gorizia

Andar di là – prima parte

Non so con precisione dove si trovi il reparto di ostetricia dell’ospedale civile di Gorizia, ma devo comunque essere nato al massimo ad un centinaio di metri dalla Yugoslavia. “Yugo”, la chiamavamo. “Sciavi”, li chiamavano.
A dodici anni ho avuto il lasciapassare, prepustnica, per allungare le passeggiate domenicali. Mia madre mi comprava le scarpe Adidas in un grande magazzino di Nova Gorica.

Andare in Slovenia passando da Gorizia è piuttosto particolare. Anche senza attraversare la piazza Transalpina, già definita “il muro di Gorizia”, anche se era una rete alta un metro che impediva lo sguardo alla bellissima facciata della stazione ferroviaria “di là”. Rete già presa a picconate da Fini nel 1989. Quello che ci frega, a noi italiani, è la voglia di emulazione.

Da piccolo sapevo parlare un po’ di sloveno. Avevo una donna che aiutava mia madre nelle pulizie (e mi sono sempre chiesto se fosse giusto, adesso ho smesso) che mi parlava in sloveno. Nelle scuole a Gorizia non si è mai insegnato lo sloveno. Forse adesso lo si insegna, ma fino a quando ero piccolo io, e c’era ancora la Yugoslavia, anche senza Tito, la Yugo era sciavi e pericolo rosso. Comunismo. Minaccia. Altro. Yughi. Tutta roba che non doveva esistere, e che veniva fortemente contestata da persone che avevano il padre, il nonno, o al massimo il bisnonno, sloveno.

Adesso mi ricordo solo qualcosa, e insegno qualche parola ai miei compagni di viaggio: hvala, prosim, dober dan, kruh, voda. Tanto per non morire di fame ed essere educati. L’altra cosa che insegno è la pronuncia: la c si legge z dura, la č c dolce, la ž come il suono “j” in francese, la š “sc”. E, con buona pace dei commentatori sportivi, si dice “kranska gora”, e non “kraniska gora”, perché la j in mezzo alla parola spesso non si legge. Gli accenti? Mistero.

Si andava di là, quindi, a passeggiare o a fare grandi mangiate, in una gostilna in cui la cameriera ti sciorinava il menù cantilenando, in quell’italiano così simile al goriziano e allo sloveno insieme, “domače”, “casalingo”, lo chiamano, alla faccia della purezza dell’italiano. “Gnoki con šugo rošto, conilijo, karne feri (o ferji, chissà), čevapčiči.” E poi si passeggiava per il Carso.

La zona del Carso è la prima che andiamo a vedere, e in particolare le grotte. Non quelle di Postumia, stupende e monumentali, ma quelle più nascoste e spettacolari di Škočijan, San Canziano, in italiano. In un antro di quel complesso scorre in un canyon enorme il fiume Timavo, un fiume che appare e scompare e riappare e scompare, giocando a rimpiattino tra la Slovenia e l’Italia.

Per me il fiume Timavo era una rupe con dei lupi in bronzo, sulla strada per Trieste, la costiera, una delle strade più belle e pericolose che abbia mai visto. E sotto c’era una frase di Virgilio, tratta dall’Eneide. Guardavo le parole in latino come in una striscia dei Peanuts Linus affermava di guardare soltanto e di non leggere i nomi russi de “I fratelli Karamazov”. Sapevo che lì sotto il Timavo si concedeva alla vista dell’uomo, per poi tornare sotto, nascosto, a scavare e a nutrirsi di roccia bianca. Virgilio sapeva dell’esistenza nascosta del fiume, e ne ha parlato. La cosa ancora mi emoziona.

Nessuno parla, invece, di quello che è accaduto prima della fine della seconda guerra mondiale. L’argomento dominante (e tremendo) sono le violenze titine nel 1945: anche loro, come il Timavo, hanno sfruttato gli anfratti carsici. Ma c’è altro, come l’ospedale partigiano di Franija, che ha preso il nome dalla dottoressa che l’ha diretto dal 1943 al 1945. Un miracolo di ingegneria, un ospedale tra le rocce, con tutto, dalla camera per le radiografie alla sala operatoria, dalla cucina alla centrale elettrica. I tedeschi non l’hanno mai trovato. I feriti vi venivano portati risalendo un torrente gelido. È la seconda volta che lo visito, e rimango sempre colpito dalla commistione di dolore e speranza che trasuda dalle baracche di legno.

