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I Presidenti

Nell’ultimo numero di Segnocinema c’è un bellissimo approfondimento sull’idea di nazione e nazionalità nel cinema italiano, uno dei più interessanti che la rivista abbia ideato negli ultimi tempi, a mio avviso. In un articolo si citava uno dei protagonisti di Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo agghiacciante film di Pasolini: viene chiamato il Presidente, ed è uno dei quattro simbolici uomini di potere che gestiscono le torture e le azioni del film. Una delle caratteristiche del personaggio che avevo completamente dimenticato, e che l’articolo mi ha fatto tornare alla mente, era la sua mania di raccontare barzellette.

E allora ho fatto un montaggio, un po’ raffazzonato.
[youtube=http://youtu.be/tWzTX4OD8_E]

Back to the USA

Considerando che non posso permettermi un nuovo viaggio negli Stati Uniti, mi riferisco al fatto che Maps, la trasmissione che conduco dal 2007, è di nuovo sbarcata in America, con l’intervista a Mark Stewart di cui ho parlato anche in questo blog. Il ringraziamento va ovviamente a J. (ora in tour proprio colà) e a P. che è stato al mio fianco, camera in mano, a sopportare tutto quanto.

Mother Francesca comes to me…

Quando, tre anni fa, ci fu il via libera all’uso negli spot delle canzoni dei Beatles, ipotizzai delle applicazioni turpi delle stesse, a seconda del prodotto da commercializzare. Ma la pubblicità (firmata da Sam Mendes) della Telecom non ha nell’uso di una pessima cover di “Hello, Goodbye” il suo difetto peggiore.

Che noja (con la “j”) mortale: come si fa a creare uno spot da 50″ in cui dal primo istante sai di cosa parlerà, come lo farà e come andrà a finire?

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Di |2011-03-08T08:00:00+01:008 Marzo 2011|Categorie: Glass Onion|Tag: , , , , , |4 Commenti

Words disobey me

Intorno alla metà del 2010 siamo venuti a conoscenza che il Pop Group era tornato e che avrebbe suonato una delle pochissime date di un mini-tour a Bologna. Con la redazione di Maps ci siamo, ovviamente, messi a caccia di Mark Stewart, uno dei personaggi più bizzarri e potenzialmente controversi della musica degli ultimi trent’anni.
Eravamo davvero emozionati dalla possibiità di vedere la band dal vivo e di realizzare una delle prime interviste con Stewart di nuovo alle prese con il Pop Group, una band che ha realmente avuto un effetto devastante sulla musica cosiddetta “post punk” relativamente ai due soli album prodotti, nel 1979 e 1980.

