanto prende la bicicletta ed esce. Oppure sono insieme nell’atrio del mio palazzo, completamente riempito di enormi pannelli di polistirolo o di compensato, e portano a casa questi oggetti. In effetti questo farebbe pensare più ad un’indole creativa che tossicomane, ma si sa che a volte le cose sono legate.

Ma il punto non è questo. Il vero mistero legato alla coppia del secondo piano è il saluto.
C’è sempre un problema, nel salutare le persone che vedi spesso, ma con le quali non hai scambiato mai mezza parola. Saluto da lontano? Ciao e sorriso? Cenno col capo? Con loro la questione non si pone in questi termini, ma seguendo la dicotomia “dentro/fuori”. Mi spiego. Se uno dei due, o entrambi, mi incontra all’interno del palazzo dove vivo, saluta. Se l’incontro avviene fuori, niente, neanche un cenno. Ma con “fuori” non intendo a Melbourne. Intendo anche un metro oltre il portone di casa.
Questa cosa continua a lasciare sconvolto me e i miei coinquilini. Perché fanno così? Non ci riconoscono se non nel nostro habitat? Non si fidano degli sconosciuti in quella tentacolare metropoli che è Bologna? Sono pazzi?

Ho deciso che li stuzzicherò, per amore della scienza. Passerò un pomeriggio seduto mezzo fuori e mezzo dentro il mio portone, e li aspetterò. Vediamo cosa faranno, se mi saluteranno. Ovviamente, se vedo che tirano fuori dei piatti, me la do a gambe levate.

Referrers – Gente che cerca altro – 5

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5. “la mia fidanzata nuda gratis”

L’ultima cosa che sentiva e che gli si piazzava nella testa per almeno due ore, era il rumore della porta che sbatteva. Ogni volta che lei se ne andava, sbatteva la porta. Ma forte. E luicontinuava a sentire quel rumore sordo, talvolta accompagnato dalle urla della vicina. “Ma basta sbattere queste porte, insomma!”
Eppure l’amava. Quando si era messo con lei, i suoi amici erano sbiancati. “No. Con lei?” E ogni volta che passavano insieme, attiravano solo sguardi invidiosi. Invidia e desiderio, ecco cosa suscitava la sua donna. Una bellezza perfetta, luminosa, erotica, non volgare. Un cervello, ben piazzato nella scatola cranica, che funzionava a dovere. E tutti gli accessori che si potevano desiderare. Sapete, quelle piccole grandi cose che fanno impazzire gli uomini. Per esempio, saper pronunciare correttamente alcune parole francesi, anche se cadute in disuso da anni. Fanno comunque un certo effetto.
L’amava, nonostante con lei non fossero andati oltre il bacio-con-la-lingua. Non appena lui allungava una mano, lei si irrigidiva. Se lui tentava di andare oltre, facendo finta di non notare l’irrigidimento, ecco che lei si alzava. Se provava a discutere, lei se ne andava. Se tentava di chiamarla, per continuare a discutere, se ne andava, sbattendo rigidamente la porta. Lui piangeva un po’, poi si masturbava, e, alla fine, con la pace dei sensi, pensava “L’amo”.
Quel giorno, però, non ne poteva più. Iniziava ad esserci la primavera, pollini e ormoni nell’aria. Non gli interessavano assolutamente le capacità linguistiche della sua donna. La voleva nuda, cosparsa di venticinque gusti diversi di gelato, magari anche con delle cialde, dei coni, della granella di nocciola, della panna montata e un cucchiaino colorato. No, quello meglio di no. Voleva farci l’amore, voleva. “Ti pago”, le aveva detto quasi piangendo. “Fammi vedere le tette. Ti amo. Quanto vuoi?”. Era impazzito. Lei aveva sbattuto la porta. E lo “sbam” gli risuonava nel cervello, in continuazione.
Accese il computer, sperando di ottenere qualcosa per alleviare le sue pene. Digitò qualche parola in un motore di ricerca.
Quando premette invio, scoprì che la sua ragazza aveva mostrato le sue pudenda, senza chiedere compenso alcuno, ad almeno un fotografo (direttamente) e a qualche centinaio di milioni di persone (potenzialmente). Ma forse i fotografi erano di più, visto che lo stile e la luce delle diverse pose era evidentemente diverso. Per non parlare degli attori che erano con lei. Ma probabilmente si trattava di un fotomontaggio, un fotomontaggio realistico, magistrale.
Poi lesse per la prima volta in vita sua un blog, ma non c’entrava niente. Andò su Splinder, e ne aprì uno anche lui. Dicevano che funziona, per dimenticare donne del genere. Gli rimase solo voglia di gelato. Ma anche quello si doveva comprare.

