There’s A Place

Quando inizi a lavorare, le vacanze si chiamano ferie – Da costa a costa in pochi giorni

Prologo – Bologna, 12 agosto
Rimanere in città in agosto non è drammatico, su. Si fa amicizia con l’unico tabaccaio aperto nel giro di sei chilometri, anche se non si fuma, e si progettano fughe d’amore con la tristissima e sottopagata cassiera del supermercato vicino casa, che continua a dirti “Ma io ti ho già visto da qualche parte”, e pare brutto dirle “Già, cinque minuti fa mi aggiravo nella zona biscotti e ci siamo urtati”. E poi ci sono tante iniziative: concerti in piazza, cinema in piazza, teatro in piazza, arene estive, lotta nel fango nei parchi, combattimenti truccati di zanzare tigri.
Il problema è che ad agosto in città è la follia umana a farla da padrona. Non passa minuto che non accada qualcosa di grottesco. L’ultima sera a Bologna prima della settimana di ferie non ha fatto eccezione.
Decidiamo di andare a bere qualcosa praticamente sotto le torri. Al tavolo accanto al nostro tre individui intorno alla quarantina che bevono e scherzano tra loro. Ad un certo punto uno di questi si alza e, prima di andarsene, dà delle pacche in testa e delle strizzatine alle palle di quello che ha la faccia più da pazzo. Dopo la decima accoppiata pacca-strizzatina, il malcapitato si ribella, si alza di colpo, prende una sedia di plastica (la sua) e fa per scaraventarla sulla schiena dello strizzatore che se ne va. Il terzo uomo non dice una parola e non fa una mossa. Beve. Lo strizzato si siede. Beve anche lui. Poi si alza e viene verso il nostro tavolo.
“Avete una sigaretta?”
Gliela do.
“Ne avete una anche per il mio amico?”
Gliene viene data un’altra.
I due fumano e bevono, ma non si parlano.
Ad un certo punto il terzo uomo, diventato secondo dopo l’abbandono dello strizzatore, sbocca. Vomita a getto al lato del tavolo, schizzando anche l’amico, che si alza di colpo e inizia a pulirsi i pantaloni. Il vomitatore si alza, ma la sua forza interiore è troppo forte. Appena in piedi, via, un’altra vomitata. Tenta di allontanarsi, e lo fa con ritmo. Due passi, una vomitata, due passi, una vomitata. Nel frattempo l’altro, vedendo la situazione disperata, si dilegua senza dire una parola. Il vomitante riesce a raggiungere un vicolo buio con la sua folcloristica camminata e scompare, lasciando numerose tracce del suo passaggio.
Vedendo la scena mi viene in mente un’atroce possibilità: quello che ha fatto conoscere lo strizzante, lo strizzato e il vomitatore è stata solo la solitudine, il caldo e un tavolino fuori da un locale. Le persone che sono con me prima bocciano l’idea, poi ci pensano e rimangono in silenzio.

Epilogo del prologo. E. rimane a dormire da me, non intende affrontare la città folle e deserta. Appena arrivati a casa mia, le arriva una telefonata da P. E. ride come una pazza.
“Che succede?” le chiedo appena finisce di parlare.
“P. mi ha detto che ha appena visto uno con addosso solo mutande e cappello. Sta venendo da queste parti.”
Corriamo alla finestra, ma non c’è nessuno. Forse l’uomo nudo ma con cappello era già passato? O la follia aveva contagiato anche P.? (musica de paura).

Sarnano, 13 agosto
Il viaggio in treno da Bologna a Civitanova Marche prevede l’ormai rituale guasto dell’aria condizionata dopo circa mezz’ora. Il controllore dice con aria serafica che non c’è nulla da fare. Dà a C. la chiave multiuso per aprire dei finestrini, bloccati per l’ipotesi di aria condizionata. Con quello strumento magico, si può smontare un treno completamente. Il controllore si accorge abbastanza presto del potere che ci ha lasciato e viene a riprendersi il prezioso attrezzo. Da Ancona in poi ogni volta che il treno si ferma, si diffonde misteriosamente un odore di fogna misto a zolfo. Incurante dell’indizio luciferino un uomo sbotta e impreca contro le Ferrovie dello Stato (che è molto più bello come bersaglio che Trenitalia). Dopo qualche minuto scompare nel nulla. Si sente di nuovo odore di zolfo.

La casa di E. (che è un’altra E. rispetto a quella del prologo) a Sarnano è bellissima. Un’enorme casa dei primi del ‘900 immersa nel verde. Fa fresco. Si aprono le Olimpiadi, e penso che sono le settime da quando sono nato. Contare le età in Olimpiadi può essere svantaggioso, a volte.
Come dice Woody Allen, la campagna dopo un po’ mi fa venire l’orticaria, ma per qualche giorno va più che bene. Verde, fresco, insetti, pomodori, colline, cieloblù.
Tanto la prossima tappa è Roma. Grigio, caldo, insetti, giapponesi e americani, i sette colli, giallorosso.
Di sera andiamo a farci un giro nel delizioso paesino medioevale. Fino a che siamo in alto sulla rocca non incontriamo nessuno. Quando scendiamo, però, iniziamo ad incrociare famiglie e gruppi di tardoadolescenti molto, molto tamarri. E. si innamora di uno di questi: continua a dire che bello è bello, ma è anche tamarrissimo. Però è bello. Eccetera. Finiamo in una piazza dove c’è uno spettacolo che è una via di mezzo tra la pubblicità di una palestra, che si chiama – giuro – “PaleXtra”, e un saggio di danza. Sul palco si muovono legnose donne dai sei ai vent’anni, che pensano di fare del “funky step” la nuova arte espressiva del ventunesimo secolo. La scelta delle canzoni usate per commentare gli esercizi è pazzesca: “Superstar”, “Who wants to live forever”, un pezzo degli Inti Illimani, “Kiss Me Licia”. Andiamo a bere una birra, e affascino la cameriera facendo il verso del grillo.

Sarnano, 14 agosto
Il Palio del Serafino è l’evento dell’estate. Le quattro contrade di Sarnano, Abbadia, Brunforte, Castelvecchio e Poggio, si sfidano su quattro prove. Il tiro alla fune, la corsa con le brocche, l’abbattimento del tronco, e la salita sul palo. La corsa con le brocche è l’unica in cui partecipano le donne. La brocca in realtà è un’orcia enorme che va messa sulla testa. Le donne corrono con ‘sta cosa piena d’acqua e il loro passo ricorda un po’ la danza del pinguino in amore. Dopo che il pinguino si è fatto sei birre medie. Il taglio del tronco è emozionante: due omaccioni per contrada prendono ad asciate un tronco. Vince a chi fa prima a buttarlo giù. Questa sono le uniche gare che prevedono che le quattro contrade gareggino insieme. Le altre competizioni sono fatte uno contro uno. Alla quinta tirata di fune e salita sul palo volevo travestirmi da tronco e farmi abbattere. Però la contrada a cui appartiene E. ha iniziato a vincere, e mi sono sentito anche io facente parte dello storico Poggio. Alla fine urlavo come un invasato e prendevo per il culo gli altri contradaioli, bullandomi della mia appartenenza da generazioni alla contrada vincente.
Tornando a casa mi sono interrogato sul profondo significato storico del Palio e delle competizioni. Mi sono immaginato rudi boscaioli all’opera sulle pendici dei monti intorno a Sarnano, donne che portavano preziosi orci d’acqua su e giù per le stradine del paese, ragazzini che salivano sugli alberi per mangiare fresche uova di rapaci. Ma il tiro alla fune: perché?

