Francesco Locane

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Sick&Sicker: sono stato a vedere i Twins of Evil (ormai due mesi fa)

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Quello che non racconto per motivi di pudore sull’ultimo numero di Jam può essere riassunto in: stupida felicità adolescenziale, da un lato, e orrenda delusione adolescenziale, dall’altro. Se cliccate l’immagine quassù capirete chi mi ha reso felice e chi, invece, mi ha scocciato, due mesi or sono. Poco dopo quel concerto uno dei due “gemelli” si è pure sentito male sul palco. Non hanno (non abbiamo?) più l’età, ma quando le luci si abbassano amiamo farci spaventare come dieci, quindici, venti anni fa.

Parliamo un po’ su di noi – 7. Con la fede nel futuro felice

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C’è una rinascita, nell’aria: lo mostrano anche le mail di spam. Scordatevi approcci brutali, link ipertestuali buttati là. Per non parlare dell’ormai vetusto enlarge your penis. Noi abbiamo speranza. Anzi, ce l’ha Olga: lei ha mandato questa mail al caro Capra, che a sua volta me l’ha girata. Una mail che ha come oggetto “con la fede nel futuro felice” e non solo come oggetto.

Con la fede nel futuro felice)

Ok, abbiamo capito.

Ciao! Mi permetta di presentarmi!

Prego.

Il  mio nome completo-Olga.

Quattro lettere come nome completo. Sotto la media. Ma dimmi, quindi O. è il soprannome? Quella de L’Histoire de. Ma va’?

I – 30 anni, ma per favore non credo che ero molto giovane!

Cara, tutti siamo stati molto giovani. Ma non buttarti giù. Sono più vecchio di te.

I – una donna molto grave con alta levatura morale.

Orca miseria. Mi fa piacere. Grave e con alta levatura morale. Ti presenti con Monti?

A  dire  il  vero,  I – donna molto intelligente e socievole. Ho molti amici, e possono dirmi che ero – un popolo divertente, gentile, sincero e aperto! I dolcezza e umile.

Contento di intelligenza e socievolezza: per non parlare degli amici. Ma non ti sembra di esagerare dicendo di essere (o di essere stata) un popolo, per quanto divertente, gentile, sincero e aperto? I tuoi amici confermano, va bene. Ma perché eri? Sei estinta? Tipo dodo? Dodo dolcezza umile?

Lavoro come manager. Mi piace molto il mio lavoro.

Bene, importante anche questo: fare un lavoro che piace è fondamentale.

Io  preferisco mantenere il mio corpo in forma, e – la mia regola – di essere in buona forma! Mi piacerebbe continuare la nostra corrispondenza!

Con nuoto e piscina mi hai convinto. La salute è importante. Ti immagino una donna forte, popolare (nel senso di popolo), con una buona posizione e un bel fisico. Parliamone.

Prego email me direttamente alla mia email: keeleylib074@hotmail.com. Aspettero con impazienza la tua risposta!

Sì, ti scrivo subito.

Il tua Olga.

Il e tua? Ecco il trucco. E vabbè. Nessuno è perfetto. Ti scrivo lo stesso.

Di |2024-05-12T19:11:38+02:0015 Febbraio 2013|Categorie: Please Mr Postman|Tag: , |0 Commenti

“Quasi come nella religione”

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Nel numero di Pulp di gennaio/febbraio 2013, da pagina 12, c’è un’intervista di Silvia Arzola a Roberto Innocenti. Innocenti è un illustratore eccezionale, famoso in tutto il mondo, che ha vinto l’Andersen Award, praticamente il Nobel dell’illustrazione: in Italia (dove pure vive e lavora) ha iniziato a vedersi pubblicato solo di recente e unicamente per il proverbiale coraggio di una piccola casa editrice, La Margherita.

La Arzola, durante l’intervista, ipotizza che il termine Artista, per quanto inflazionato, possa essere usato nel caso di Innocenti. Ecco la sua risposta, che dovrebbe essere mandata a memoria da molti, da tutti.