Referrers – Gente che cerca altro – 3

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3. “perversione assorbenti”

Quando si erano conosciuti, alla fine dell’università, erano andati subito a letto insieme. E avevano continuato a farlo con ritmi da coniglio, non imitando però le simpatiche abitudini dei roditori. Si erano sposati da dieci anni, ma non avevano figli, e non ne volevano avere. Volevano solo stare insieme e fare sesso. Il sesso: la vera base del loro rapporto. Erano come posseduti, quando si possedevano. Compenetrati quando si compenetravano. Insomma, tutto bene. Dopo un po’, però, capirono che dovevano fare qualcosa di più che fare l’amore. Iniziarono con del blando sado maso, per poi passare allo scatting, whipping, spanking, pissing, bondaging, tickling, lactating, vomiting, shitting, filming, fisting, licking, dancing, camping. Ogni nuova pratica sessuale era fonte di gioia, ogni gioco erotico acquistato era motivo di meraviglia. Ogni tanto uscivano, ma raramente. Non si stufavano mai l’uno dell’altra.
Arrivò anche il momento dello scambio di coppia, con le varianti lesbo, bi, gay, day by day (nel senso che la cosa era ormai quotidiana). Da un po’, strano a dirsi, si erano stancati. Continuavano a piacersi, ma…
Quel giorno lui le mise le mani sul sedere, e lei disse: “Oggi no”. Lui capì, e le fece intendere, accendendo dei riflettori e posizionando la videocamera ad altezza cintola, che c’era comunque sempre una soluzione. Lei, per tutta risposta, stracciò la mascherina da donna gatto che metteva quando si riprendevano durante gli atti.
Era finita? La loro storia, la loro passione, i gemiti. “Anche il matrimonio, in effetti”, pensò lui guardandosi l’anulare.
Ma forse c’era ancora una speranza. La rete, fonte di incontri clandestini, di club di incontri, di clan esibiti ed esibizionisti. Fonte di tini, anche.
Digitò due parole.

Qualche giorno dopo, nonostante sua moglie si strofinasse su di lui vestita solo con del filo interdentale, e lo stereo lanciasse a tutto volume la compilation “Sex-O-Rama”, lui non reagiva. Era davanti al computer, alle prese con il suo nuovo template.

Il Bretella

Non è il Bretella: lui ha le bretelle a pois!


Un altro post sulla sala-da-biliardo? Abbiate pazienza, ma volevo parlare di questo personaggio, Il Bretella, da molto tempo.

Capita, come ieri, che nella nota-sala-da-biliardo non ci sia nessuno. Forse perché è martedì grasso, non so mica. Anche se dubito che i clienti abituali che si trovano lì a giocare non vedano l’ora di mascherarsi e andare nei locali a tirare stelle filanti e coriandoli. Insomma, entriamo nella sala e c’è solo un tavolo occupato da un ragazzo piuttosto giovane e dal Bretella.
Il Bretella è un uomo dall’età indefinibile, ma diciamo tra i cinquanta portati male e i settanta portati bene, che ha comprato due oggetti rilevanti, nella sua vita: le bretelle (marroni a pois) e la pancia. La pancia del Bretella è di dimensioni enormi ed è tonda tonda: un affare del genere, è evidente, non esiste in natura, ma buoni artigiani possono produrne di cose così; chissà quanto gli sarà costata.
Il Bretella se ne starebbe anche per i cavoli suoi, e può farlo, ma attenzione: è l’Echelon del biliardo. Se il grande orecchio viene attivato da parole come “Osama Bin Laden” e “esplosione-Vaticano”, il Bretella è attivato nel momento in cui qualcuno dice cose come “io questo colpo proprio non lo so fare”. Ed ecco che il poverino che ha pronunciato queste parole è finito. Il Bretella arriva e, con falsa modestia, gli mostra il colpo, che esegue perfettamente. E gli altri venticinque successivi per vincere la partita. Ma il giocatore inesperto non se ne accorge, perché rimane affascinato dalla sua panza: è fatta, il Bretella, come un organismo parassitario, ha trovato la sua vittima. Inizierà a dispensare consigli di biliardo e di vita, snocciolandoli sempre accompagnati da “ma io non è che sia un professionista” o frasi del genere. Non si capisce se lui intenda affermare la sua non-professionalità nella vita o nel biliardo, ma è meglio non indagare. Il Bretella gioca al biliardo all’americana e a boccette, ma è il biliardo all’italiana il suo punto forte (sì, quello con birillini – il castello – al centro e tre bocce). Perché effettivamente in quel gioco del biliardo è possibile pianificare veramente una strategia a lungo termine: capite che la soddisfazione didattica è decisamente maggiore.