Sarnano, 15 agosto
Il giorno di Ferragosto arrivano alcuni parenti anziani di E. a pranzo. Per anziani intendo gente che ha visto tutte e due le guerre: Crimea e terza guerra di indipendenza. È un discreto tripudio di “la società va ad un’altra velocità”, “questa modernità” e “però Cavour era di un’altra levatura”. Dopo avere mangiato tantissimo, rimaniamo in stato di coma apparente fino a sera. Quindi rimangiamo, ma un po’ meno, perché il cibo del pranzo avanzato è quello che è.
Di sera, per darci una botta di vita, andiamo a giocare a minigolf. Sono cose che si fanno soltanto in vacanza, no? Entusiasmarsi per un mercatino di libri a prezzi duplicati, spendere milioni per l’affitto di mezzi di trasporto insoliti (canoe, pedalò, deltaplani), mangiare cibi fluorescenti e giocare a giochi stupidi. Il minigolf di Sarnano è complicatissimo. Un tripudio di scivoli, falsipiani, campi minati, buchi neri, spirali e varchi spazio temporali. Il tutto condito da bambini rompicoglioni che parlano in maceratese strettissimo, hanno l’aria minacciosa e mulinano in aria le loro mazze con indifferenza. Il minigolf, più che un gioco, è il prodromo alla follia. Quando la pallina non entra nel mulino dopo dieci tentativi, inizi a prendere a mazzate la maledetta costruzione in ferro, e tenti di mangiare la pallina, insultandola nel peggiore dei modi. Solo dopo ti accorgi che c’è una famiglia bellissima di stranieri che ti guarda. I loro occhi azzurri sono il netto opposto ai tuoi iniettati di sangue. Sorridi, segni “dieci” sul cartellino segnapunti, sputi con discrezione i pezzi di pallina che ti sono rimasti tra i denti, e ti riprometti, per l’ennesima volta, di smettere di bere caffè, di diminuire il numero di sigarette e di iscriverti ad un corso di yoga.

Roma, 16 agosto
L’autista che guida il pullman per Roma è il fratello tamarro di David Lee Roth. Capello lungo e biondo, camicia bianca aperta sul davanti, occhiale scuro, stivaletto pitonato a punta. E parla con forte accento maceratese.
Di sera vado a mangiare in un ristorante che ha anche il menù scritto in inglese. La pasta cacio e pepe diventa “pasta with many different cheese (sic) and black pepper”; le tagliatelle ai porcini diventano “pasta with special muschrooms (sic)”. Mi immagino orde di adolescenti americani che tornano in patria e raccontano che in Italia ci sono ristoranti che ti danno pasta con funghi allucinogeni. Però, siccome sempre di Italia si tratta, ti fregano, e non fanno effetto.
Di sera passo a rivedere il quartiere Coppedè, costruito dall’omonimo architetto negli anni Dieci del secolo scorso. Pare che questo Coppedè fosse anche un alchimista, e che abbia inserito particolari simboli e figure in tutte le abitazioni che ha progettato. Le case sono bellissime, e con le luci della notte sembrano provenire da un altro mondo. L’atomosfera fiabesca viene interrotta da alcuni ragazzi che tentano di uccidere un topo enorme. A colpi di casco. Sì, di casco, quello che si mette per andare in moto. Il topo scappa, e forse si rifugia nella sua tana nei villini delle fate. Solo lì può mettersi in ciabatte e leggere in pace il giornale.

Roma, 17 agosto
Tutti vanno a Roma per vedere il Colosseo, per entrare nella basilica di San Pietro, per mangiare pizzappepperoni. Ma pochi conoscono la grattachecca, in particolare quella di Sora Maria. Partiamo dalla grattachecca. Niente a che vedere con il cartone animato che sta all’interno dei Simpson, no. La grattachecca è un bicchierone di ghiaccio tritato condito con sciroppi di frutta e pezzetti di frutta. Quando è fatto bene. Se no, è una schifezza. Pare che il nome derivi dalla Sora Checca, una delle prime grattacheccare romane, che veniva incitata, appunto, a grattare il ghiaccio. Ma forse è una leggenda mertropolitana. La grattachecca di Sora Maria, come diciamo noi giovani, spacca. Non aspettatevi un negozio enorme, insegne o cose del genere. Si tratta di un anonimo baracchino su un marciapiede di una strada nel quartiere Prati. Quando Sora Maria è aperta, si riempie la strada, ma completamente, tipo folla che aspetta che si aprano i cancelli per un concerto. Ma alle tre donnine del baracchino (chi sarà Sora Maria, ci sarà ancora? Mah…) non importa. Veloci ed efficienti sfornano grattachecche di continuo, sorridono, fanno tutto con precisione e leggiadria. La grattachecca supermista è splendida: sciroppi e pezzetti di cocco, limone, frutti di bosco. D’estate è una meraviglia: è come farsi una doccia dentro, rinfresca le budella e fa tornare il sorriso.
Dopo averla comprata, sono andato a mangiarla seduto sui gradini di una chiesa di una strada vicina. Seduto a pochi passi da me, un uomo con un cane. L’uomo parla al cane come se fosse una persona, richiama la sua attenzione su un gatto che sta dall’altra parte della strada, predice le sue mosse e si compiace coll’animale, che, ad un certo punto, mi guarda. L’espressione che assume è umanissima ed univoca: sembra voler dire “che vuoi farci, il mio padrone è fatto così, abbi pazienza”.

Epilogo, Roma – Bologna, 18 agosto
(mi sono dimenticato di scriverlo allora, lo scrivo adesso) Di mattina mi sveglia un numero sconosciuto. Barcollo verso il cellulare, scusandomi col letto e promettendo un rapido ritorno. Dall’altra parte una voce inglese: ITV vuole ancora una volta un mio intervento in diretta, stavolta sulla bomba trovata a pochi passi dalla casa sarda di Silvio B. Rifiuto allegramente, dicendo che sono in una casa in campagna e che non so nulla del mondo. Mi sa che mi sono giocato il contatto con la reale rete televisiva… E arriva il momento di partire.
Lasciare casa di M. è sempre triste, ancora di più quando lui non c’è. Ma insomma, torno a Bologna, pensando alle belle cose che ho visto e a come sono stato bene. Sull’Eurostar su cui scrivo queste righe faccio conoscenza di due americani. Si chiamano Bob e Susan, nomi da “Indovina chi?”. Lui ha la faccia da sfigato-del-college cresciuto, ma non ha la faccia da nerd. Lei è una giovane donna un po’ bambolesca e, credo, vagamente rifatta. Ovviamente si parla dell’Italia, dell’undici settembre, di come vengono visti gli americani nel mondo. Lui ha una visione ingenua e buonista della situazione, lei lo contraddice sempre. Io do ragione a lei, un bel po’ più acuta del suo compagno. Legge un libro di Susan Sontag, o meglio, fa finta di leggerlo, perché appena lui dice una cazzata, lei interviene e lo atterra. Alla fine Bob arriva alla conclusione geniale che gli americani hanno avuto una storia diversa, quindi sono diversi. Susan aggiunge con un mezzo sorriso: “Sì, ma abbiamo grandi macchine e grandi frigoriferi e centri commerciali enormi.” Io le sorrido, sorrido anche a Bob. Poi penso che la percezione che hanno di me questi due americani è che comunque io sia rappresentato da uno con una bandana in testa.
E decido che voterò per Hulk Hogan alle prossime politiche.

