Paperback Writer

Off Maps @ Modo Infoshop

Come siamo giovani, io e Jonathan, eh? Quando, qualche mese fa, ci è venuta l’idea di “esportare” la nostra trasmissioncina, il nome è venuto abbastanza presto. Quindi siamo andati da Modo, dove abbiamo immediatamente trovato disponibilità e ospitalità. E stasera si inizia.
Insomma, primo appuntamento per Off Maps @ Modo Infoshop, che vuole essere una serie di incontri dove ricreiamo il salottino radiofonico nel salottino (reale e davvero comodo) della libreria-e-non-solo di via Mascarella.
Questa sera parliamo con Luca Castelli de La musica liberata, un volume edito da Arcana che fa il punto sulla “rivoluzione musicale” degli ultimi dieci anni. Da Napster a In Rainbows, insomma. E questo pomeriggio, ovviamente, Luca è ospite a Maps.
Prossimo passo: la conquista della Kamchatka.

Agenda della settimana

In un post solo, serate risolte da oggi a sabato. Ehm, per me sicuro, per voi… pensateci.
Questa sera ricomincia Seconda Visione, il settimanale di cinema di Città del Capo – Radio metropolitana giunto alla nona stagione. Alle 2230 sui 96.250 e 94.7 MHz di Bologna e provincia o in streaming qua. Parleremo di Bastardi senza gloria, Ricky e Basta che funzioni.
Domani sera ho la riunione di condominio. Siete tutti invitati. Un punto all’ordine del giorno mi preoccupa: “digitale terrestre”. Mi alzerò in piedi e dirò “No!” come Marcel Marceau ne La pazza storia del mondo.
Giovedì esce Up, l’ultimo film della Pixar. Perderlo è punibile per legge. Anche se c’è un “Lodo Topo Gigio” che pende sulla questione.
Venerdì è una giornata tale per cui conviene suddividere le cose:
– a Maps ho ospiti dal vivo Amor Fou e Dente, che ci suoneranno qualcosa di edito e di inedito. E forse ci sarà una bella sorpresa. Dalle 1530 su Città del Capo… beh, vedete sopra, le modalità sono le stesse.
– alle 18 presso la Libreria Trame, in via Goito 3/c a Bologna, presenterò La guerra in cucina (Eumeswil), insieme al nuovo romanzo di Paolo Alberti Sei caffè. Con noi ci sarà Gianluca Morozzi, il curatore della collana per cui io e Paolo usciamo. Per saperne di più andate qua. Ah, se volete qui trovate un altro racconto da leggere a sbafo.
– alle 21 sarò ospite della radio cugina sempre per presentare il libro. In più pare che farò il tiramisù in diretta webcam. Il tutto a Get Black.
– e poi me ne vado al Covo a vedere gli Amor Fou e a svenire sul dancefloor, presumo.
Sabato c’è la festa di compleanno di Città del Capo – Radio… Quella là. Metterò i dischi e… Copio e incollo.

22 anni di libera informazione: ancora per quanto?
Città del Capo festeggia il suo compleanno al Locomotiv Club.
Prima di dare il via alle danze un incontro con Luca Bottura, Angela Baraldi, Emilio Marrese, Antonella Mascali. E con un video inedito di Alessandro Bergonzoni, una vignetta di Elle Kappa e tanti altri ospiti a sopresa. Alle 23 brindisi con le voci di Città del Capo e poi si balla con i suoi dj (MorraMc, Francesco Locane e Enzo Polaroid). Alle ore 21,00 al Locomotiv Club, Via Serlio 25/2 Bologna. Ingresso 5 euro.

Poi dite che non c’è niente da fare. Fatevi riconoscere. A parte alla riunione di condominio: vi sgamo io, non potete votare.