Avevo sempre visto Il Bretella dare lezioni-non-volute, a gratis, ma la situazione di ieri sera era strana. Il Bretella parlava più del solito, continuamente, un flusso continuo (veramente senza neanche un’interruzione) per due ore e più. Troppo anche per la naturale propensione all’insegnamento che lo caratterizza. Mi sono reso conto con orrore che il timido ragazzo che “giocava” con lui, gli aveva chiesto lezioni di biliardo. Ovviamente non sapeva che questo comprendeva anche un seminario sulla psicologia dell’avversario, un breve workshop di teoria dell’attacco, direttamente ispirato al pensiero di Von Clausewitz, e anche un panorama storico sui colpi celebri nella storia dei campionati mondiali di biliardo all’italiana. Il tutto eseguito, raccontato, messo in scena dal Bretella. Il ragazzo, ogni volta che stava per giocare, veniva spostato dal maestro, che, ovviamente, eseguiva il colpo perfettamente. All’allievo non restava che guardare. Anche perché “è già tanto che tu capisca il dieci per cento di quello che dico”, chiosava il Bretella ad ogni insegnamento. Le domande dell’allievo venivano considerate pochissimo, perché “è ancora troppo presto”. E alla fine? “Dai, sono un po’ più di due ore, facciamo due ore, sono venti euro”. Più il costo del tavolo, più la birra per il Bretella, che sicuramente, data la panza che deve nutrire, non era una birretta piccola. Alla fine, però, lo spirito didattico va oltre ogni forma di pagamento, e il Maestro inchioda l’allievo a gratis per altri quaranta minuti, forse parlandogli anche della sua vita e della sua panza.
La frase conclusiva della lezione è stata una definizione del biliardo: “È la matematica che sposa l’arte”. Quasi quasi la prossima volta preparo questi venti euro.

P.S. Ringrazio A. per il prezioso aiuto: mentre io giocavo, lei osservava e registrava. E rimaneva affascinata dalla pancia e dalle sagge parole che essa emanava.

Referrers – Gente che cerca altro – 2

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2. “il calcio e il wrestling per sociologi”

Lo sapeva che avere un nome avesse il suo peso, ma non fino a quel punto. Era ormai disperato, nonostante avesse una vita di allenamento alle spalle: stavolta vendere fumo non sarebbe stato facile. Ricordava la telefonata, le parole ancora gli rimombavano nelle orecchie.
“Professore, buongiorno. Sì, sono io. No, non abbiamo rinviato la trasmissione, solo cambiato l’argomento. No. No, guardi, delle problematiche giovanili non gliene frega più un accidente a nessuno. Scusi il termine. Si era preparato sulle droghe, eh? Le aveva provate tutte? No, sì, la battuta è… Sì, abbiamo cambiato… No, lasci stare, se non le dispiace. Lo so che registriamo domani, ma un luminare come lei… L’argomento nuovo? Ha mai sentito parlare della SWF? No, lo immaginavo. Beh, strano comunque…”
E il redattore della trasmissione gli aveva raccontato della Sociological Wrestling Federation, una lega sportiva amatoriale, alla quale appartenevano sociologi che, invece di incontrarsi in noiosi congressi, i vari etnometolodogi, teorici del conflitto, superstiti della scuola di Francoforte, molto semplicemente, se le davano di santa ragione su un ring, con tanto di arbitro. Il tutto avveniva solo tra sociologi affermati: chi non aveva almeno una pubblicazione non poteva neanche permettersi di guardare gli incontri. Proprio come nel wrestling – sport di cui lui veniva a conoscenza solo in quel momento – di solito un sociologo sfigato, poco conosciuto o in declino, sfidava un nome noto. Scontata la vittoria di quest’ultimo.
“Bene, secondo noi della redazione, questo sport verrà portato alla ribalta molto presto. Lo sa che già si vocifera di leghe di lotta libera tra avvocati, di circoli di kickboxing di cui fanno parte solo notai e commercialisti… No? Beh, glielo dico io, professore. Ecco, allora il tema della puntata sarà… No, no, niente sulle disfunzioni alimentari, ascolti: un nuovo conflitto di classe. I poveracci continuano a giocare a calcio e le classi abbienti, invece, riscoprono il fascino maschio del contatto fisico nella lotta. Un confronto. Che ne dice?”
Niente, ecco che diceva. Ma che argomento era? E perché nessuno gli aveva detto niente di queste leghe? Digitò su un motore di ricerca qualche parola a caso, giusto per vedere se compariva qualcosa. In quel momento, squillò il telefono.
“Pronto? Oh, Alberto. Venerdì? Perché? Come, una cena? Posso portare anche… Da solo? E chi viene? Ah. Anche il preside del dipartimento… Solo colleghi, insomma.”
Si girò verso il computer e vide la schermata dei risultati. Cliccò su uno dei link che erano apparsi. Il suo collega, al telefono, aveva un tono sempre più strano, che lo inquietava molto. Guardò quello che era apparso sullo schermo. “Alberto, scusa un attimo… Ma che cos’è un blog? Ah. Cosa? Ma certo che ho una tuta. Scusa? Una cena in tuta? Ah. La porto, va bene, la porto…”