Une semaine dans la vie: appunti sparsi e trascritti di una settimana a Parigi

29 aprile 2004. Italia vs Resto del mondo
Io e V. arriviamo da Bologna a Milano alle 1415. La partenza del TGV per Parigi è due ore dopo. “Il tempo è relativo”, dice V., citando Einstein. “Sì, ma che palle”, dico o senza bisogno di riferimenti dotti.
Accanto a noi una ragazza straniera sfoglia dei cartoncini su cui c’è scritta da un lato una parola in italiano e dall’altro il corrispondente in inglese. Un modo comodo per imparare le lingue, basta avere una borsa apposita per i cartoncini. Ad un tratto si gira verso delle altre ragazze e mostra loro un cartoncino. “Ghio-ca-rii?”, chiede. “Giocare”, rispondono le mie giovani compatriote. Dopo un po’ la ragazza tira fuori un ramo di una pianta avvolto nel cellophane. Io e V. ci chiediamo se avvolgere le cose nella plastica possa servire ad apprendere le lingue. Dopo il metodo Shenker, il metodo Domopak?
Finalmente arriva il TGV, e saliamo. I passeggeri sono per lo più francesi e italiani. I francesi stanno seduti, parlottano tra loro, facendo facce buffe, esplodendo ogni tanto in un “bof” ed emettendo quelle mezze pernacchiette per cui sono famosi nel mondo. Gli italiani urlano, si spingono, rimangono incastrati tra i sedili con i bagagli.
Poco prima che parta il treno passa un ragazzo che lascia ad ognuno dei biglietti così fatti: a destra l’alfabeto dei sordomuti, decorato, chissà perché da un disegno di un personaggio di Dragonball. A sinistra una scritta in quattro lingue, che più o meno dice: “Buongiorno, sono sordomuto. Prendete questo alfabeto internazionale dei segni per sordomuti e lasciatemi un’offerta. Grazie.” Questo è quello che c’è scritto in italiano, perché in francese, inglese e tedesco non si dice solo di leggere l’alfabeto, ma anche di studiarlo.
Non prendo il cartoncino. Quando il ragazzo passa per ritirarlo e vede che non gli do dei soldi, mi guarda con aria interrogativa. Io a gesti gli dico che non ho soldi spiccioli, ma anche se li avessi non li darei a lui, preferisco sostenere enti e associazioni che conosco bene, di cui mi fido. Posso essere molto comunicativo a gesti, a volte. Lui insiste, io ribadisco la mia posizione. Alla fine mormora a bassa voce “Un’offerta?”.
Ci guardiamo ancora per un secondo, poi se ne va.
Nel TGV io e V. ci innamoriamo di una ragazza bellissima che si va a sedere qualche fila davanti alla nostra. Dopo qualche minuto ne entra un’altra identica: meglio, così non litighiamo. Ma poi notiamo che tra i suoi bagagli c’è un bongo. Non ci piace più, e ci guardiamo in cagnesco per tutto il viaggio.

30 aprile 2004. La nouvelle cuisine e i problemi di lingua
Dopo avere visto il Museo Picasso, io e V. decidiamo di mangiare qualcosa, ma tutto costa troppo. Compriamo quindi qualcosa in un supermercato. V. adocchia uno strano barattolo. “Cos’è?”, gli chiedo. Lui me lo spiega con un lungo giro di parole, ma io intuisco che nel contenitore c’è semplicemente marmellata di porco. Andiamo a mangiare nei giardini del terzo arrondissement. V. apre il coperchio di plastica del barattolo con la marmellata di porco e io vedo un altro coperchio bianco, senza alcuna linguetta per aprirlo. “Cosa facciamo?”, domando preoccupato. “Non è plastica”, dice serafico V. “E’ strutto.” Passa il custode del giardino e ci dice “bon appetit”, sogghignando. Una vecchia nella panchina accanto vede il barattolo di marmellata di porco e le si innalza automaticamente il tasso di colesterolo nel sangue. Se ne va un attimo prima dell’inevitabile collasso. Noi, intanto, pranziamo.
Di sera siamo invitati da un’amica di V., Audrey, ad una festa. Cosa c’è di più fico di andare a Parigi ed essere invitati il giorno dopo ad una festa? Ve lo dico io. Andare ad una festa a Parigi il giorno dopo esserci arrivati e parlare bene il francese.
Io, V. e la mia amica Elena arriviamo alla festa senza aver mangiato nulla. Vediamo subito che oltre alle patatine (ovviamente aromatizzate con gusti improbabili) ci sono anche dei pezzetti di cavolo crudo. Iniziamo malissimo. Mi guardo intorno, però, e noto che non tutto è perduto. Ci sono delle confezioni di pizza precotta e c’è tantissima roba da bere. E poi la festa è piena di belle ragazze. Una, in particolare, mulatta, è bellissima. Ma proprio bella. Com’è come non è, capita che mi siedo vicino a lei. Mi chiede da accendere, in francese e le do da accendere. Le chiedo se parla inglese. Mi dice di no, e inizia a parlare con me in francese. Io chiamo a raccolta le mie 100 parole di francese e spero che il discorso rimanga ai livelli linguistici di una puntata dei Teletubbies. Invece, complice il livello alcoolico, vengono toccati i seguenti argomenti: situazione dei sans papier in Francia; ruolo della polizia nella politica italiana; grandi chiese a Roma e Parigi, con accenni ai principali aspetti dell’architettura romanica e gotica. Infine: dolci tipici italiani e francesi e loro preparazione. Ora, chiunque sarebbe crollato dopo il terzo argomento. Ma quegli occhi neri e tutto il resto mi hanno dato la forza, anche e soprattutto quando sentivo frasi come “Roma est très romantique”.
Alla fine delle festa si prende il mio numero di telefono (a forza, ovviamente: io mica volevo darglielo) e se ne va. Io, per la disperazione – e per la fame – sto per addentare un pezzo di cavolo crudo, ma V. mi salva all’ultimo momento, passandomi una fetta di nazionalissima e assai autarchica pizza. Carbonizzata.

1 maggio 2004. Mughetti e mugugni
La giornata della festa del lavoro inizia con un sms di mia madre. “Allora, com’è il primo maggio coi mughetti?”. Sulle prime penso che mia madre stia organizzando un movimento clandestino di resistenza e decido di rispondere con un messaggio del tipo: “Il nonno ha bruciato la torta”. Poi mi informo e scopro che il fiore ufficiale del primo maggio in Francia è il mughetto. Scrivo quindi a mia madre: “Ho mangiato una baguette con in testa una corona di mughetti sotto la torre Eiffel. Buon primo maggio”. Così è contenta.
Di sera andiamo alla Flèche d’or, una specie di centro sociale. Ci dovrebbe essere un concerto ska: la cosa non mi entusiasma, ma tant’è. Scopro invece con orrore che il gruppo principale è un incrocio tra Punkreas, Nomadi e Modena City Ramblers. E cantano in spagnolo. Le mie palle girano a mulinello e producono un rumore coperto appena dal vociare della folla, entusiasta nel sentire canzoni su “marijuana y libertad”. Mon Dieu.