Rimanere senza parole

Appena ho finito di leggere L’approdo, di Shaun Tan, ho avuto due reazioni. La prima è stata una forte emozione, come non mi capitava da tempo. La seconda, strana, è stata la volontà di prestare immediatamente il libro a qualcuno che lo potesse apprezzare. In sè questo non sarebbe peculiare, se non avessi sentito la voglia di abbandonare per un po’ il volume, come per sfuggire al suo potere.
Ma andiamo con ordine: L’approdo è un racconto di emigrazione, innanzitutto. Il protagonista se ne va dal suo non identificato Paese verso un Paese altro, da ogni punto di vista: diverso l’alfabeto, i cibi, le abitudini, i mezzi di trasporto, la lingua, gli animali. Tutto. Il protagonista è spaesato, sperduto, non sa come muoversi, come esprimersi. Faticosamente si adatta, trova una stanza in affitto, un lavoro e, infine, chiama la sua famiglia, moglie e figlia, che vediamo, nell’ultima vignetta, con una mappa in mano, indicare una direzione, una strada che hanno trovato, verso la quale andare.
La particolarità de L’approdo, però, è che non c’è neanche una parola. È un racconto per immagini, e la maestria di Tan sta nell’avere un ritmo incredibile nella composizione della pagina e della singola vignetta, alternandone tante piccole a disegni enormi, che quasi soffocano per l’immensa diversità che veicolano. Solo ritraendo sguardi, volti in primo piano, dettagli, oggetti, Tan racconta tutto. Ma non pensate a un esercizio di stile: la meraviglia che desta lo scorrere con gli occhi le pagine del libro è dovuta al fatto che Tan riesce a raggiungere la comunicazione perfetta e universale. Chiunque se ne vada da casa per approdare a un altro luogo, prova il disagio, il terrore e anche l’emozione del protagonista, al punto tale che il luogo di partenza e quello di arrivo perdono di significato tranne che per la loro opposizione: conosciuto e sconosciuto, casa e non casa, orientamento e perdita, riconoscimento e totale mancanza di conoscenze. Il protagonista si guarda intorno e vede gatti-drago, frutta e verdure ignote, cartelli indecifrabili. E, vignetta dopo vignetta, anche noi non capiamo, ma siamo costretti a metterci in gioco: per sopravvivere, per continuare la lettura.
Un libro di una potenza tale che fa sfigurare tutte le campagne sull’integrazione, anche le più meritevoli: dovrebbe essere adottato nelle scuole, dalle elementari alle superiori, per capire che, in fondo,  “l’altro” è soltanto un modo per definire noi stessi.

Di |2009-09-29T21:14:31+02:0029 Settembre 2009|Categorie: Paperback Writer|Tag: , , , , , |0 Commenti

È nato

Doveva uscire nel novembre del 2007. Poi una serie di sfighe, coincidenze e cialtronaggini assortite hanno fatto sì che solo da ieri il mio nuovo libro La guerra in cucina (Eumeswil) sia effettivamente* disponibile.Si tratta di una raccolta di racconti, il modo migliore per non vendere in Italia, ma, oh, che ci possiamo fare? E che racconti sono, direte voi? Beh, uno lo potete scaricare qua, è la titletrack, che deriva in qualche modo da un postche scrissi proprio qua sul blog, qualche anno fa.Come fare per avere il libro? (Copio e incollo dalla mail che ho mandato a mo’ di spam tra ieri e oggi):
1. potete andare nella vostra libreria di fiducia, chiedere il libro, scandalizzarvi perché non ce l’hanno, ordinarlo, tornare (punti affetto nei miei confronti: millemila, ma ricordate che da Trame ce l’hanno, pure in vetrina)
2. comprarlo on line su LaFeltrinelli o su Webster o su LibreriaUniversitaria: costa uguale, eh (punti tecnologia: millemila)
E fatemi sapere che ne pensate.
*Avevo scritto “affettivamente”. Pronto, Sigmund?