Lezioni di stecca

Era da tempo che non tornavo nella nota-sala-da-biliardo, ma mercoledì sera alle dieci e mezzo ero già lì, con F. e P. che sistemavo il triangolo e mi facevo pervadere da quella calma olimpica che mi prende quando gioco. Dico sul serio. C’è qualcuno che si incazza e si innervosisce, quando gioca a biliardo. Io no. Anche se perdo. Devo essere sincero, non ho mai stracciato il panno, né ho mai fatto schizzare il boccino a velocità supersonica sul cranio di un energumeno. Ma insomma.
Proprio dietro di noi c’erano due uomini, intorno alla quarantina scarsa. Uno di Roma e uno di Bologna. Non che si fossero portati dietro le targhe della macchina. Ma si sentiva. Quello di Roma aveva portato l’altro a giocare e, da quello che sembrava, si era messo in testa di rivelargli i segreti della stecca. Ogni colpo, sia suo che dell’allievo, quindi, era preceduto da una disquisizione in romanesco su sponde, strisci, aggiustamenti, buche d’angolo. Una palla (è il caso di dirlo) terrificante. Anche perché, se fino a prima nessuno sentiva i cazziatoni che il maestro faceva all’allievo, adesso c’eravamo noi tre, là, che giocavamo sul tavolo accanto. La nostra concentrazione (si fa per dire) quindi era rotta da frasi come “Ahò, ma no, così m’a metti ammè” e statac! La palla del maestro finiva in buca. E il maestro si arrabbiava pure. Ma non sbagliava un colpo. E anzi, si muoveva e colpiva con la stessa spocchia con cui la mia professoressa di matematica del liceo ti prendeva il gesso di mano, ti scostava dalla lavagna su cui regnava un’equazione di sedici righe e la risolveva in uno, massimo due passaggi. Perfetto metodo d’insegnamento. Ogni tanto ho incontrato lo sguardo dell’allievo, imbarazzatissimo, che non guardava neanche il panno, ma semplicemente teneva la stecca in mano, tra uno statac! e l’altro. E mi sono accorto che il rapporto allievo-maestro era mantenuto anche sul piano fisico: il maestro, un romano alto e grosso, con la mascella prominente, un uomo che ostenta sicumera anche quando fa a fare la cacca, anzi, probabilmente soprattutto in quei momenti. L’allievo, timido, con una camicina a righe, righe che non osano essere quadretti per eccesso di pudore. Un uomo che, sicuramente, ha problemi di stipsi.

Quando sono andati a pagare c’ero anche io al banco. “Sono ventidue euro” ha detto loro l’omino del biliardo. Ho fatto un rapido calcolo: ventidue euro vuol dire che, minimo minimo, erano tre ore e mezzo che giocavano. Tre ore e mezzo di umiliazioni. Di colpi sbagliati dell’allievo e di statac! del maestro. Non ho voluto guardare chi ha pagato. Anche se, in cuor mio, lo so perfettamente.