2 maggio 2004. Tout le monde est (à) Montmartre
Nel pomeriggio incontriamo di nuovo Audrey, che, diciamolo, piace a V. Il punto di ritrovo è vicino a Montmartre. Mentre l’aspettiamo dico al mio amico: “Senti, oggi è domenica, è una bella giornata, siamo a Montmartre e quindi è pieno di turisti. Ti prego, non saliamo al Sacro Cuore, visto che abbiamo già scarpinato per tutta la mattina.” Arriva Audrey, bella come il sole, e dopo un paio di minuti, ovviamente, stiamo salendo, facendoci largo a manate tra i turisti, verso la chiesa del Sacro Cuore.
In una stradina laterale vedo un posto curioso: un pub irlandese, con dentro suonatori francesi di musica simil-celtica. A Montmartre. Ovviamente il piatto del giorno del pub è pollo taandori.

3 maggio 2004. Io, reietto del Louvre
Fanculo a te che mi hai messo nella stessa sala di quella troia di Monna Lisa. Gioconda un cazzo. Io sono molto più grande di te. Ti scattano centinaia di foto e poi vanno a comprare le cartoline; si fanno ritrarre con te alle spalle; ti hanno fatto i baffi, messo sui poster, colorata.
E io, a pochi metri da te, niente. Sono senza speranza.
Gioconda, un’ultima cosa: altro che misteriosa, affascinante ed enigmatica. Secondo me sei proprio un cesso.

4 maggio 2004. X grazia ricevuta
La chiesa di Saint Germain-des-Prés è bellissima e molto antica. Ma quando vado a visitarla, stranamente, non ci sono molti turisti. Invece ci sono diversi fedeli che pregano. Qualcosa di bianco attaccato ad una colonna vicino ad una statua di un santo attira la mia attenzione. È un grande foglio pieno zeppo di richieste e ringraziamenti a S. Antonio. Sono stato un bel po’ a leggerli: scritte di giovani e adulti, a penna nera, blu o anche violetta, soprattutto in francese, ma anche in spagnolo e portoghese, e italiano. Una di queste recita: “S. Antonio, proteggi il mio papy e tutte le xsone a me care”.
Che ci crediate o no, mi sono un po’ intenerito e commosso.

5 maggio 2004. A brain apart
Scoppia il panico a casa di Elena, Ilaria e Andrea, i miei ospiti. Arriva, totalmente inaspettata, un’amica di un’ex-amica di Ilaria. Così, senza praticamente avvisare. Il problema non è la mancanza di posto, visto che V. se n’è andato il giorno prima, ma il modo in cui questa ragazza si presenta a casa di persone a lei sconosciute. Inoltre gira una strana voce sul suo conto: che lei sia deficiente. Io appoggio i tre nella loro incazzatura, ma dentro di me spero che la persona con la quale dovrò condividere la stanza per una notte sia tipo Marylin in Quando la moglie è in vacanza.
La frase con la quale la ragazza si presenta, con pesante accento romano, è: “Scusame Ila, me sento ‘na mmerda, ma nun zo proprio dove annà”. Da quel momento nei suoi discorsi è tutto un tripudio di confronti tra Parigi e Trastevere, un punteggiare continuo dei nostri discorsi con domande come “Chi è?”, “Che è?”, “‘Ndo sta?”. E inoltre: no, la ragazza non è decisamente come Marylin.
Quando ci stiamo per addormentare, inizia a chiedermi quanti anni ho, di che segno zodiacale sono, e cose così. Poi continua: “A Francè, ma qui a Pariggi gli studenti ‘ndo stanno?”
“Parigi è grande”, dico io mezzo addormentato.
“Stanno alla Sorbona?”
“Eh, anche”, dico io, evitando di rivelarle che, proprio come a Roma, a Parigi ci sono molte università.
“Senti ‘n po’, ma domani ce la faccio a vvedè tutto er Louvre?”
“Ci vogliono due giorni per vedere tutto il Louvre”
“Ma se vado svelta?”
E mi immagino la scena di Band à part di Godard, in cui i tre protagonisti fanno il Louvre di corsa, scena ripresa da The Dreamers (che, per inciso, alla ragazza è piaciuto ‘na cifra). Sovrappongo questa scena ad una fantasia personale: la ragazza che corre, cozza violentemente contro la Venere di Milo che cade in mille pezzi. “Tanto già era rotta”, si giustifica lei.
La conversazione continua ancora per un po’, fino al “buonanotte” più liberatorio che mai mi sia stato augurato.

Remèrciements: Ilaria, Andrea, Elena, V., Audrey, la splendida ragazza mulatta (Sèverine), Francis Bacon, il centinaio di ragazze di cui mi sono innamorato in questi sette giorni per almeno cinque minuti, l’inventore della baguette, il mio blocco note, le mia Gauloises portate da casa, il Pastis Ricard, Oui Radio, la RATP, la mia Rollei, i Pixies, i Pavement, Damien Rice, i Depeche Mode e voi pochi superstiti che siete arrivati alla fine di questo post.

Le avventure di Rossi-San a Roma

Sono tornato a Roma. Sono tornato da Roma.
Di solito, appena arrivo a Roma c’è il sole. Stavolta niente: pioggia continua o quasi. Come per non rendermene conto mi sono buttato nella metropolitana, appena arrivato a Termini. Nel sottopassaggio della stazione Flaminio la gente va con passo veloce. Accanto a me una suora. Non appena il suonatore ambulante la vede, mette le dita sulla tastiera della chitarra e intona una marcetta: il testo, improvvisato, è solo fatto di bestemmie, con precisi riferimenti alla Sacra Famiglia e anche a Madre Teresa di Calcutta. Non riesco a vedere la suora in faccia. Una signora grida “vergogna!”, qualcuno ride.
La metropolitana, a causa della pioggia credo, è affollatissima. Io sono schiacciato in mezzo a decine di persone, e non posso fare altro che appoggiarmi al palo centrale, dove però ci sono delle mani aggrappate. Tra queste, la mano di una signora. Cerco di arcuare la schiena, per evitare di schiacciarla, ma la mano si muove. Mi giro.
“Scusi”
“Mi devo tenere”, fa lei scocciata.
“Sì, lo so, sto cercando di non schiacciarle la mano”
“Appunto”, conclude la signora.
Peccato che i Monty Python non facciano più il Flying Circus: secondo me, in quanto a nonsense, siamo da quelle parti.

Venerdì pomeriggio, dopo avere pranzato con le sorelle bandiera (che ringrazio, congiuntamente al Supereroe), rimango a Trastevere e bighellono approfittando del raro sole. Compro un libro in una splendida libreria, poi continuo a passeggiare. Passo vicino ad un camion posteggiato, nel cui cassone c’è un ragazzo che spala dei detriti. Gli passo sotto proprio nel momento in cui lui spicca un balzo verso terra. Mi sfiora. Io mi giro e gli dico che va tutto bene. Lui mi abbraccia, mi stringe la mano. “Ahò, m’hai fatto venì ‘na strizza che non poi capì”. Poi torna a lavorare.

Sabato vado a cena con il mio fratello di parole, in una nota-trattoria (talmente nota che la chiamiamo “la trattoria” e basta). Il cameriere allunga una poesiola a Martino. Secondo Martino questo è un buon segno, io rimango scettico. Ma speriamo abbia ragione lui.