Piccoli nessi umani

Uno dei piccoli segnali che dimostrano il fatto che io mi stia poco dedicando a me stesso ultimamente è che sono venuto a sapere della pubblicazione di Principianti di Raymond Carver un paio di mesi fa, a libro uscito. Uno dei grandi segnali di quanto mi stia trascurando a vantaggio del lavoro è che ho finito di leggere il libro soltanto oggi.Innanzitutto: Principianti è la nuova versione di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, raccolta di racconti pubblicata nel 1981 considerata “manifesto del minimalismo letterario”. In realtà si tratta della versione originale del libro: l’editor di Carver, Gordon Lish, aveva pesantemente ripassato le bozze sotto la scure dell’editing, una prima volta in maniera più lieve, una seconda volta arrivando a tagliare il 30, 50, anche 70% di ogni racconto. Einaudi propone quindi la versione del volume “come l’avrebbe voluta Carver” (le virgolette sono d’obbligo), tradotta dal solito bravissimo Riccardo Duranti, con un bel apparato di note e con alcune lettere che Carver mandò in quel periodo al suo editor.
Sapevo da tempo di questa versione, e l’apprendere che esistesse mi ha fatto sorgere alcune riflessioni, diciamo, filologiche. Facciamo un esempio apparentemente distante, ma che riguarda un altro dei miei grandi amori. A settembre usciranno i dischi dei Beatles rimasterizzati: il processo che ha portato a questa riedizione è stato seguito dai membri vivi della band, dalla moglie di Lennon e dal figlio di Harrison. Quindi, diciamo, questo controllo dovrebbe essere garanzia di genuinità, se non altro dal punto di vista della sensibilità filologica (non ho intenzione qui di parlare di sfruttamento intensivo di marchi quale Carver e i Beatles – seppure molto diversamente – sono). Così come questa edizione è tradotta dal migliore conoscitore di Carver in Italia, approvata dalla compagna dello scrittore e dai più importanti studiosi americani della sua opera.
Ma il punto è: il concetto di originalità dell’opera è davvero così slegato dall’hic et nunc in cui l’opera è stata licenziata? O è invece puramente collegato alle questioni della fattibilità tecnica e a quella dell’intentio auctoris?
Una cosa alla volta. Paul McCartney ha detto, in un vecchio numero di “Mojo”, che l’album bianco non ha mai suonato così bene. Ma, d’altro canto, i Beatles, George Martin e i tecnici di Abbey Road non erano proprio gli ultimi in quanto a inventiva e capacità di innovazione. Altro esempio: le riedizioni con aggiunte della prima trilogia di Guerre stellari. Nel presentarle, Lucas ha detto che quei mostri, quella scena, quel fondale erano da sempre nella sua mente, solo che la tecnologia allora disponibile non gli permetteva di ottenerli. D’altro canto, però, i dischi dei Beatles e i film di Lucas sono stati pubblicati (nel senso più ampio del termine) in un certo modo, e proprio in quel modo lì (carente?) sono stati amati, memorizzati, storicizzati.Ovviamente quando si parla di scrittura, la questione tecnologica decade, ma rimane – ed è più pressante – l’intenzione dell’autore. D’altro canto, sempre quando si parla di scrittura, è un nonsense immaginare lo scrittore preso dal fuoco sacro dell’arte. L’editoria è un’industria, con i suoi processi e le sue figure professionali: tra queste, l’editor.
Ora: Gordon Lish non era un fesso qualunque, così come non lo era Carver. E la riconoscenza che lo scrittore dimostra nei confronti dell’editor è evidente e giustificata. Dietro ad ogni buono scrittore c’è un buon editor, per fare una parafrasi. Lish è stato più che utile a Carver, c’è poco da fare. L’ha indirizzato, corretto, lodato: tagliando, aggiungendo, discutendo con lui ha fatto l’editor, punto. Ma è bene distnguere anche il lavoro dell’editor, che si gioca tutto nella misura e nel contesto. Paradossalmente, tagliare un romanzo del 60% è meno grave, a mio parere, che tagliare un racconto del 40. Perché il racconto è un organismo più delicato, più piccolo e fragile di un romanzo: bisogna andarci, insomma, coi piedi di piombo. Se no, tanto vale riscrivere tutto.
Torniamo alla storia: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore esce e spalanca a Carver le porte del successo. L’opera di Lish, per molti versi artificiale come ogni manufatto industriale seppur “alto”, ha funzionato, il minimalismo diventa nuovo canone (e permane come modello ancora oggi, il che ci dovrebbe fare riflettere). Qualche anno dopo esce Cattedrale, ed è un successo ancora maggiore: i critici notano che c’è maggior respiro nei racconti, e iniziano a “indagare” sulla figura di Lish. C’è anche un racconto che è ripreso pari pari dal libro precedente, ma Carver gli cambia il titolo e gli dà aria: per Cattedrale Carver agisce praticamente da solo.
Attenzione, però: Lish, su Di cosa parliamo fa due editing. Il primo, più leggero, è accettato da Carver. Il secondo, quello con le grosse cifre percentuali citate sopra, getta Carver in uno sconforto disumano, ben testimoniato dalle lettere in appendice al volume. Si parla di “paranoia”, per intenderci. Ho finito oggi Principianti, e, ancora una volta, Carver mi ha stretto l’anima e commosso fino alle lacrime. Ma l’ho sentito più vicino di quando ho letto per la prima volta Di cosa parliamo. I personaggi, sebbene risolti magistralmente in poche righe, sono ancora più veri., forse perché le righe invece di essere tre sono sette. I discorsi che fanno sono più reali, forse perché inframmezzati da digressioni e cambi d’argomento, sembra che palpitino sulle pagine le parole che vengono scambiate, e pare di sentire più di prima il vento che batte incessante sulle case dove sono ambientate le storie. Ma per capire di cosa si tratta, cos’è che rende Principianti un libro da leggere e rileggere, è necessario arrivare alle ultimissime pagine. In una lettera a Lish Carver scrive, a proposito della seconda revisione della sua raccolta, poco prima che sia pubblicata:

Lo voglio quel senso di bellezza e di mistero che [i racconti] hanno ora, ma non voglio perdere di vista, perdere il contatto con i piccoli nessi umani che avevo visto nella prima versione che mi hai mandato. In qualche modo sembravano essere più pieni, nel senso migliore, in quella prima revisione.
Raymond Carver,
Principianti, Einaudi, Torino 2009, p. 287. Traduzione di Riccardo Duranti.

Ecco, i piccoli nessi umani, che sicuramente lo stesso Lish aveva tirato fuori all’inizio del suo lavoro. Ecco cosa c’è in più in Principianti e Cattedrale rispetto a Di cosa parliamo. I nessi umani. Qualcosa che non è poco per nessuno, figuriamoci per Carver, che di questi nessi, tessuti in manciate di parole, ha fatto grande la sua scrittura.
Certo, il problema se mi ricomprerò o meno la discografia dei Beatles tra qualche mese permane.

Contadini, poeti, tigri!

Oggi ho comprato un cd di vecchie canzoni di Cochi e Renato. Mi piacciono, che ci posso fare? A ognuno i suoi guilty pleasures. In ogni caso, sentendo le prime tracce, mi sono reso conto che davvero Cochi e Renato (e Jannacci e Gaber e Fo) sono riusciti a rappresentare il linguaggio della società italiana di quegli anni e, attraverso il linguaggio, a rappresentarla tout court, o comunque a tracciare un ritratto verosimile, seppur allegorico, della borghesia italiana dell’epoca, piccola e grande. Mi chiedevo, allora, come mai adesso non ci sia nessuno che lo faccia in quel modo, divertente, leggero e arguto. C’è poco da ridere, oggi, direte voi. Mah, sarà. Cioè, è vero, ma in fondo cose come questa ci sono state sempre. Ci manca solo la peste nera, direte voi. Ok, avete vinto.
Non dandomi risposta a quella domanda, ho pensato a una caratteristica abbastanza frequente di sketch e canzoni di Cochi e Renato. Cochi faceva il ricco (il poeta), Renato il povero (il contadino). Era ancora, quella, una società in cui esistevano le classi e nella quale la tendenza che avevano le classi basse di salire di rango era comunque ostacolata, nella maniera più evidente, da differenze linguistiche.
Anche adesso ci sono classi, checché se ne dica, e siamo pure messi peggio: la famosa forbice che si allarga. Ma il linguaggio è uniformato, purtroppo. Dico purtroppo perché si è uniformato verso il basso, in tutti i campi o quasi. Il contadino si veste come il poeta, e si crede tale, e il poeta parla appena meglio del contadino, fregandolo con le sue stesse parole e modi dire, addirittura scambiandoseli. Ma nessuno dei due, oggi, sa zappare la terra davvero o scrivere due versi in croce.
E mi è poi venuto in mente un libro che ho letto, o meglio guardato, di recente: Metti un tigre nel motore, che raccoglie alcune pubblicità apparse su riviste tra il 1960 e il 1973, in un’Italia radicalmente diversa e distante da quella che c’è adesso. Più o meno quella di Cochi e Renato di allora. E la prima emozione che ho avuto è stata di nostalgia, ma come la si può avere per una nonna di cui ti parlano tutti, ma che non hai mai conosciuto.

