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Dagli archivi: La perfezione degli oggetti – Osservazioni a latere di Terra di confine

Open Range - Terra di confine

La visione dell’ultimo bellissimo film di Kevin Costner porta con sé alcune riflessioni. Si può partire, volendo, dalle considerazioni sul genere, ovverosia su come Costner si rapporti al western. Terra di confine è un film classico, prima che un western classico. Nessuna rivisitazione postmodern(ist)a: cavalli, campi lunghi, pistole. Ma il film, allo stesso tempo, ci dà una visione quotidiana della vita che manca nella gran parte dei film del genere. Tutta la prima parte, giustamente lenta, non è altro che un diario minuzioso di ciò che veramente è e fa un cowboy: portare le mandrie al pascolo, pulire i piatti dopo aver mangiato, ripararsi dalla pioggia aspettando che passi, rintracciare la mandria dispersa dopo il temporale. Una routine che i protagonisti Boss e Charley conoscono bene, e che per gli altri due del gruppo è ancora, tutto sommato, qualcosa di nuovo ed eccitante, fonte di scherzi e allegria.

Ma il film di Costner si distanzia da altri western anche per la concezione dello spazio, non dal punto di vista filmico, ma storico. Partiamo dal titolo: Open Range vuol dire letteralmente “campo aperto”. E si usa in inglese l’espressione “range cattle” per indicare il bestiame che pascola liberamente, quello degli allevatori nomadi, come vengono chiamati nel film.

Il punto è che i campi non sono più liberi, ormai gli Stati Uniti iniziano a pensare alla proprietà privata; il problema non sono più i nativi ai quali rubare le terre, ma il possesso delle terre stesse e la loro spartizione. Due inquadrature sono fondamentali a questo proposito.

La prima ci mostra un campo lungo con in primo piano un filo spinato, a fuoco. La seconda ci dà l’unica indicazione temporale del film: è il 1882 inciso sulla “lapide” di Mose. Questi elementi non sono affatto marginali. Il campo inizia a non essere più aperto, ma recintato: per questo motivo ci saranno molti problemi tra gli allevatori nomadi e i primi “rancheros”.

E poi l’anno di ambientazione del film: il ‘900 è ormai vicino, l’anno dopo verrà inaugurato il ponte di Brooklyn e il prezzo di un francobollo verrà ridotto a due centesimi di dollaro. Sono le comunicazioni interne che interessano agli Stati Uniti, tant’è che nell’anno successivo ci sarà un’importante accordo con il Canada per la standardizzazione degli orari ferroviari. La frontiera non ha più alcun senso come limite da superare, ma inizia ad essere considerata come limite da non far valicare: non è rimasto nulla da scoprire.

C’è un ultimo punto da considerare: l’importanza degli oggetti, non tanto quelli dei cowboy (c’è solo un brevissimo scambio di battute sul tipo di pistola che i protagonisti usano), ma quelli domestici, dell’ambiente che funge da sogno (proibito) dei personaggi principali.

La casa del dottore e di sua sorella, non per niente, rimane un luogo estraneo a tutto il resto, una specie di bolla spazio temporale o di parentesi, invasa e corrotta da ciò che vi sta fuori solo alla fine del film. Quando i cowboy si informano sullo stato di salute del loro giovane amico “ricoverato” nella casa, non entrano per non sporcare per terra.

E poi: Charley rimane affascinato dal servizio da the di Sue, e l’unico pensiero prima di affrontare la sparatoria finale è quello di fargliene avere uno uguale, dopo avere distrutto per sbaglio il suo. E cosa fa il personaggio interpretato da Costner? Sceglie il modello su un catalogo: il commercio per corrispondenza (in senso lato) inizia adesso, e le inquadrature insistite sugli oggetti che vengono messi in vendita sono importanti, testimoniano un’altra forza modernizzatrice degli USA, uno dei vettori portanti del “progresso”.

Le importazioni di prodotti sono segnale della stessa cosa: i dolci migliori e i sigari migliori, ultimi desideri che si concedono Charley e Boss, vengono dalla Svizzera e da Cuba. Gli oggetti in genere, quindi, potremmo dire le merci, sono uno dei fulcri intorno ai quali ruota Terra di confine che, non per niente, si chiude su un lento dolly che va a finire proprio sul servizio nuovo di Sue.

Perfetta nella sua immobilità, la porcellana è un perfetto contraltare a una delle sparatorie più belle viste in un film di recente: una sparatoria, come si diceva giustamente sul penultimo numero di duellanti, in cui i corpi cadono pesantemente per terra, si sbaglia la mira, la mano trema. Una sparatoria vera, insomma, per un film che vuole essere legato alla realtà, al quotidiano e quindi agli oggetti, che rappresenta il momento delicatissimo di passaggio dall’America di frontiera all’America del consumo.

Articolo originariamente apparso su duellanti, aprile 2004

Il DJ vs. il Paese reale – Appendice 2. Dell’importanza di nomi, suggerimenti e generi nelle richieste musicali

Mettere qualche disco al matrimonio di sabato con P. e F. è stato più che divertente: uno spasso. Certo, anche in una villa isolata da un bosco può mettere piede la Polizia Municipale a causa di lamentele giunte per il volume troppo alto, probabilmente da una famiglia di tassi, ma tutto il mondo è un paese, a quanto pare. Anche per le richieste che arrivano puntualmente e che (senza ironia) ti danno la possibilità di accontentare una persona e talvolta di renderla davvero felice. Per questo, a parte l’ironia che se ne è fatta in questi post, se qualcuno chiede una canzone, cerco di metterla, prima o poi. Figuriamoci a un matrimonio.

Però succedono delle cose davvero buffe: come ad esempio, sabato, una ragazza che mi chiede “Rock N Roll”.
“Dei Led Zeppelin?”, domando.
“Ah, sì, i Led Zeppeling“, dice lei tradendo la conoscenza della grammatica inglese.

“Dovrei averla…”, mormoro iniziando a cercare il cd.
“Ma anche un’altra dei Led Zeppeling“, rilancia la ragazza.
“Ah, ok: quale vuoi?”
“Non so… ‘Stairway to Heaven’?”
Per fortuna in quel momento P. tira fuori il cd con “Rock N Roll” ed evitiamo il penoso tentativo di fare ballare gli invitati sulla lunghissima epopea di Page e Plant.

Poco dopo, però, si presenta un ragazzo che chiede prima del “rap futurista” (dei Marinetti bros., presumo) e subito dopo, senza neanche darmi il tempo di stupirmi, del country.
Mi chiedono del country da ballare e qualcosa mi viene in mente, un lampo. Ma il fatto è che, sarò un dj scarso quasi quanto a fare il cowboy, ma io non ho nulla di quel genere con me. A parte…
“Johnny Cash”, fa il ragazzo, mentre mima che suona una chitarrina.
Ce l’ho, ce l’ho.
“Un attimo”, dico. Ma lo stesso ragazzo dice ancora: “Anche una canzone folk.”
Country o folk, penso. Cos’è che mi ricorda?
“O qualcosa dei Blues Brothers”, suggerisce ancora lui.
E io mi illumino. Perché era esattamente quello il film: i musicisti entrano in un locale. “Che musica si suona qui?”, chiede la band. “Oh, nel facciamo di tutti e due i tipi”, risponde il gestore che indossa un cappello a falde larghe. “Country e western”.
E io so che cosa mandare in quel momento: un pezzo che mai avrei pensato potesse trovare spazio in un djset, questo.

Capisco che abbiamo avuto successo quando vedo che anche la ragazza dei Led Zeppeling danza scatenata insieme agli sposi.

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