Domenica incontro in un bar vicino al Colosseo R. D. , con il quale, come al solito, chiacchiero di letteratura; meglio: lui chiacchiera di letteratura, io annuisco e cerco di tenere a mente i nomi che cita. Che strano uomo. Sembra timido, ma poi racconta cose spassosissime, aneddoti di convegni letterari (che mi sembrano sempre più simili a feste goliardiche, altro che pipa e giacche con le toppe sui gomiti). Stavolta non parliamo di Carver. Ad un certo punto tira fuori due libri e me li regala. Poi mi accompagna alla fermata della metro del Colosseo, e inizia timidamente a parlare dei miei racconti. Dice che non sono scritti male, ma “non si chiudono bene, non c’è il ‘click’ che ci dev’essere”. Lo guardo un po’ perplesso. “Per usare una metafora calcistica”, mi dice, “fai delle belle azioni, ma non tiri in porta”. Lo ringrazio, ma ha paura che ci sia rimasto male, il che non è vero. Ma lui mi consola dicendomi che se ho fatto metà strada, tanto vale… Mi giro e vedo il Colosseo. Penso che se fossi in un pessimo film, potrei pronunciare, con quello sfondo, una battuta come “Roma non fu costruita in un giorno”, dando di gomito all’anfiteatro.
Poi vado a mangiare con B., in una delle poche pizzerie aperte a San Lorenzo. Quando entriamo la cameriera ci dice: “Ma c’è un solo tavolo”, al che noi ribattiamo che, in fondo, ce ne basta uno. Il punto è che il tavolo in questione è davanti alla porta del bagno. Ma non di fronte, proprio davanti. Facciamo pressione psicologica sui tedeschi accanto a noi, che finiscono di mangiare, lasciandoci il loro tavolo, di fronte alla porta del bagno. Il nostro viene immediatamente occupato da un’altra coppia.

B. mi accompagna alla stazione, stamattina. Facciamo colazione nel bar al piano di sopra. I cornetti sono finiti, ma in compenso abbiamo una vasta scelta di muffin e doughnut: roba da fare impazzire i teorici della globalizzazione. Nel tavolino dietro di noi, una strana coppia. Uno è un ragazzo piuttosto giovane e assonnato, che sta facendo lezione di giapponese ad un uomo sulla quarantina, con camicia, giacca e cravatta appoggiata allo schienale della sedia. Speriamo in cuor nostro che il ragazzo venga pagato bene. Il signore deve tradurre una frase, ma è in difficoltà.
“Rossi-San…” inizia, ma non sa andare avanti. Il ragazzo lo guarda con aria mesta, e sono convinto che stia pensando ai soldi che guadagna dando lezioni di giapponese alle nove di mattina in un bar della stazione Termini, prima di ripetergli la frase in giapponese.

Il Bretella

Non è il Bretella: lui ha le bretelle a pois!


Un altro post sulla sala-da-biliardo? Abbiate pazienza, ma volevo parlare di questo personaggio, Il Bretella, da molto tempo.

Capita, come ieri, che nella nota-sala-da-biliardo non ci sia nessuno. Forse perché è martedì grasso, non so mica. Anche se dubito che i clienti abituali che si trovano lì a giocare non vedano l’ora di mascherarsi e andare nei locali a tirare stelle filanti e coriandoli. Insomma, entriamo nella sala e c’è solo un tavolo occupato da un ragazzo piuttosto giovane e dal Bretella.
Il Bretella è un uomo dall’età indefinibile, ma diciamo tra i cinquanta portati male e i settanta portati bene, che ha comprato due oggetti rilevanti, nella sua vita: le bretelle (marroni a pois) e la pancia. La pancia del Bretella è di dimensioni enormi ed è tonda tonda: un affare del genere, è evidente, non esiste in natura, ma buoni artigiani possono produrne di cose così; chissà quanto gli sarà costata.
Il Bretella se ne starebbe anche per i cavoli suoi, e può farlo, ma attenzione: è l’Echelon del biliardo. Se il grande orecchio viene attivato da parole come “Osama Bin Laden” e “esplosione-Vaticano”, il Bretella è attivato nel momento in cui qualcuno dice cose come “io questo colpo proprio non lo so fare”. Ed ecco che il poverino che ha pronunciato queste parole è finito. Il Bretella arriva e, con falsa modestia, gli mostra il colpo, che esegue perfettamente. E gli altri venticinque successivi per vincere la partita. Ma il giocatore inesperto non se ne accorge, perché rimane affascinato dalla sua panza: è fatta, il Bretella, come un organismo parassitario, ha trovato la sua vittima. Inizierà a dispensare consigli di biliardo e di vita, snocciolandoli sempre accompagnati da “ma io non è che sia un professionista” o frasi del genere. Non si capisce se lui intenda affermare la sua non-professionalità nella vita o nel biliardo, ma è meglio non indagare. Il Bretella gioca al biliardo all’americana e a boccette, ma è il biliardo all’italiana il suo punto forte (sì, quello con birillini – il castello – al centro e tre bocce). Perché effettivamente in quel gioco del biliardo è possibile pianificare veramente una strategia a lungo termine: capite che la soddisfazione didattica è decisamente maggiore.

Avevo sempre visto Il Bretella dare lezioni-non-volute, a gratis, ma la situazione di ieri sera era strana. Il Bretella parlava più del solito, continuamente, un flusso continuo (veramente senza neanche un’interruzione) per due ore e più. Troppo anche per la naturale propensione all’insegnamento che lo caratterizza. Mi sono reso conto con orrore che il timido ragazzo che “giocava” con lui, gli aveva chiesto lezioni di biliardo. Ovviamente non sapeva che questo comprendeva anche un seminario sulla psicologia dell’avversario, un breve workshop di teoria dell’attacco, direttamente ispirato al pensiero di Von Clausewitz, e anche un panorama storico sui colpi celebri nella storia dei campionati mondiali di biliardo all’italiana. Il tutto eseguito, raccontato, messo in scena dal Bretella. Il ragazzo, ogni volta che stava per giocare, veniva spostato dal maestro, che, ovviamente, eseguiva il colpo perfettamente. All’allievo non restava che guardare. Anche perché “è già tanto che tu capisca il dieci per cento di quello che dico”, chiosava il Bretella ad ogni insegnamento. Le domande dell’allievo venivano considerate pochissimo, perché “è ancora troppo presto”. E alla fine? “Dai, sono un po’ più di due ore, facciamo due ore, sono venti euro”. Più il costo del tavolo, più la birra per il Bretella, che sicuramente, data la panza che deve nutrire, non era una birretta piccola. Alla fine, però, lo spirito didattico va oltre ogni forma di pagamento, e il Maestro inchioda l’allievo a gratis per altri quaranta minuti, forse parlandogli anche della sua vita e della sua panza.
La frase conclusiva della lezione è stata una definizione del biliardo: “È la matematica che sposa l’arte”. Quasi quasi la prossima volta preparo questi venti euro.

P.S. Ringrazio A. per il prezioso aiuto: mentre io giocavo, lei osservava e registrava. E rimaneva affascinata dalla pancia e dalle sagge parole che essa emanava.