“Potremmo andare a Lubiana”, si era detto con il mio fratello di parole, la sua mamma e la sua ragazza di allora quando sono stato a Franija per la prima volta. Alla fine non ci siamo andati. C’ero stato poco tempo prima con P. e, lo ammetto, eravamo rimasti colpiti da ogni tipo di bellezza che ci si presentasse davanti. Lubiana, per me, è una bella ragazza che sorride (e Guccini non me ne voglia se gli rubo la banale metafora).

Ljublijana è, prima di tutto, difficile da scrivere. Perdonatemi, quindi, se la chiamo Lubiana. Lubiana ricorda Gorizia, Trieste, Vienna e Praga, ma si è data qualcosa in più e qualcosa in meno. Non ha il mare ma ha la Sava, ha i turisti ma non sono così allucinantemente italiani come a Praga. E soprattutto respira, a differenza del rantolo di Gorizia. A Lubiana, come in tutta la Slovenia, ci sono giovani-che-fanno-cose. Hanno percepito la fine del regime, ma, per qualche miracolo, non sono andati tutti fuori di testa. Hanno sentito il mercato, ma, per un altro miracolo, sono rimasti attenti al loro patrimonio storico, culturale, e ambientale, soprattutto. A Lubiana l’italiano già non si parla più tanto: quasi tutti sanno l’inglese, e ti senti di essere in una capitale europea. Nello stesso tempo senti l’odore di casa, quell’odore che veniva “da là”, poco oltre la finestra della mia cucina.

Quando ci fu la dichiarazione d’indipendenza slovena, nel giugno del 1991, mio padre ancora lavorava in dogana. Gli dissero di mettere il giubbotto antiproiettile, e lui ce lo raccontava ridendo. Io ridevo un po’ meno. Poi ci fu la battaglia di Nova Gorica, ed esplose un carrarmato: la veranda di casa mia fu velata dal fumo e dall’odore di bruciato. I goriziani andarono in alto, su al castello, forse sperando di vedere qualche sciavo sbucherellato. Se ne andarono annoiati dopo un po’. La Slovenia non seguì la catena di massacri che si stava per compiere. Noi non andammo di là per un po’. Quando ci tornammo, la stella sulla bandiera era scomparsa, iniziammo ad imparare che quella era la Slovenia, non più “la Yugo”. Molti continuano a dire Yugo ancora adesso. Per distinguerla sempre e comunque dall’Italija, pardon, Italia.

Anche la Slovenia finisce un po’ prima del suo confine. C’è una zona che si chiama Prekmurije, cioè oltre il fiume Mura, una zona che per motivi geografici è molto di più legata all’Ungheria che alla Slovenia: i nomi sono diversi e sulla cartina stradale che abbiamo, esattamente come al confine con l’Italia, l’Austria e la Croazia, sotto a molti nomi di città ce n’è uno più piccolo, spesso con qualche zeta e gi in più. Niente più montagne, ma pianura. E le “tipiche fattorie a l” (come dice la Lonely Planet) sono ovunque e punteggiano una zona altrimenti perfettamente piatta. Alloggiamo in una di queste, che odora di legno ed erba. Vediamo un cavallo bianco, chiaramente un “lipizzano”, originario cioè di Lipica, una cittadina vicino al confine italiano. Vediamo anche due gattini, di cui uno malato e uno soriano. Un rospo. Ma capisco che siamo in Ungheria, perché sui pali, in alto, ci sono le cicogne.