Credo che sarebbe ora, se proprio si vuol usare la parola Arte e la qualifica di Artista, di farlo in modo più parsimonioso e qualitativamente accertato. Meglio come aggettivo o come riconoscimento, o come professione o settore di attività? Ritengo Mozart un artista, su Ramazzotti ho molti dubbi. Anche artigiano, benché chiarisca il necessario rapporto fra mani e cervello, è approssimativo. Illustratore va bene, narratore per immagini va bene, e poi, per le controparti lavoratore produttivo, poiché senza testo e senza immagini gli editori produrrebbero bloc-notes e calendari, non libri. Qualsiasi cosa uno faccia, arte applicata o no, ammesso che esista quella “Pura”, chi arriva ai migliori livelli può essere definito artista. Nessuno nega che io sia un pittore, uno che copre di colori a olio una tela, ma pittore non è sinonimo di “Artista”. Una volta fissato e consacrato il gesto del taglio, le ripetizioni di Lucio Fontana sono ancora “arte” o artigianato seriale neanche troppo raffinato? Se invece si intende per artista (a minuscola) ogni mestiere o professione esercitata sull’espressività umana, come un clarinetto di fila o un attore di teatro o di cinema, va bene, ma bisogna intendersi, ci sarebbero la serie “a” la “b”… e la “z”. “Artista” è inflazionato dalle autoproclamazioni o dalle cortigianerie; anche fra gli architetti ci può essere un artista o un mestierante, un Leon Battista Alberti, un Palladio, e quello che firma gli edifici condominiali come quello di Cappuccetto Rosso. Io lascio che mi definiscano come credono, purché in buona fede. Intorno all’argomento arte è tutto così approssimativo che vi pascolano anche ciarlatani e mistificatori, mitizzati e mitizzatori, quasi come nella religione.

Di |2024-05-12T19:14:05+02:0011 Febbraio 2013|Categorie: Paperback Writer|Tag: , , , , , |0 Commenti

“Feed Me Through the Power Line”

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Sono passati due mesi, eppure riesco ancora a percepire sulla pelle la sensazione che gli Swans mi hanno trasmesso dal vivo al Locomotiv Club. Sono stato letteralmente investito da un concerto colossale, durante il quale anche i blackout hanno avuto una funzione scenica. Una serata che ha lasciato tutti attoniti e che, come accade con alcuni eventi (nel senso proprio del termine, per una volta), ha in un certo modo unito i presenti a un livello superiore rispetto alla semplice compresenza nel locale bolognese.
Ho cercato di raccontare il concerto in una recensione che si trova sul numero di gennaio di Jam, che trovate ancora in edicola: se volete leggerla è quassù, a portata di clic. Se il 30 novembre scorso eravate anche voi al Locomotiv e vi va di raccontare quello che avete visto o sentito, sentitevi liberi di farlo.

Di |2024-05-12T19:15:35+02:0029 Gennaio 2013|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , , , , |0 Commenti

You Speak My Language

Mi ricordo benissimo quando ho sentito per la prima volta i Morphine: era l’estate del 1995 e un amico mi passò Yes, uscito qualche mese prima. Avevo appena diciassette anni, eppure quei brani mi colpirono tantissimo: erano liberi, del tutto originali, unici nel loro genere. Poco alla volta recuperai la discografia dei Morphine, conclusa con il cd masterizzato di The Night, nel 2000, quando Mark Sandman era già morto da un anno abbondante. Diciassette anni dopo penso ancora che le canzoni dei Morphine siano una specie di unicum.
I Morphine sono ormai per me un metro di paragone inevitabile: non arrivo a dire “se ti piacciono sei mio amico, se no no”, però mi trovo in sintonia con chi li ama. Un po’ come faccio con i Monty Python. In fondo, per capire bene la band di Boston e il gruppo di matti per lo più britannici, bisogna comprendere il loro modo di comunicare e, cosa non da poco, la loro ironia.
I Morphine sono stati, con “Have a Lucky Day”, la sigla finale di Monolocane (la trasmissione notturna che ho condotto tanti anni fa), con “Honey White” (la traccia che apre Yes) il ritorno a quell’estate di metà anni Novanta, con “The Night” il suggello tremendo di qualcosa di meraviglioso che avrebbe potuto essere e che non sarà mai.

Quando, qualche mese fa, ho scoperto che la Gatling Pictures aveva prodotto un documentario sul leader della band, Cure for Pain – The Mark Sandman story, ho sentito che volevo e dovevo fare qualcosa su questo film che ancora neanche possedevo. E ho contattato subito la casa di produzione, il produttore Jeff Broadway e il sassofonista dei Morphine, Dana Colley. Non lo faccio mai: prima di parlarne per lavoro voglio ascoltare, vedere e leggere. Ho rischiato, perché sentivo che il documentario era qualcosa di buono: quando l’ho visto, nonostante tutti questi pregiudizi positivi, il mio stupore è stato grande. I registi di Cure for Pain sono riusciti a realizzare un bel film, da ogni punto di vista, adottando una prospettiva rischiosa (quella della tremenda storia dei Sandman) e portando lo spettatore ad appassionarsi a una storia unica e per lo più misconosciuta.

Finalmente lo speciale su Cure for Pain – The Mark Sandman story è pronto: va in onda questo pomeriggio in Maps e, da domani, potrete riascoltarlo andando qua. Come “regalino” per voi fedeli lettori, vi anticipo il contenuto delle interviste che hanno trovato posto nello speciale, trascritte in forma integrale. Se non volete rovinarvi la sorpresa perché preferite sintonizzarvi su RCdC intorno alle 16 di questo pomeriggio, vi basta non cliccare qua sotto. Per tutti gli altri, buona lettura. Per gli altri che amano alla follia i Morphine, spero che l’ascolto e la lettura siano emozionanti quanto per me preparare questo lavoro; in fondo, tutto questo è che anche per voi: “you speak my language”.