Settembre 2010: è il giorno prima del concerto e abbiamo appuntamento al Locomotiv, il club che ospiterà il live. L’appuntamento per l’intervista (richiesta e ottenuta come intervista video) salta. Panico. Arriva la telefonata da uno degli organizzatori: “Tra dieci minuti va bene?”. No, non ce la possiamo fare fisicamente. Chiediamo un posticipo e lo otteniamo. Ma l’incontro è da tenersi in una lavanderia a gettone. “Eh?”, dico io. “Eh”, dicono dall’altra parte e mi danno l’indirizzo del posto.
Arriva il fido P. e saltiamo in macchina, diretti al Locomotiv, quando arriva un’altra telefonata: Mark Stewart è ancora nel locale che fa le prove. Lo intervistiamo là. Il Pop Group è sul palco, ma mi costringo a non prestare troppa attenzione a quel che sento, perché non voglio rovinarmi la sorpresa della sera.
Mark Stewart è enorme: non come statura artistica, ma fisica. Sapevo che fosse imponente, ma non credevo lo fosse a tal punto. Un omone, che scende dal palco, non saluta nessuno, vede P. che fa prove di esposizione con la macchina digitale e gli dice molto bruscamente che non vuole scatti. P. dice che non sta facendo una foto, ma Stewart lo interrompe ancora e se ne va.
Arriva il fonico del concerto, un amico: “Simpatico, eh? Lo stavo mandando a quel paese, prima, per come mi ha risposto.”
Benissimo: questo primo approccio non è buono, per usare un eufemismo.
Gi organizzatori ci dicono che l’intervista si svolgerà fuori dal locale. Noi ci sediamo a un tavolino, aspettando Mark Stewart, che non si sa dove sia. Finalmente arriva, ordina un tè, sempre senza degnare nessuno di uno sguardo, capisce che l’intervista è video e dice di non poterla fare, perché non ha magliette pulite. Noi cerchiamo di ribattere, ma lui dice che lo possiamo portare in una lavanderia (quella del primo appuntamento, ecco perché!) e fare l’intervista là. Ci alziamo quando il povero organizzatore esce dal bar vicino al club con un vassoio e un tè. Stewart riesce a dire al tour manager “Pagalo” e poi ci guarda, come per ordinarci di affrettare il passo.
In macchina Stewart mi chiede di anticipargli delle domande. Sono domande normali, a mio avviso: mi sentivo preparato, poi, che c’entra, sono il giornalista che sono. Comunque: l’omone, seduto sul sedile posteriore, mi costringe a torsioni del collo per comunicargli le domande. Dopo la prima, mi dice “Rubbish”. Monnezza. Non risponde neanche. “Passa alla seconda”, dice, con aria di sufficienza.
Ma anche quella non gli va bene. Al terzo rifiuto, mi altero io. “Scusi”, gli chiedo, “ha intenzione di essere collaborativo o no? Perché quest’intervista non è obbligatoria.” Per la prima volta Stewart si ammorbidisce un po’, e, in pratica, mi spiega perché secondo lui le mie domande erano monnezza.
Il mio errore era stato usare termini a sproposito che identificavano la mia visione del mondo (sbagliata) come assai lontana dalla sua (giusta). In quel momento, sentendolo mentre esponeva le sue visioni, ho pensato ad alcuni articoli di “Lotta Comunista”: in confronto alle parole di Stewart mi sembravano pericolosamente riformisti. Mentre ci fa il bignami del pensiero leninista, Marx Stewart ci dice anche che percorso (stradale, oltre che politico) fare, scocciato perché secondo lui avevamo sbagliato strada. Io vivo a Bologna da quasi quindici anni e P., alla guida, la conosce in lungo e in largo, perché è nato poco fuori. Ma con noi c’era Maps Stewart: lui sapeva dove andare.
Arrivati nei pressi della lavanderia, ci ha chiesto di farlo scendere e di portargli un caffè, una volta che avessimo trovato parcheggio.
Quando è uscito dalla macchina, abbiamo pensato sinceramente di andarcene, di piantarlo lì. Tanto sarebbe tornato facilmente, no? E inoltre la voglia di assistere al concerto si era molto affievolita.
Invece abbiamo deciso di raggiungerlo in lavanderia (senza portagli il caffè) e, una volta accesa la camera digitale l’omone è diventato un altro: uno showman capace, tosto di carattere, a suo modo quasi affascinante. E il concerto è stato bellissimo.
Pubblichiamo oggi su Maps e SentireAscoltare la prima intervista mondiale sul nuovo corso del Pop Group. Lo dice lui alla fine del filmato, non io, che è la prima. Fatemi sapere se ne è valsa la pena. E soprattutto se sono irrimediabilmente diventato un lurido borghese conservatore anch’io.

Guardare e non parlar(n)e

Da dieci anni, ormai, per me vedere un film è legato, nella maggior parte dei casi, a doverne poi parlare o scrivere. Questa volta, però, non farò altro che consigliarvi questo film: si chiama L’uomo fiammifero, ed è diretto da Marco Chiarini, un giovane regista abruzzese. E’ una fiaba, un film dichiaratamente per ragazzi, che ti incanta dopo dieci minuti e di cui, alla fine, ami anche le imperfezioni. E’ un film finanziato dagli spettatori, che ha attratto anche Francesco Pannofino (interpreta uno dei ruoli principali), che trabocca di trovate e fantasia. E’ un film artigianale, senza essere post, avant, chic: è artigianale come una sedia o una mortadella. Roba, insomma, che esiste solo per lo scopo che ha.