Sono stato a Budapest per la prima volta nel 1986, credo. Era la festa nazionale, ci davano mele verdi in ogni negozio. Ne ho mangiate due. Non ho capito molto, all’epoca.
Ci sono tornato dieci anni dopo: le cose erano notevolmente cambiate. Quella volta, però, non ho visto le cicogne, che invece mi avevano affascinato, forse anche grazie ai miei otto anni. Avrò pensato ai bambini portati da questi enormi uccelli? No, perché, lo ricordo bene, nel mio librino di educazione sessuale, prima di “mammaepapà” c’erano le api (davvero!), i cani (giuro) e, appunto, “mammaepapà”.

continua

C'è modo e modo

L’altro giorno ho chiamato l’Automobile Club d’Italia della città estramemente orientale che mi ha dato i natali per avere delle informazioni sul viaggio che farò in Slovenia la prossima settimana. In particolare ho chiesto se bisognava davvero tenere con sè un documento particolare: pare infatti che non sia il caso di viaggiare su una macchina che non è intestata ad uno degli occupanti, anche se è di proprietà, per esempio, della madre di uno dei passeggeri. E la madre lo sa, si intende.
“Sì, bisogna farlo”, mi dice l’impiegato.
“Capisco”, dico io. “Ma immagino sia consigliabile averlo, ma non obbligatorio…”
“Sì.”
“Quindi, diciamo, se non ce l’abbiamo dietro si rischia qualche casino…”
“Sì”, dice l’omino, “ha detto bene, si rischia. Condizionale.”
Ma forse ho capito male e si è mangiato delle parole, tipo “unapenafinoaseimesiconla”.

Di |2005-07-27T12:37:00+02:0027 Luglio 2005|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |6 Commenti

MeDCna per l'anima

Come reazione alle varie ipotesi di una rinascita democristiana ho avuto una specie di dolore intenso, che però, poco dopo, ha lasciato spazio ad una strana e impalpabile sensazione di calore.
Ho tentato di capire che cosa fosse, razionalizzandola, cercando di circoscriverla, ma ho compreso tutto d’un tratto che cosa fosse.
In questo momento tremendo, in cui noi giovani adulti, nati verso la fine degli anni settanta, non abbiamo lavoro, o se ce l’abbiamo è precario, non abbiamo certezze, non abbiamo punti di riferimento né politici, né culturali, né sociali, una sola cosa ci può salvare: la Democrazia cristiana. Ma sì, vi ricordate? Eravamo piccoli, tutto sembrava meraviglioso, avevamo i giochi di società e le partite a pallone nel cortile sotto casa, e il telegiornale parlava di Pentapartito, e noi imparavamo che penta voleva dire cinque in greco, come Canale 5, e lo sapevamo dire anche in spagnolo e francese, cinque, cinq, la cinco!
E c’era la diccì, o di ci, o DC, e nessuno sapeva perché: c’era e basta, da sempre, e ci sarebbe sempre stata, immobile, paludata, l’immagine della politica sulla quale adagiarsi, o il simulacro del bersaglio di infinite crudeli battutine, l’imitazione di De Mita, facilissima da fare, bastava nasalizzare tutti suoni, e Andreotti e la sua gobba, e Fanfani è un nano. Il CAF, unico caso al mondo, credo, di sigla che unisce il nome di tre politici, ovviamente se escludiamo gli Abba, che però erano in quattro.
E poi Craxi, il benessere, la forma di edonismo meidinitali importato dagli Stati Uniti, David Hasselhoff ospite al Drive In, Arnold (alto quanto Fanfani, ah ah) ospite al Drive In, Piersilvio Berlusconi ospite al Drive In. Le tette, il grande centro, la destra e la sinistra, la falce e martello, lo scudo crociato, il garofano, il culo di Tinì Cansino, il sole che sorge, l’edera, il plì, Donat Cattin, che qualcuno pronunciava alla francese, qualcuno all’italiana, metallari da una parte, paninari dall’altra, Goria e Andreatta, Longo e Martelli. Tutti dicevano che tutti rubavano, sfiorando l’autodenuncia. Chi non rubava, prima o poi, era costretto ad adeguarsi, e chi parlava, parlava, ma non aveva le prove, e dopo un po’ smetteva. Ma grazie alle linee essenziali ed eleganti dettate nel dopoguerra, ancora attualissime, mai demodè, tutto il mondo era chiaro e semplice.
Facile, chiaro, limpido, Recoaro? Fiuggi e la sua svolta erano lontano, qualcuno chiamava l’emmeesseì “mis” e io non capivo perché, ma sapevo che quelli erano fascisti, senza ma e senza post, e io vivevo in un capoluogo di provincia democristiano, e il padre del mio compagno di banco era democristiano, e il nonno del mio compagno di banco era democristiano e bestemmiava, proprio come i miei vicini, democristiani, che andavano a messa, ma bestemmiavano prima o dopo, mai durante. Tutti abitanti di un paese democristiano, un paese che democristiano sarebbe sempre stato, qualunque cosa fosse successa.
Rivoglio la DC, mi dà sicurezza: una madeleine enorme nella quale vivere, protetti e al caldo, facendo opposizione rigorosamente dall’interno e mangiandone un pezzettino, di tanto in tanto, ma solo per pura golosità.