Lezioni di stecca

Era da tempo che non tornavo nella nota-sala-da-biliardo, ma mercoledì sera alle dieci e mezzo ero già lì, con F. e P. che sistemavo il triangolo e mi facevo pervadere da quella calma olimpica che mi prende quando gioco. Dico sul serio. C’è qualcuno che si incazza e si innervosisce, quando gioca a biliardo. Io no. Anche se perdo. Devo essere sincero, non ho mai stracciato il panno, né ho mai fatto schizzare il boccino a velocità supersonica sul cranio di un energumeno. Ma insomma.
Proprio dietro di noi c’erano due uomini, intorno alla quarantina scarsa. Uno di Roma e uno di Bologna. Non che si fossero portati dietro le targhe della macchina. Ma si sentiva. Quello di Roma aveva portato l’altro a giocare e, da quello che sembrava, si era messo in testa di rivelargli i segreti della stecca. Ogni colpo, sia suo che dell’allievo, quindi, era preceduto da una disquisizione in romanesco su sponde, strisci, aggiustamenti, buche d’angolo. Una palla (è il caso di dirlo) terrificante. Anche perché, se fino a prima nessuno sentiva i cazziatoni che il maestro faceva all’allievo, adesso c’eravamo noi tre, là, che giocavamo sul tavolo accanto. La nostra concentrazione (si fa per dire) quindi era rotta da frasi come “Ahò, ma no, così m’a metti ammè” e statac! La palla del maestro finiva in buca. E il maestro si arrabbiava pure. Ma non sbagliava un colpo. E anzi, si muoveva e colpiva con la stessa spocchia con cui la mia professoressa di matematica del liceo ti prendeva il gesso di mano, ti scostava dalla lavagna su cui regnava un’equazione di sedici righe e la risolveva in uno, massimo due passaggi. Perfetto metodo d’insegnamento. Ogni tanto ho incontrato lo sguardo dell’allievo, imbarazzatissimo, che non guardava neanche il panno, ma semplicemente teneva la stecca in mano, tra uno statac! e l’altro. E mi sono accorto che il rapporto allievo-maestro era mantenuto anche sul piano fisico: il maestro, un romano alto e grosso, con la mascella prominente, un uomo che ostenta sicumera anche quando fa a fare la cacca, anzi, probabilmente soprattutto in quei momenti. L’allievo, timido, con una camicina a righe, righe che non osano essere quadretti per eccesso di pudore. Un uomo che, sicuramente, ha problemi di stipsi.

Quando sono andati a pagare c’ero anche io al banco. “Sono ventidue euro” ha detto loro l’omino del biliardo. Ho fatto un rapido calcolo: ventidue euro vuol dire che, minimo minimo, erano tre ore e mezzo che giocavano. Tre ore e mezzo di umiliazioni. Di colpi sbagliati dell’allievo e di statac! del maestro. Non ho voluto guardare chi ha pagato. Anche se, in cuor mio, lo so perfettamente.

Il mio barista – Un post à la NuoveParole

Adoro il mio barista. Lavora in un notodiscopub dove vado per gli stessi motivi per cui frequento il notodiscobar. L’ho conosciuto lì, scambiando due chiacchiere in serate mediocri in cui le persone intorno a te, i maschi, soprattutto, ti sembrano squallide e quasi di un altro pianeta. E sono contento perché, dopo cinque minuti, ha detto a me e al mio amico: “Ce ne fossero di clienti come voi”. Senza che noi avessimo fatto o detto niente di particolare.
Ho incontrato il mio barista per strada e in autobus, e abbiamo sempre scambiato due parole, che andavano leggermente oltre il “comevabeneetu?”. Una volta l’ho invitato in radio, ma non è potuto venire perché aveva dei problemi con la sua ragazza.

Io e A. stanotte siamo andati nel notodiscopub. Sempre per i soliti motivi. Era un bel po’ che non ci andavo. Quando mi ha visto, il mio barista mi ha fatto le feste, mi ha stretto la mano e mi ha chiesto “comeva?”. Ho ordinato un Martini cocktail e l’ho visto un po’ in difficoltà, ha chiesto aiuto al padrone del notodiscopub e, alla fine, il Martini l’ha fatto lui, mentre il mio barista guardava.

Martini cocktail eccellente, secco e perfetto. Ci mancherebbe, l’ha fatto il padrone. Padrone che poi ha spiegato come si fa un Martini cocktail al mio barista. Il mio barista, che, praticamente, mi fa pagare sempre la metà.

Ho ordinato un altro Martini cocktail, perché mi piace, mica per sadismo. E ho detto: “Fammelo tu”. Perché volevo che me lo facesse lui. E lui ha fatto tutto, creando quel cono trasparente e meravigliosamente ghiacciato che mi emoziona. E, ancora una volta, praticamente non ho pagato. Mi ha chiesto com’era. Sono stato sincero: “Una mazzata” gli ho detto.

Io voglio bene al mio barista.

Senso civico e sociale, "cinnazzi" e discobar(s?)

Piccole osservazioni di ieri sera e stasera.

Ieri sera: vado a vedere Caterina va in città di Virzì. Sulla strada, passo accanto ad una ragazza. Il mio passo, per qualche metro, è identico al suo, quindi, per pochi secondi, camminiamo uno a fianco dell’altra. In quei pochi secondi ci incrocia uno di quei personaggi che girano nella zona universitaria bolognese, e che di solito o ti chiedono una sigaretta o qualche moneta, o ti offrono del fumo o una bicicletta. Invece lui dice:
“Ah, che bella coppia. Preservativi?”

(Usateli, i preservativi, mi raccomando. Non lo si dice mai abbastanza. Poi, fino a che il governo fa pubblicità-regresso come quella che dice “Avete Idea Della Sofferenza”…)

Stasera sono andato con il caro F. a giocare a biliardo nella notasaladabiliardi. Nel tavolo accanto al nostro giocano dei “cinnazzi” (pronuncia: “zinassi”, cioè “ragazzini” o “ragazzotti”) che, di seguito, dicono le seguenti frasi.
1. “Che palle, però, domani, la scuola”
2. “Io l’ho sempre detto: dobbiamo fare un weekend a Brescia, ché lì ci sono fighe troie” (per la citazione esatta ringrazio il caro F.)

Dopo andiamo in un notodiscobar. Una schifezza di posto, ma serve per l’autostima, vero? Cioè, ti guardi intorno e vedi gente impazzita per “Papi Chulo” e stai meglio. Dopo un rum-e-pera (che F. chiama così, per ordinarlo, e la barista lo guarda e gli dice, un po’ stizzita: “waikiki”) e un cuba libre, inizio a guardarmi intorno. Qualcuno si bacia, qua e là. La cosa bella è che penso che, in un posto del genere, si può limonare solo in due casi:
1. hai rimorchiato quella sera, quindi, giustamente, limoni là;
2. il tuo rapporto di coppia è in crisi: chi si sognerebbe di portare la propria donna nel notodiscobar a ballare “Papi Chulo”?

Due note finali. La prima è che, dico veramente, tutto quello che scrivo è vero. La seconda è: ma perché i miei permalink non funzionano e rimandano all’inizio della pagina in cui c’è il post in questione? Aiuto.

Microcosmi notturni

Sono appena tornato dalla radio (grazie a tutti quelli che mi hanno ascoltato), come al solito, con l’autobus notturno. Il 61, appunto. Che per andare dalla radio fino alla zona del centro in cui abito fa un giro enorme e lunghissimo. Ma è ormai più di un anno che lo prendo a quell’ora, e mi sono sempre divertito ad osservare quello che capita nell’autobus.
La fauna dell’autobus notturno bolognese è spesso così composta:

  • prostituta/e, spesso africana/e; se la ragazza è sola si fa i cavoli suoi; se è in compagnia, e le sue amiche non sono troppo stanche, chiacchierano, di solito ad alta voce in quella lingua, credo un pidgin, misto di inglese e lingua madre;gente che torna distrutta da cene, feste, serate fuori: di solito sono seduti uno dietro all’altro e regolarmente appoggiano la testa sulla fine dello schienale del sedile davanti; il dramma è se qualcuno interrompe la catena magica, sedendosi sull’ultimo sedile in posizione eretta;
  • vari matti e/o vecchietti più o meno ciarlieri;
  • studenti e studentesse stranieri.