Emerge, da quelle pagine e da quelle canzoni un Paese sì con problemi, nel quale si sentono i germi di quello che succederà da lì a qualche anno, ma innocente. Insomma, la foto della nonna un po’ prima che morisse: vedi che è vecchia, capisci che l’occhio non è più vispo come poteva essere, ma insomma, è là.

Mi chiedo se la speranza sia che tutti ci si trovi, prima o poi, nella condizione di uno dei due personaggi de “Il Bonzo”: ci tocca perdere tutto, per accorgerci che anche il poeta, pardon, il re è nudo da un pezzo? 

Noi e loro

Il mondo non è dei giovani, tanto meno è degli adolescenti: gli adolescenti ci sono, ma vengono sfruttati, forse più di altri segmenti di mercato, come puri e semplici consumatori. Non determinano, vengono determinati. Non è colpa loro, o almeno non del tutto.
Il nuovo libro di Andrea Bajani, Domani niente scuola, non dice mai queste cose esplicitamente, ma il suo approccio è un modo diverso e originale di parlare di adolescenza. Qui siamo lontani dalle notizie dei telegiornali, in cui capi redattori eccitati dalle nuove tecnologie potevano sperimentare l’ebbrezza di mandare un video di YouTube in prima serata: vi ricordate, c’era un periodo in cui le scuole italiane venivano rappresentate come un incrocio tra l’Iraq e un bordello. Sex&violence, una formula vincente da sempre, sotto la quale stavano le “notizie” dei ragazzi che davano fuoco, toccavano culi, fumavano in classe, “notizie” che davano la stura all’esercito dei Crepet e a usi e abusi dell’espressione “disagio giovanile”.

Bajani, invece, che fa? Segue, o meglio, si mette in mezzo a tre classi di liceali in gita: va due volte a Praga e una a Parigi. Osserva, chiacchiera, ascolta con loro la musica (a questo proposito, se vi interessa, qui c’è un’intervista che gli ho fatto a Maps). Ma, intelligentemente, evita ogni pruderie, e non entra nelle loro camere. Perché? Ma perché la privacy – seppure condivisa con i compagni di classe – è fondamentale a quell’età, e non solo). Parla con loro, ma non li interroga, ci chiacchiera, ma non li intervista. Sta in pullman insieme a ragazze e ragazzi, ma non fa finta di essere uno di loro. Quello che viene fuori è un bel libro, dentro al quale c’è un ritratto (chiaramente parziale) del nostro oscuro oggetto, gli adolescenti. Ma cosa sono, quindi? Sono tutto: c’è chi si interessa di politica e chi no, chi è timido e chi è sempre sotto i riflettori, chi ama la musica commerciale e chi ne preferisce altra. Un’ulteriore prova della veridicità del ritratto e dell’onestà intellettuale di Bajani.

Il libro è divertente, molto divertente. E tenero: attenzione, tenero, non pietistico. La tenerezza è un sentimento puro, che non va perso, credo. Se ne proverete mentre sfogliate le pagine di Domani niente scuola, beh, c’è ancora speranza. Potete ancora fidarvi di voi stessi e quindi, forse, degli altri.