RicordaRivoluzioni

Sento per bene solo adesso, dopo mesi dalla sua uscita, il disco d’esordio degli Offlaga Disco Pax, Socialismo tascabile (prove tecniche di trasmissione).
I richiami musicali sono evidenti: senza sforzarsi troppo, viene subito in mente lo stile dei CCCP, quello più parlato e meno legato al punk. Ma il richiamo è solo superficiale, e non può andare più a fondo, se vogliamo guardare bene, perché sono passati degli anni importanti.

I CCCP suonano sentendo nell’aria la caduta del blocco sovietico: descrivono il mutamento in atto sotto i loro occhi, cosa difficilissima, e tentano di fissarne alcuni punti, tra un pezzo e l’altro dei loro dischi.
Gli ODP iniziano a suonare quando l’89 è passato da un pezzo. La loro operazione, quindi, è dichiaratamente un recupero della memoria, dell’Italia socialista (e quanto è difficile ormai associare il nostro paese a questo aggettivo senza pensare a Craxi bersagliato di monetine fuori dall’hotel Raphael, almeno per chi, come me, è nato alla fine degli anni ’70), dell’Emilia rossa, la stessa regione – ma decisamente non gli stessi luoghi – nella quale vivo da quasi dieci anni. Cavriago, un paese alle porte di Reggio, come capitale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Italiane. Cavriago e la sua via Carlo Marx, e il busto di Lenin, tuttora sindaco onorario del paese.
L’infanzia aromatizzata al cinnamon, i racconti di partigiani narrati dagli stessi partigiani, il partito comunista al 70, ma anche 80 per cento.
Gli ODP sanno che tutto questo non esiste più, non si rifugiano nel ricordo, lo evocano, con oggetti, sapori, frasi, toponomastiche, in un’operazione che non può non ricordare quella di Matteo B. Bianchi (e di altri prima di lui). E non si vergognano di usare parole come socialista, nel senso vero del termine, di chiamare la figlia del sindaco “compagna”, ma senza il sorrisetto ironico che usiamo “noialtri”, nati irrimediabilmente post.
Ma non pensiate che gli ODP siano seriosi: come tutte le persone intelligenti usano l’ironia nelle giuste dosi, quando più serve, e, prima che suonare, scrivono dei racconti bellissimi che hanno forza evocatrice per tutti. Anche per me, così lontano da tutto questo.

Penso a me, da piccolo, nella sezione del Partito comunista, in una città che rimarrà sempre e comunque democratico-cristiana, anche quando il primo di questi due termini perderà irrimediabilmente di significato. Penso a me più grandicello, che raccolgo firme nel corso della cittadina e prendo insulti, o, quando va bene, occhiatacce. Penso a me, che sogno l’Emilia cantata dai CCCP, e invece mi trovo a due passi qualcosa che sta cambiando, la Slovenia, della quale non riesco ad avere un’occhiata approfondita e critica, perché tutto è troppo veloce, rapido, e si muove al ritmo schizoide, fatto di esaltazione e depressione, delle droghe sintetiche che sono così diffuse tra i miei coetanei “di là dal confine”. Penso a me a Bologna, appena arrivato, e a come sguazzo in quello che apparentemente mi sembra un “mondo giusto”, ma che in realtà è, anch’esso, drammaticamente in fase di rapida mutazione.

Penso che, di un sacco di cose, non ho i miei ricordi, ma quelli degli altri.
Grazie, Offlaga Disco Pax, perché mi avete regalato una nostalgia di cui posso appena distinguere i contorni.