Provate ora a tentare delle combinazioni: io le ho viste quasi tutte. Giovanotti ubriachi che tentano di flirtare con algide svedesi, svedesi ubriache che tentano di flirtare con stagionati pazzerelli, prostitute che chiacchierano con l’autista, autisti pazzi svedesi… No. Questa no.

È bello e strano il clima che si respira sull’autobus notturno, soprattutto nella tratta che faccio io, perché in mezzo c’è una sosta di cinque minuti al deposito, che allunga ancora il viaggio. Quando l’autobus si ferma, molti si svegliano, non essendoci più il rombo del motore a cullarli. L’autista scende e… chiude le porte. Ci si ritrova quindi in una situazione tipo ascensore, in cui il silenzio è assoluto, come può esserlo nella periferia di Bologna alle 3 del mattino. Per di più in un autobus. Oggi ho pensato: adesso mi alzo e leggo qualcosa a tutti. Così. Poi mi è venuto in mente che già ci penserà Bergonzoni sabato prossimo.

Colpo partita: triplo filotto reale con pallino

Sono uscito, questa sera, e mica ero di umore buono. Andiamo a bere qualcosa. Ordino un martini cocktail e un bicchiere d’acqua.
“Non abbiamo bicchieri”, mi dice la cameriera.
La folla con me ridacchia e inizia a proporre che io beva l’acqua in un’urna, in una cisterna… La cameriera è simpatica e precisa che, insomma, ‘sta acqua me la devo pagare. Mezzo litro. La ordino senza bollicine, temendo il sovrapprezzo.
Il cocktail è così così. Sto per andarmene a casa, quando mi dicono: “Partita a stecca?”.

Il biliardo io l’adoro. Mi piace tantissimo, tutto. Sorrido e accetto.

Andiamo in una notasaladabiliardo, proprio sotto le due torri. Immaginatevi una sala da biliardo nel centro di Bologna. Fatelo veramente. È esattamente così. Sottoterra, in un palazzo con ascensore ingabbiato, cancello per entrare. Tavoli sparsi, fumo, neon. Popolazione varia e inevitabilmente bizzarra.
Nella notasaladabiliardo la televisione è sempre accesa, e c’è sempre qualcuno che la guarda: e pare non abbia fatto altro in vita sua. Immobile, se non fosse per la sigaretta che viene fumata, spenta, riaccesa. Età compresa tra i cinquanta e i centocinquant’anni. Ma si guardano le cose più normali. Lo so, potreste aspettarvi un porno, o quanto meno le pubblicità dei telefoni erotici. Stasera c’era “Porta a porta”. Mi sa che gli regalo qualche cassetta…
Nella notasaladabiliardo si bestemmia, più o meno ad alta voce, ma si sentono distintamente i rumori crocchianti delle palle, del primo colpo, delle stecche, dei gessetti che vengono strofinati sulle loro punte.
Ogni tanto i giocatori più esperti ti guardano, ma non te lo fanno notare. Meglio così.
Di solito nella notasaladabiliardo ci sono in prevalenza uomini. Ma a volte qualche donna ci scappa. Magari la ragazza di qualcuno, che è lì con i suoi amici. E lui, premuroso e amoroso, tenta di insegnarle a giocare. Lei, di solito, è negata. I suoi amici si sfiancano di sigarette e di birra e tremano ogni volta che lei prende la stecca in mano. Lui, imbarazzato, fa dei sorrisini di giustificazione. Che, spesso, servono a poco.

P.S. Il titolo del post… si può ascoltare qua.

Di |2003-10-10T04:07:00+02:0010 Ottobre 2003|Categorie: There's A Place|Tag: , , , |6 Commenti

Poco più di quarantotto ore

Chissà quando renderò pubbliche queste righe…

“Ma che sta a ddì?”
“Che forse che vuole dire quando posterà ‘ste cazzate”
“Ah”
“Bah”

Dicevo: chissà quando renderò pubbliche queste righe. Tra blackout generalizzati e Fastweb che si rifiuta di funzionare… Per ora scrivo queste cose a mezzanotte e mezza del 30 settembre, vedremo quando le vedrete. Sono state quarantotto ore dense, densissime, per me e per altre persone. Il periodo va dal pomeriggio di sabato al pomeriggio di lunedì. Il post è lungo, e mi dispiace.

Prologo. Preparativi.

Io e il mio fratello di parole, a casa sua a Roma, il sabato pomeriggio. Elettrizzati dalla prospettiva della notte bianca, decidiamo di rilassarci, come si fa (o si dovrebbe fare) prima degli esami o degli incontri di wrestling. Quindi cazzeggiamo e creiamo il banner che vedete (forse) qua a fianco. Così, tanto per fare. Poi usciamo. Aperitivo. Ordiniamo due martini cocktail. Il barista ci chiede se ci vogliamo dentro l’oliva o il wurstel. Il wurstel? Ma non battiamo ciglio e diciamo “oliva”. Senza articolo, senza per favore. Oliva. E mangiucchiamo un po’ di cose. Poi riprendiamo il motorino e iniziamo la nostra notte bianca.

Prima parte. “Quanto sei bella Roma quando è sera”. E Parigi?

Passiamo da Via Veneto, dove dovrebbe essere proiettata “La dolce vita”, e la via dovrebbe essere decorata da ricordi e omaggi a Fellini. Invece la via è tappezzata di Ferrari, sì, le macchine. Una trentina abbondante, modelli dagli anni ’50 a oggi. Belle, non c’è che dire (anche se di motori proprio non me ne frega nulla).

“Ahò. Ma aqquesto nun je ‘mporta de ‘e machine, nun parla mai de carcio, je piace cucinà. Ma sarà n’omo veramente?”

Ma la domanda che ci facciamo è: che cacchio c’entrano le Ferrari con Fellini? Errore degli organizzatori? Ci siamo immaginati il responsabile della Notte Bianca che arriva in Via Veneto, vede tutte queste macchine e dice al sottoposto di turno: “Fellini, non Ferrari, cribbio!”.
Andiamo al Campidoglio. Vista meravigliosa. Dopo tanto tempo ancora Roma mi mozza il fiato. Lo so che è banale. Ma se me lo mozza, me lo mozza, non c’è pezza. In programma un concerto di Nicola “Il grillo fa crì crì” Piovani, in ricordo di Fellini. Stavolta speriamo che non si sia sbagliato nessuno, anche perché un concerto in ricordo di Ferrari eseguito da un compositore di musica da film avrebbe del surreale. E anche del futurista. Invece Piovani è simpatico e racconta aneddoti divertenti. Intervistato da Vincenzo “Ma quant’è meraviglioso questo filmlibrodisco” Mollica. Poi prende la parola Veltroni, il sindaco e fa un bel discorso con dei riferimenti neanche troppo vaghi a proposito dell’ultima follia di Bossi

Sì. Bossi. Quello là. Il ministro.

sullo spostare la capitale a Milano. Ovazioni dal pubblico, ovviamente. Veltroni conclude dicendo che Roma è la città più bella del mondo. Ora, queste cose le puoi dire se hai accanto il sindaco di Dallas, o di Roccasecca, ma non quando stai per dare la parola al sindaco di Parigi. Che, ovviamente, dice che le città più belle del mondo sono due. Poi prende la parola il capo della Camera di Commercio che dice “Possiamo dire che alle 2230 questa sfida della Notte Bianca è stata vinta”. Peccato, il pubblico non si è comportato da vero-italiano. Infatti solo un paio di migliaia di scongiuri simultanei avrebbero potuto non fare succedere quello che è accaduto dopo.
Ma c’è gente, troppo gente, e ce ne andiamo a mangiare qualcosa.