Viva la gente, la trovi ovunque vai

Martedì sono stato al cinema, obbligato a vedere per la trasmissione quella schifezza di Amore senza confini. Durante l’intervallo due signore, che chiamerò Iole e Gina (completamente a caso), intorno all’ottantina, chiacchierano sul film, arrivando alle seguenti conclusioni. Primo: per fortuna che ci sono i medici senza frontiere, ché loro (la Iole e la Gina) quelle cose non le farebbero mai. E ci credo. Secondo: la colpa è dei governi, che sfruttano il popolo. “Bisognerebbe dirglielo”. Mi vedo la Iole e la Gina ricevute, che ne so, da Pol Pot. O da Bokassa. Previa telefonata. Faccio esempi del passato, per evitare facili satire. Terzo: le mentine fanno bene alla bronchite. Bisogna portarle sempre nella borsetta, perché servono a frenare la tosse, molto fastidiosa a teatro. Quarto: alla fine il fascismo in Etiopia ha fatto del bene. La Iole ha qualche difficoltà a pronunciare la parola “tucul”, ma la Gina scandisce benissimo “negretti”.

Intermezzo.
Oggi ero in Sala Borsa, che, tra le altre cose, è anche una mediateca. Nel senso che ci sono CD, DVD, VHS e anche libri (ovviamente) in prestito. Scartabellavo con poca convinzione all’inizio della sezione “contemporanea straniera”, che comprende tutto, dai Kiss fino a Johnny Cash, passando per Ray Charles e la World Music, quando un ragazzo vicino a me mi dice:
“Oh, se ne vedi uno dei Nirvana…”. Per la serie: avvisami. Ma che siamo a fare la caccia al tesoro e siamo in squadra insieme?
“Guarda che i Nirvana sono sotto la N”, gli dico indicando una zona vaga alla mia destra. Lui mi guarda come se gli avessi raccontato una barzelletta in dialetto siriano. “Cosa?” “I Nirvana, dico, sono sotto la N”. Lui mi guarda come se non capisse dove c’è da ridere, nella barzelletta in dialetto siriano. “I CD sono in ordine alfabetico”, sussurro. “M?” fa lui, solo intuendo il raffinato gioco di parole della barzelletta. “N”, dico. “Nirvana. Là”. La zona indicata è sempre alla mia destra, ma il ragazzo, sconsolato, se ne va dall’altra parte verso la sezione “Umorismo dialettale siriano”.
Fine dell’intermezzo.

Stasera a Porta a Porta (è la seconda volta che lo vedo: ne parlo come se fosse un evento, perché lo è), c’è Berlusconi S. Quando parte la musica di Via col Vento (ma dico io, non potevano usare quella di un brutto film? Che ne so, la musica di Amore senza confini?), Silvio B. è inquadrato in controluce mentre legge fintissimo un opuscolo. Avete presente quando uno fa finta di leggere il giornale in modo tale da non dovere alzare lo sguardo per salutare qualcuno? Entra nello studio Vespa B., saluta quello seduto che, quindi, deve rispondere, e i due iniziano a duettare amabilmente. Bruno V. fa la parte di quello che deve mettere in difficoltà l’altro, che improvvisa un po’ troppo. Il pezzo inizia con la storia del lifting e Silvio V. dice che il presidente del consiglio deve apparire in forma, perché lavora dalle sette e mezzo del mattino fino alle due e mezzo di notte. La logica mi sfugge. Il richiamo a luci-mai-spente no. Poi parla di una dieta che ha fatto, per dire che il lifting, alla fine, non è stato poi decisivo. Bruno B. gli chiede che dieta abbia seguito, ma quella non si rivela, come il trucco (nel senso di gioco di prestigio, non di make-up: meglio precisare). A SBVB è bastato ridurre l’apporto calorico per qualche settimana in gennaio. Proprio come me. Con due differenze: intanto, non l’ho fatto proprio volontariamente. E poi, lo ammetto, io lavoro decisamente di meno.