“(…) è una fissazione degli adulti, quella di cercare riparo dalla pioggia, di pensare all’acqua come a una minaccia. E’ una fissazione degli adulti, esattamente come è una fissazione degli adulti quella di smettere di cantare a voce alta, o di smettere di correre. O come quella di smettere di fidarsi.”
Andrea Bajani – Domani niente scuola – Einaudi, Torino, 2008, p. 140

Vivere il dolore

Non avevo mai sentito parlare di Kevin Canty: colpa mia avere aperto solo un paio di settimane fa, dopo un sonno di un annetto e mezzo nella mia libreria il suo primo e finora unico libro tradotto in italiano, Tenersi la mano nel sonno, una raccolta di racconti pubblicata (ancora una volta) da minimum fax.
Be’, miei piccoli lettori: questo libro mi ha dato i brividi.
E’ vero, mi piace molto la letteratura americana e la forma del racconto, più o meno breve. Come molti di voi, amo Carver e la sua maestria nell’usare solo ed esclusivamente le parole necessarie a quello che sta narrando. Per molti versi, Canty assomiglia molto a Carver: anche lui parla di pesca, di boschi, di fiumi e laghi. Non è uno scrittore metropolitano, insomma. A differenza di Carver, però, Canty rischia, si impenna, si inarca e colpisce nel giro di mezza riga. Il suo stile (che se proprio volete possiamo anche definire minimalista, per quello che può servire) è asciutto, ma fortemente dinamico: spesso le sue frasi sono solo successioni brevissime di nomi, o aggettivi, o entrambe le cose. Spesso sono frasi ellittiche del soggetto. Eppure, in ogni racconto, Canty ci fa sentire sulla pelle la brezza, l’odore degli alberi e la paura.
E i personaggi! Sono talmente vivi che paiono balzare fuori dalla pagina: Canty li coglie quasi sempre in un momento di dolore, ma non si tratta di un dolore da shock, bensì un dolore che va vissuto, volenti o nolenti, e che i caratteri di cui parla si sforzano di superare, pur essendoci immersi. Si tratta del dolore necessario per arrivare all’epifania, sì, proprio quella di Joyce. E non crediate che sia un caso che, in questo stesso post, accosti Canty a due enormi nomi della letteratura del ventesimo secolo. Leggetelo, ve ne prego. E poi, se vi va, scrivetemi. Sono davvero curioso di sapere che ne pensate di questa magnifica raccolta.

(…) mai parlammo di quel pomeriggio, o di Kendellan, mai più parlammo l’uno con l’altra apertamente. Lei era sempre mia madre e io suo figlio. Ma dopo di allora tutto sarebbe stato in codice, ambiguo, un silenzio pieno di domande non fatte, parole senza risposte. E ora sono cresciuto, mia madre è morta e mio padre è morto. E questa è tutta l’infanzia che mai avrò.
Kevin Canty, “Il vestito rosso”, in Tenersi la mano nel sonno, minimum fax, 2007, p. 81, trad. di Veronica Raimo e Fabio Severo.

In crescendo

Non faccio mai troppo caso alle citazioni che ci sono sulle copertine dei libri: frasi come “Con questo romanzo Pinco Pallino riscrive la letteratura contemporanea” mi irritano e tendono a non farmi leggere il volume in questione. Ma so di essere un’eccezione. Come lo è lo stralcio di una recensione del “Washington Post Book World” posta nella seconda di copertina di Tre vite, ultimo libro di Rick Moody pubblicato in Italia da minimum fax. Perché effettivamente quello che chiude il volume, “Albertine”, è “uno dei racconti più belli che siano stati pubblicati nel nuovo millennio”.