Seconda parte. Il gioco del silenzio

La tappa che più emozionava me e il mio fratello di parole era il silent party. Per due chiacchieroni come noi andare in un posto dove la regola è stare zitti ha il gusto della sfida impossibile. Come da copione, rispettiamo gli orari di entrata e a mezzanotte e qualche minuto siamo dentro una galleria d’arte dietro via Cavour. L’ora successiva dovrebbe essere dedicata alla visione delle opere esposte e ad imparare le regole del gioco (all’una silenzio totale, non si fuma, non si devono alcolici ma solo acqua minerale, chi esce non può più rientrare). Noi ci mettiamo di impegno, prendiamo posto su dei cuscini per terra e iniziamo a guardarci intorno. Del resto, pensiamo, che si può fare? Saranno gli sguardi che contano. E invece la cosa è organizzata all’italiana. Qualcuno sussurra, qualcuno esce e vuole rientrare, gente che fa casino fuori in strada, gente che entra con gli alcolici. La situazione si normalizza verso le due. A quel punto la gente che passa dalla via guarda dentro e ha lo sguardo del visitatore dello zoo. Noi, ché ci vogliamo bene, tendiamo ad interpretare quello sguardo come ammirazione ed invidia, perché noi ci siamo al primo silent party italiano e mamma mia quanto siamo in cool hip. Ma un po’ capiamo lo sguardo annoiato del leone albino dentro la gabbia. Alle due e mezzo ce ne andiamo.

Terza parte. Rock the station: back in black (out)

Stazione Termini trasformata in una discoteca rock! Con i dj che usavano animare le notti radiofoniche di Radio Rai Due con Planet Rock! La trasmissione che mi ha fatto scoprire alcuni dei gruppi che ancora adesso ho nel cuore. Arriviamo ed è bellissimo. Appena entro in stazione scatta il riff di “Master of Puppets” e mi sento adolescente, la canto tutta. Ma c’è un caldo porco, quindi usciamo e ci godiamo lo spettacolo da fuori. Cambia il dj, Mixo in consolle e mi viene in mente la sua trasmissione su Videomusic, Rock Revolution e i suoi capelli e cappelli improbabili. Mixo puttaneggia: nel senso che mette i classici più classici, la gente balla felice. Ad un certo punto inizia a piovere. Mannaggia. E noi siamo in motorino. Vabbè, smetterà. Riconosco il riff iniziale di “Whola Lotta Love”. Al secondo giro di riff:

puff

Termini è al buio. Ma la musica continua, accidenti! Infatti hanno i loro generatori che permettono alle luci di continuare a sbriluccicare e a stroboscopizzare (scusate) la gente. Tutti pensano solo: “è andata via la luce” e sono molto più incazzati per la pioggia che per altro. Capiamo che la pioggia non smette e il Words Brother grande suggerisce di andare a bere qualcosa in un bar di via Nazionale che conosce lui.
Solo che ci rendiamo conto che tutta la città è al buio. Pensiamo, tornando in motorino a casa, a quanto è stato sfigato Walter, a quante polemiche ci saranno, a questa notte bianca che forse è stata un po’ rovinata. Le strade, nel frattempo, sono buie buissime. Non capiamo. Tutta la città al buio? Arriviamo a casa. Buio, buio, buio. Quindi: candele. Cerchiamo una radio a pile, per capire che succede. Musica e un sacco di vuoti. Poi, ad un certo punto, una voce di un’ascoltatrice.

“Da dove chiami?”
“Da Napoli”
“Anche lì siete al buio?”
“Eh sì”.

Interno notte. I Words Brothers si guardano in faccia e sbiancano.

Sentiamo la radio fino alle sei, e veniamo a sapere del blackout totale. Andiamo a letto dicendo cose del tipo “Ma dimmi te” e “Certo che se quello della Camera di Commercio non la tirava così…”.

Quarta parte. I am an Italian journalist.

Mi sveglio poco dopo le 14 ed è tornata la corrente. Iniziamo a capire quello che sta succedendo e quello che è successo quando ricevo un sms da una mia amica inglese che vive a Bologna. Mi chiede se posso fare un favore ad una sua amica che lavora in una tv nazionale inglese, ITV: dovrei parlare in diretta dando testimonianza del black out. Un’ora dopo la mia voce, forse un po’ assonnata, invade le case dei sudditi della regina. Live. In inglese. Ancora non ci credo. Introdotta da “We have live from Rome Fransesco – eccetera eccetera: privacy – an Italian journalist”. Ho pensato all’aplomb del giornalismo (e non solo) britannico e non mi metto a ridere. Mi hanno chiesto, prima del collegamento, che facessi. Ma non so mai cosa rispondere. “Journalist” l’hanno dedotto loro, non è né del tutto vero, né del tutto falso. Alla fine erano contenti. All is good what ends good. No, questo non l’ho detto. Poi cazzeggiamo ancora nel pomeriggio e andiamo a cena. Con il padre del mio fratello di parole. Mi chiedo se sia, quindi, il mio zio-di-parole. Lasciamo perdere.

Epilogo. Il giorno dopo: livin’ on the edge.

La mattina dopo ci salutiamo, io e lui (ciao), e vado a Termini. Stavolta facendo gli scongiuri. Ma non serve a niente. Treni pienissimi, Eurostar stracolmi, mi tocca l’Intercity.
Risultato? Cinque ore (che, dubitavate del ritardo del treno?) di viaggio in piedi. Ma non in piedi nel corridoio. In piedi tra il cesso e la porta scorrevole che sta tra uno scompartimento e l’altro. Un inferno. Che poi, in queste situazioni, accadono cose del tipo:

  • Il treno è popolato da ciccioni
  • Il treno è popolato da famiglie di ciccioni che si spostano portando cose ingombrantissime, tipo impianti da megaraduno techno, riserve di cibo e abiti per un anno, passeggini, falciatrici, reattori nucleari
  • Il treno è popolato da persone che credono che “più in là” ci sia posto. Quindi passano e ripassano. Alla prima passata fai notare loro gentilmente che è inutile. Ma loro rispondono con uno sguardo pieno di speranza. Quindi li fai passare, schiacciandoti contro le pareti del vagone e/o altre persone. Fanno un metro in là e poi ripassano (e tu ti devi schiacciare di nuovo) dicendo “Eh no, non si passa”.
  • Tutti fumano ovunque.

Beh, quest’ultima cosa accade anche altre volte… (Chi scrive è un fumatore, notate bene).

Sono arrivato a Bologna distrutto, alle 1530. Senza avere mangiato né bevuto e con poche ore di sonno, pochissime. Sull’autobus c’era un posto libero, uno solo. Non ho neanche pensato di sedermi. Mai perdere il ritmo.

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