Festivalieri

C’è una strana sensazione, quando finisce un festival di cinema e ci sei andato, diciamo, “per lavoro”. Da un lato sei saturo di film, code, file, incastri di proiezioni, articoli scritti di corsa. Dall’altro, invece, senti che non vorresti vivere in altro modo. Ma non è di questo che voglio parlarvi, ma della fauna-da-festival. Anche un festival tutto sommato piccolo come il Future Film Festival di Bologna, presenta caratteristiche simili ad altri festival più grandi. Vediamo, quindi, da chi è normalmente popolato un festival di cinema.

Primo e pericolosissimo personaggio è il logorroico. Che voi direte “E vabbè, ma quello c’è anche a teatro, alle Poste, alla fermata del venticinque”. Eh sì. Ma il logorroico-da-festival porta a strane reazioni la sua vittima. Perché si è lì al festival, in fondo in fondo, per una passione comune, il cinema. Quindi gli argomenti di conversazione possono essere interessanti, volendo. Ma è come dire di avere voglia di un panino e trovarsi di fronte ad una rosetta di sedici quintali. Manca la misura, al logorroico. Ti si siede accanto in uno dei primi giorni, e quel momento segna la tua fine. Perché tu sei gentile, inizi a scambiare due parole, che poi diventano due parole alla seconda, alla terza, alla quarta e così via, fino a che non ne sei sommerso. Allora, nelle proiezioni successive, entri in sala con impermeabile ed occhiali scuri, ti guardi intorno, pare non ci sia. Tiri un sospiro di sollievo, ed ecco che dalla fila di fronte si erge una testa, gira a centottanta gradi che neanche Regan ne L’esorcista e ti vede. E, ancora una volta, sei finito e preghi solo che si abbassino le luci. Oppure: sei in fila, in mezzo ad alcuni rassicuranti sconosciuti, e ti senti toccare sulla spalla. E’ sempre lui, pronto, con la rosetta gigante in mano. Per te.

L’esperto. Qualsiasi cosa tu sappia su X, beh, l’esperto ne sa di più. E non solo su X, ma anche sui film in cui X portava solo i panini sul set, sulla figlia di X, sulle collaborazioni non accreditate di X. L’esperto, notoriamente, ti fa sentire una cacca. Per cui, semplicemente, la smetti di parlare e, se sei proprio di animo buono, inizi a prendere appunti e i tuoi contributi verbali alla comunicazione si limitano a “Mm” e “Certo”. Ovviamente esistono delle combinazioni, come l’esperto logorroico, che mettono a dura prova anche gli animi più tenaci. Ho visto delle persone cercare di tagliarsi le vene con il bordo plastificato del pass, pur di sfuggire a persone come l’esperto logorroico.

Il giornalista famoso. Può fare quello che vuole. Insultare le maschere, togliersi le scarpe, fare le puzzette, insultare le persone ad alta voce, saltare le file, avere bevande e cibo gratis, toccare il culo ad attori e/o attrici, ruttare sonoramente e poi vantarsi. Ma soprattutto può insindacabilmente decidere se un film è brutto o meno. Questo accade quando scrive di un film. Anche quando non l’ha visto. O quando l’ha visto, ma solo per metà, perché poi si è messo a dormire, russando clamorosamente. Poi si sveglia e applaude o bofonchia qualcosa. Conosce tutti per nome, dal barista del caffè di fronte al cinema al regista a cui viene dato il premio alla carriera. Ed è sempre attorniato da qualche personaggio, spesso anagraficamente più giovane di lui, il paggio, che sempre e comunque gli dà ragione e ride alle sue battute. Sa che prenderà il suo posto, e che potrà palpare, sbafare, dormire, ruttare, condannare, salutare al posto suo. Un giorno o l’altro.

Il giornalista di “Case e giardini”. Non si sa come abbia avuto un accredito per un festival cinematografico. Forse è lì solo per vedere gli attori e le attrici, forse si è sbagliato, forse è noto nella sua redazione che odia il cinema, e l’accredito diventa una specie di esilio forzato. Non ne sa assolutamente niente di cinema, ma non osa dirlo. Può parlarvi di taglio di prati e di arredamenti di interni per ore, e probabilmente con cognizione di causa, ma a malapena sa che cosa sia un cinema. Ha altri interessi e altre passioni. Si addormenta spesso, sognando esempi di edilizia del Dorset o del New England. Ma, perdio, è un giornalista e, alle conferenze stampa deve fare la sua porca figura. Se ne esce, quindi, con domande del genere: “Mi può ripetere quando ci sarà la dimostrazione gratuita di trucco de Il Signore degli Anelli?” (sentita veramente alla conferenza stampa inaugurale del FFF).