Devo dire, però, che Tre vite non inizia bene. Il primo dei tre racconti lunghi che lo compone, “L’armata Omega”, ruota eccessivamente intorno ai deliri del protagonista, un ex funzionario ministeriale americano che vede intorno a sé, sull’esclusiva isola dove si è ritirato dopo la pensione, gli indizi di un complotto ai danni della sicurezza nazionale. Eccessivamente lungo, seppure stilisticamente molto buono, il racconto non funziona del tutto, perché fa troppo gioco sulla caratteristica che accomuna i tre scritti: il “tradimento” del lettore da parte dell’io narrante (nel caso di “L’armata Omega” e di “Albertine”) o comunque del fuoco della narrazione.
Accade lo stesso anche in “K&K”, il secondo racconto, che parla di alcuni misteriosi e minacciosi biglietti infilati nella buchetta dei suggerimenti di una piccola azienda statunitense. In questo caso Moody usa la terza persona, ma l’assunto di base non cambia. Il racconto è però sostenuto da una narrazione più strutturata e tesa, e da un’ambientazione “aziendale” tutto sommato divertente.

E poi, “Albertine”: praticamente un capolavoro, che, è vero, risente molto delle oscure profezie di Philip Dick, ma del resto parlando di una sostanza che fa letteralmente rivivere i ricordi, sensazioni, profumi e sapori compresi, e ambientando il tutto in una New York rasa al suolo per metà da un attentato terroristico atomico, c’è poco da fare. Il racconto, di nuovo in prima persona, parte come una sorta di “inchiesta” che il protagonista deve fare sulla nuova droga, chiamata appunto Albertine. E anche in questo caso c’è una comunanza con gli altri due scritti, che in qualche modo riformulano lo stesso principio di “ricerca”. Poi, però, con uno stile che si fa via via sempre più fluido e serrato, Moody ci conduce nei labirinti delle potenzialità (o della realtà?) di questa droga, non avendo paura di tirare fuori le teorie sul tempo e gli studi junghiani sull’inconscio collettivo. Ci si rifugia nel passato perché il presente è troppo triste, perché sono morte milioni di persone, perché non c’è lavoro e Manhattan è un’enorme discarica (vi risparmio gli ovvi richiami al post 11 settembre). Ma se il passato si può rivivere, allora lo si può anche modificare per avere un presente migliore. E se si prende una dose di Albertine quando si è in un ricordo, cosa succede? L’acquisto del libro varrebbe anche solo per queste dense e altissime novanta pagine che lo chiudono.

Cos’è la memoria? La memoria è il groove. Sono un supergruppo di deejay che sparano un groove, e sei tu che balli, insegui le disperazioni del cuore, insegui qualcosa che non c’è più, è così effimero che lo riconosci solo dalle tracce che lascia, come una certa corda pizzicata in un certo modo raccoglie il tuono dei secoli, come il sapore delle ciliegie fresche rievoca indolenti coppie romantiche su portici ottocenteschi, tutte le storie del passato che ti vorticano attorno. La memoria è il groove, il solco, la bugia, la storia che non capisci mai fino in fondo, il posto migliore in cui stare. La memoria è la puttana, la fabbrica di vergogna, la maledizione e la consolazione.
(Rick Moody, Tre Vite, minimum fax, Roma, 2008, pp. 223-224. Trad. di Adelaide Cioni e Francesco Pacifico)

Coming Out (parte prima)

Tempo fa avevo parlato di novità editoriali in uscita che mi riguardavano, una volta tanto, come autore.
Beh, intanto la prima. È uscito, per Manni editori, Quello che c’è tra di noi, una raccolta di racconti di vari autori – tra cui ci sono anche io, ma dai – che trattano di amore omosessuale. È un volume che esce in occasione del Pride di Bologna, e che verrà presentato domani alle 1830 al Cassero della città felsinea nella quale risiedo ormai da dodici anni (la casa nuova compie invece, in questi giorni, 2 anni, io ne ho fatti trenta da una decina – di giorni).

Venite, accorrete numerosi, comprate il libro, se vi va. E se leggete il mio racconto, sono sinceramente curioso di sapere cosa ne pensate: non solo da etero ho scritto di amori omosessuali, ma ho parlato di donne. Triplo salto mortale.

P.S. Per le prossime novità, controllate qua, nei prossimi giorni. Ma vi farò sapere.

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