Se non conoscete gli ODP, manderò qualche loro pezzo stasera a Monolocane. In diretta dalle 2230 sulle frequenze di Città del Capo – Radio Metropolitana, o in streaming qui o qui.

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We'll always have Paris

Ebbene sì. Me ne vado per una settimana a Parigi. A cazzeggiare, eh, che di lavoro mica se ne parla.
Il mese di maggio si annuncia denso di impegni e appuntamenti.
Intanto vi ricordo che il 16 maggio c’è il Blogpark, a Bologna. Iscrivetevi, venite, partecipate.
Il 21 maggio c’è il Blogrodeo. Come sopra.
In mezzo, come al solito, farò blogdormite, berrò blogaperitivi, leggerò bloglibri. Argh.
Devo dire che, però, mi dispiace non essere in patria per il primo maggio. Non solo mi perdo la festa a Gorizia per l’entrata della Slovenia nell’Unione europea, ma non sarò al concerto dei Radio Dept. al Covo. Polaroidi ed Ink, siete stati grandi, veramente. Sono lì con voi con il cuore. E una baguette in mano. Fatemi sapere com’è andata.
Mi dispiace, insomma.
Ma, alla fine, ho sempre Parigi, no?

25 aprile

Sentivo di più questa data fondamentale per la nostra storia (e intendo anche per la storia della mia generazione) quando ero ancora a Gorizia. E so anche perché. Per la vicinanza fisica e opprimente della Risiera di San Sabba. Evito ogni tipo di retorica, e vi prego di farlo anche nei commenti. Anche se, visto come vanno le cose in Italia, sarebbe giusto ricordarsi e ricordare ogni giorno, non soltanto durante le “feste comandate”.

Non so chi sia la persona che ho fotografato alla Risiera una delle tante volte che ci sono andato, il 25 aprile 1998. Ma di tutte le foto che ho fatto là questa è quella che mi sembra più forte.
Non dimentichiamo.

Di |2004-04-25T03:16:00+02:0025 Aprile 2004|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |8 Commenti

Trippin' (Back Home)

Quando torno nel piccolo posto nordorientale che ha visto le mie origini, una delle (poche) cose belle è vedere i miei amici. Passo una bella prima parte di serata parlando con M. ed S. di amicizia, sesso, politica, transumanza e amore (non in quest’ordine – e per quanto riguarda la transumanza: ognuno ha i suoi hobby). Poi S. se ne va, e vado a bermi l’ultimo bicchiere (citazione dotta) con M. Parliamo tranquillamente e piacevolmente solo di donne (ora capite che M. è maschio e S. è femmina, vero?) quando arrivano tre amici di M., completamente ubriachi. Si siedono al tavolo con noi, e uno, il più molesto di tutti, prende di mira me. Mi trovo per un quarto d’ora in una brutta esperienza da LSD. Tento di riportare il dialogo così com’è stato.
“Non sei di qua”, approccia lui.
“No, ma sono nato qua. Vivo a Bologna da anni…”
Come per magia, quando si nomina Bologna…
“E figa, ce n’è?”
Che palle. “Mah, ci sono molte ragazze carine”, abbozzo.
“E bevono?”
Rimango interdetto.
“Dico: i muli lassù (sic) bevono?”, precisa.
“Beh, beviamo, sì, andiamo fuori a bere.”
“Sì, ma i bolognesi bevono?”
Mi sembra di parlare con un agente dell’ISTAT.
“Io di bolognesi ne conosco pochi, a dire il vero”, rispondo, mentendo in parte. E c’è un attimo di pausa.
“Francesco, eh?” riapproccia lui.
“Mm.”
“Come DJ Francesco. Ti piace DJ Francesco?”
“Veramente no”, faccio io. Lui alza il pollice.
“E che musica ascolti?”
Ora, io, ad una domanda del genere non so mai cosa rispondere. Come quando mi chiedono quale sia il mio regista preferito. Preferirei mi chiedessero di colori preferiti, o se mi piace la pizza. Faccio il vago mugolando. A quel punto lui mi chiede in successione se mi piacciono: i Radiohead (sì), i Rage Against the Machine (sì), Ambra Angiolini (dico sì e lui alza il pollice), Guccini (no), De Gregori (qualcosa), De Andrè (“Lo conosco poco, dico io”: il pollice si abbassa), i Metallica (sì), i Ramones (sì), i Blink 182 (no, e il pollice si rialza).
“Io gli voglio bene, a Francesco. Quanti anni hai?”
“Ventisei”, dico io arrossendo, emozionato per l’amor appena suscitato.
“Trentasei?” dice l’altro amico ubriaco al mio fianco.
“Ventisei”, dico io. E lui continua a raffica, come il compare di prima, chiedendomi se mi piacciono alcuni dei suoi amici (di cui io ignoro l’esistenza), chiamandoli per soprannome.
Il mio amico, nel frattempo, parla di jazz con il terzo ubriaco.