Il cacciatore di gadget. Spesso è un giornalista, ma non è detto. Prende tutto ciò che è gratis, dagli adesivi alle sagome pubblicitarie in cartone dei personaggi di un film d’azione ungherese. Dalle colonne sonore alle magliette, lui del merchandising gratuito non si vuole perdere neanche un articolo. E poi sfoggia tutti i suoi trofei insieme, magari venendo alle proiezioni con cappellino del film Y, maglietta del film Z e penna della casa di produzione K. E si vanta tantissimo, ma solo con lo sguardo. Non vede l’ora, infatti, di fare morire di invidia i suoi concorrenti, gli altri cacciatori di gadget. Vede pochissimi film, ma è evidente, dovendo fare file chilometriche davanti agli uffici stampa delle case di produzione.

Il nerd. Spesso è combinato con tutte le categorie precedenti. Ma sì, lo conoscete il nerd da festival. E’ quello che, ne I Simpson, alle convention di fumetti o di fantascienza, pronuncia affermazioni del tipo: “Nella puntata 4F6Y si vede in lontananza un cugino della protagonista che assomiglia tanto al nemico di un numero speciale (e introvabile) del fumetto Superboy and the Tafanoids. Perché questa scelta?”. Il nerd cinematografico spesso indossa le magliette guadagnate agli altri festival, ha un colore della pelle verdognolo, dovuto alla prolungata reclusione al buio per la visione di film, telefilm e quant’altro, i raggi televisivi gli hanno procurato una forma rara di acne perenne e si intende soltanto con gli altri nerd. Ha la spocchia del giornalista famoso, la fame di roba gratis del cacciatore di gadget, la cultura totale dell’esperto, l’incapacità nelle relazioni sociali del giornalista di “Case e giardini”, la parlantina del logorroico. Ed è molto, molto solo.

L’attricetta. Tipica dei grandi festival, ha avuto un accredito in qualche modo. O in qualcun altro. Sta sempre in vista, va a tutte le feste, si cambia d’abito almeno sei volte al giorno, anche in una tempesta di neve ha la capacità di avere un make-up perfetto. Sorride a tutti, ché non si sa mai, e, per lo stesso motivo, non rifiuta mai di farsi fotografare. Ha con sè, nascoste in una borsetta piccolissima, almeno duecento copie del suo book fotografico e curriculum (che di solito inizia con frasi come “a sei anni ho fatto la Madonna nella recita delle elementari”). Oggetto del desiderio del nerd, oggetto di scherno del giornalista famoso (che poi, regolarmente, se la tromba), l’attricetta ci crede tantissimo. Il problema vero dell’attricetta non è che manca di tenacia, no. Né di volontà. No, il vero problema dell’attricetta è quell’accento ciociaro che non riuscirebbe ad estirpare neanche con un trapianto di corde vocali. Quindi va in giro, sculetta e sorride. Ma in rigorosissimo silenzio, finché può.

L’attore-un-tempo-famoso. Il suo comportamento è molto simile a quello dell’attricetta, con la differenza che, detto palesemente, non ha neanche il minimo di possibilità di attrazione che ha l’attricetta. Infatti è in crisi di astinenza da successo, magari momentaneo, e si è ridotto ad uno straccio d’uomo. Non è più capace neanche di allacciarsi le scarpe. Anch’esso è oggetto di culto del nerd, che ne conosce vita, morte e miracoli. Ma l’attore-un-tempo-famoso non lo sopporta, il nerd, per ovvi motivi (vabbè essere caduti in basso, ma non a quel livello). Tenta di conoscere l’attricetta e, quando gli va bene, la poverina ci casca. “Sai, sono un attore” ed è fatta, anche se l’ultima volta che è apparso su uno schermo è stato, per sbaglio, nella folla inquadrata in un servizio di Studio Aperto sul traffico. Tenta di avere una scrittura, qualsiasi cosa, è disposto veramente a tutto. Alla fine del festival, di solito, si ubriaca e tratta male tutti, buttando nel cesso il minimo lavorìo diplomatico svolto fino a quel momento. Scarica le frustrazioni su chiunque e manda sonoramente a fare in culo l’unico produttore che gli avrebbe dato due lire. Ma se ne accorge drammaticamente troppo tardi.

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