Marco Chiarini, con L’uomo fiammifero, vuole raccontare bene una bella storia con i mezzi del cinema. E ci riesce alla grande. Anni fa, nove per la precisione, mi è capitato di condividere una stanza con Marco e altri, in occasione del Sulmona Film Festival. Mi dispiace di non ricordare alcuni momenti precisi: di Marco mi sovviene solo un umorismo surreale e continuo nei confronti del mio cognome, che venne infine scomposto e ridotto a pura sequenza di suoni tale che la sua ultima mail, di sei anni fa, eh, inizi con “Ciao Roland Garros, come stai?”. A Sulmona Marco ci è tornato l’anno scorso, e si è portato a casa il Premio della Giuria. Qualche mese prima era tra i candidati al David di Donatello come miglior esordiente.
Ricordi personali e riconoscimenti ufficiali a parte: vedetevelo. L’altra sera mi ha letteralmente risollevato da una giornata faticosissima. Anche solo per questo mi ci sono già affezionato.
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Di |2011-02-22T08:00:00+01:0022 Febbraio 2011|Categorie: Act Naturally|Tag: , , , , |0 Commenti

1994-2011

Le date che danno il titolo al post non riguardano l’inizio e la fine dell’era Berlusconi. Ma figuriamoci. Non capisco la gioia e il tripudio per le ultime notizie. Sarà che sono pessimista. No, queste date riguardano la prima imitazione di Emilio Fede fatta da Guzzanti (Corrado, sai mai) e il presente. Come dicono molti dei commenti al video di YouTube che pubblico qua sotto, “non è cambiato un cazzo”. Ho rivisto di recente le prime puntate di “Tunnel” grazie a provvidenziali registrazioni su VHS. Sembra di vedere un’altra televisione, ma nello stesso Paese.

[youtube=http://youtu.be/BMWlgA1HJGc]

Usare le armi del nemico per combatterlo

Come sempre accade, gli spazi pubblicitari della finale del Superbowl sono costosissimi, perché garantiscono un’audience enorme e inamovibile. Tutto ciò che ruota intorno alla finale, show musicali e spot compresi, ha un’eco mediatica subitanea. Per questo spesso le grandi aziende hanno lanciato dei loro prodotti con uno spot che ha avuto la sua “prima” in quell’occasione.

La Motorola ha presentato un tablet, che è forse l’unico reale concorrente possibile dell’iPad, con uno spot trasmesso durante la finale di un paio di sere fa. Questo.

[youtube=http://youtu.be/8BPFODsob1I]

Nella finale del 1983 la Apple lanciò il suo primo personal Macintosh con uno spot famosissimo diretto da Ridley Scott. Questo.

[youtube=http://youtu.be/HhsWzJo2sN4]

Una bella nemesi, ma con il concept del concorrente, seppur genialmente stravolto.

Di |2011-02-08T08:00:00+01:008 Febbraio 2011|Categorie: Glass Onion|Tag: , , , , , , , |0 Commenti

Giochiamo che…

Venerdì ho visto uno spettacolo che mi ha fatto rimanere con gli occhi spalancati sul palcoscenico, tranne quando li ho asciugati per le risate sguaiate che ciò che vedevo mi provocava. Si chiama Duel, ed è opera di due straordinari musicisti, Laurent Cirade al violoncello e Paul Staïcu al piano. In un’ora e venti i due hanno letteralmente giocato con la musica, suonando in maniera bizzarra i rispettivi strumenti (a cui si sono aggiunti un violino, un didjeridoo, diverse percussioni e una specie di celesta), ma trasfigurando gli stessi. Per cui il violino è diventato un poppante, il pianoforte un bancomat, il violoncello una chitarra, uno spiedo da arrosto e una donna da conquistare. Lo stesso trattamento è stato riservato alla musica, da Mozart a Lou Reed, da Boccherini a Grieg: tutto scomposto, rimescolato, usato per giocare, appunto.
Lo spirito di Duel è esattamente quello del gioco più puro, del “fare finta che”, del recitare (jouer). E ciò che i due destano è meraviglia, stupore e fascinazione totale. Da domani sono a Milano: non perdeteli.

[youtube=http://youtu.be/VwZv7iq_PW0]

Di |2011-02-07T08:00:00+01:007 Febbraio 2011|Categorie: Act Naturally|Tag: , , , , , , , |0 Commenti
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