Rivoglio Tette, Torri e Tortellini. Subito.

Daniele 2,44 – Un post con poco senso (compiuto)

Il viaggio di ritorno da Milano è stato strano, oggi. Il treno pieno di persone che sono abituate a prenderlo, pendolari che fanno ogni giorno la tratta Milano-Bologna. Senza arrivare alla fine, ovviamente: chi vivrebbe a Bologna e accetterebbe un lavoro a Milano (ehm ehm). Io scrivo delle e-mail sul portatile, poi alzo gli occhi e vedo il treno completamente vuoto.
“Dove sono tutti? Che succede? Dove siamo?”
Mi capita spesso di perdermi in un libro o in qualcosa che scrivo (non so perché ma non dormo mai in treno) e di non rendermi conto che la gente scende. Mi rendo conto di quella che sale, ma non di quella che scende. Quando vado a Gorizia è un classico: fino a Udine qualcuno c’è, ma a Gorizia praticamente scendo solo io. Città fantasma. Quando mi rendo conto di essere solo, giro per i posti vuoti, vedendo cosa la gente ha lasciato. Ci sono soprattutto giornali. L’ho fatto anche stavolta. Ho visto qualche copia del Corriere della Sera, un paio di Repubblica, una copia del Giornale (incredibilmente tra i titoli non ho trovato la parola “comunisti”) e una copia del Corriere Adriatico, che, a quanto recita la testata, esiste dal 1860 e rotti. Titolo principale: forse il croato arrestato a Senigallia, responsabile dell’omicidio di un tassista, è la stessa persona che ha ucciso un tassista a Trieste. Quindi sulla prima pagina del Corriere Adriatico non compariva la parola “comunisti”, ma l’espressione “serial killer”, quella sì. Il fatto del serial killer presunto, aggiunto al fatto che ero da solo su quel treno che correva nella notte, mi ha tanto ricordato la prima meravigliosa sequenza di Nonhosonno. Mi sono guardato intorno guardingo. Una donna in fondo al vagone mi scrutava.
Scendo dal treno e una persona dietro di me mi dice con accento straniero: “Bologna?” e io annuisco.
Nel sottopassaggio della stazione ci sono due punkabbestia che nutrono un cane versando del cibo da una scatoletta su un cartone della pizza.
Alla fermata dell’autobus mi si avvicina una signora che, con pesante accento bolognese, mi chiede se voglio leggere qualcosa. “Spaccio di libri?” penso divertito tra me e me. E invece no. Mi offre “Torre di Guardia”, il periodico dei Testimoni di Geova. “No grazie” dico io e dicono gli altri che aspettano l’autobus. Alla fine la signora attacca discorso con una donna probabilmente di origini africane. Colgo solo alcune parole del loro dialogo “Noi credenti” “Siamo diversi” “No grazie”. L’ultima cosa che sento dalla signora testimone di Geova è “Daniele due quarantaquattro”. Sono andato a cercare il versetto:

Al tempo di questi re il Dio del cielo farà sorgere un regno, che non sarà mai distrutto; questo regno non sarà lasciato a un altro popolo, ma frantumerà e annienterà tutti quei regni, e sussisterà in eterno.

Fra qualche ora torno a Milano. Mi scoccerebbe succedesse qualcosa di imponente, proprio ora che sono alla fine delle mie lezioni.

Di |2003-12-18T00:38:00+01:0018 Dicembre 2003|Categorie: Lady Madonna|Tag: , , , , , , |5 Commenti

Un weekend postmoderno

Domani, finalmente, inizierò il seminario nella nota-università-con-le-scale-mobili. Ovviamente il mio portatile non si poteva fare sfuggire la ghiotta occasione, e quindi adesso ha deciso che ogni volta che c’è un’animazione in PowerPoint lui emette un rumore che, perdonatemi, assomiglia a quello di un peto con sordina. “Prrfft”. Gli studenti saranno entusiasti, e inizieranno a sghignazzare, sempre composti nei loro abitucci firmati e senza che un filo di trucco si sposti. Se mi chiederanno dove ho scaricato l’incredibile petosuoneria, indicherò loro questo sito. Sconvolgerò le loro abitudini-per-bene? O mi troverò ad ordinare orrendi cocktail alla fragola con loro?

Nei giorni passati ho tenuto tre incontri in tre scuole diverse. Momenti topici:

  • alla fine di una lezione a Gorizia, posto dove sono nato e ho vissuto fino a qualche -sette- anno fa, si avvicina un giandone di due metri e mi dice: “Ciao Francesco, forse non ti ricordi di me, sono F., il fratello di F., eravate amici da piccoli”. Quando io e F. ci frequentavamo, F. era piccolo piccolo, e secondo me manco molto sveglio. Non so se adesso sia sveglio, ma mi avrebbe potuto uccidere con una mano. Speriamo che non si ricordi di eventuali mie prese in giro che possano avere turbato la sua infanzia;
  • incontro a Udine; i ragazzi hanno letto un mio racconto che si intitola “Puttana” e parla di un ragazzino la cui madre fa la prostituta, appunto. Una ragazza alza la mano e mi chiede: “Il racconto è autobiografico?”;
  • durante l’incontro a Trieste mi sono portato dietro V. , e l’ho presentato, ridacchiando, come la “mia guardia del corpo”. In una pausa una ragazza viene da me e mi fa: “Ti posso chiedere una cosa? Ma tu e la tua guardia del corpo siete fratelli?”

Ho visto amici a Gorizia, ho sbevazzato allegramente, stimolando la parte friulana che evidentemente da qualche parte alberga (o bivacca) in me. E ho anche mostrato a V. la cassapanca. Mi sono commosso anche io, era anni che non rivedevo il comodo giaciglio.
Sono anche andato al Chocofest di Gradisca d’Isonzo, una cosa quanto meno imbarazzante. Soprattutto la Chocogallery, e il Palachoco. Mi sembrava di stare a Topolinia o nella città dei Puffi. Nel Palachoco la situazione è agghiacciante. Non è né più né meno che un tendone da giardino sotto il quale ballano qualche orripilante melodia discolatina tre elementi. Il Maestro di Cerimonie (M.C.), una mamma e la sua bimba. Il resto della gente guarda e sorride, forse inebetita dalla cioccolata. Mi sposto, ma nella Chocogallery (identica al Palachoco, solo di forma allungata) l’M.C. della situazione urla in un microfono cose come “No alla dieta” (giuro).

La settimana è però iniziata male. Svegliatomi il lunedì mattina, dopo cinque minuti cinque vado in cucina, dove i miei sorseggiano caffè pensierosi. Piccola premessa. Da qui al ventuno dicembre sarò sballottato qua e là come una palla da flipper, saranno giorni intensi e faticosi. Con questo pensiero sono andato in cucina per iniziare questa settimana.
“Ngionno”, faccio io, forse ancora un po’ ubriaco.
“Buongiorno”, dicono loro. E, subito dopo, con dei tempi che manco Ben Johnson quando diceva “Ma che me frega, me pijo anche ‘ste artre pillolette, anvedi che scatto poi”, aggiungono: “Sai, il tuo conto in banca è un disastro”.
Tento di ricominciare da capo, pensando che a volte quando il portatile mi si blocca, basta resettare.
“Ngionno (dicevo)”
“Ma dove li metti i soldi?”
Ho tentato inutilmente di premere alt+ctrl+canc, ma non c’è stato nulla da fare.

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