(altro…)

Oltre pagina uno

Su Linus, Dario Buzzolan tiene una rubrica intitolata “Chi non muore si risente”, in cui immagina di telefonare a uomini illustri del passato: attraverso una conversazione immaginaria (che ricorda le Interviste impossibili di quarant’anni fa) si commenta l’attualità.

Il protagonista della rubrica del numero di ottobre è lo scrittore Joseph Conrad, che viene interpellato a proposito dell’uso di una sua frase da parte di Matteo Renzi. Non ne ero a conoscenza, ma poco tempo fa il sindaco di Firenze, durante la presentazione della sua campagna elettorale, ha usato una frase di Konrad come slogan, proiettata a lettere cubitali dietro di lui.

“Konrad”: così era scritto, racconta Buzzolan, nel comunicato stampa di quell’incontro. Il problema, però, non è questo. La frase usata era “Solo i giovani hanno simili momenti”: è all’inizio de La linea d’ombra, uno dei romanzi più citati e importanti della letteratura occidentale. Una bella frase, non c’è che dire, nella quale compare la parola-chiave-ombrello-programmatica di Renzi: giovani. Tutto bene, “k” a parte?

No, ci racconta Buzzolan, facendo parlare lo scrittore polacco naturalizzato britannico: Conrad ha avuto una gioventù tremenda, vissuta in povertà, violenza e depressione. Ma l’autore, si sa, è diverso dall’opera alla quale, comunque, una citazione rimanda. E quindi continua Conrad (cioè Buzzolan):

Ma poi, scusi: proprio La linea d’ombra dovevano scegliere? Quella è la storia della fine di una giovinezza. Insisto: se avessero letto qualche riga in più, avrebbero scoperto che la frase “solo i giovani hanno di questi momenti” riprende così alla pagina dopo: “Che momenti? Be’, momenti di noia, di stanchezza, d’insoddisfazione. Momenti d’avventatezza. Voglio dire momenti in cui chi è ancora giovane si trova a commettere azioni avventate.” Le sembra un buon manifesto per una che voglia guidare un Paese?

Per saperlo, però, Renzi doveva leggere oltre pagina uno. Ma perché farlo, quando basta una bella frase ad effetto, che sembra proprio ritagliata sulla parola d’ordine-summa-dogma del politico toscano? (E poi, diciamolo: l’altra scelta – “Gimme Five – Alright”, da un vecchio pezzo di Jovanotti – era poco fine, per quanto giovane e simpatica.)

Questa gaffe, che credo sia stata talmente minimizzata alla sua eventuale scoperta da non avere avuto eco o quasi nelle cronache, è un segno da non sottovalutare, a mio avviso. È l’ennesimo indizio della cialtroneria accettata e diffusa, della superficialità, della citazione copia-e-incolla, del re-post e re-tweet selvaggio, basato unicamente sulla supposta autorevolezza della fonte. Infatti, presumo che Renzi avrà pensato “Ehi, è Konrad, mica dirà castronerie”: ma ciò non basta.

Quell’uso di quella frase sarebbe perdonabile se fosse comparsa sul profilo Facebook di uno studente alle prese con i primi amori letterari. Chiunque altro, però, ha gradi di responsabilità crescente nei confronti di come usa le parole in pubblico: figuriamoci uno che si candida al governo. Questo tipo di attenzione, tuttavia, interessa sempre meno persone: ciò che conta è l’effetto, la key-word, la citazione “giusta”; l’approfondimento è inutile e fa perdere tempo; il contesto è diventato contorno: lo si può lasciare da parte senza problemi.

Ipotizziamo però che Renzi conosca benissimo La linea d’ombra, così come la vita e le altre opere di Conrad: quel “Solo i giovani hanno simili momenti” così usato sarebbe anche peggio, perché supporrebbe l’ignoranza (e la pigrizia mentale e intellettuale) di tutti quelli a cui il messaggio viene indirizzato. I “giovani” in primis, ma in genere ogni potenziale elettore di Renzi. Ci si chieda, allora, se è possibile che uno si proponga alla guida del Paese con questa sfacciataggine: lo è, per due motivi.

Il primo è che questo modello funziona e la storia italiana recente lo conferma. Il secondo è che gli altri candidati sono talmente opachi da far sembrare argento la carta stagnola. Incurante di approfondire gli argomenti e certo che nessuno lo farà, il sindaco di Firenze si propone come l’ennesimo “uomo forte” a cui gli italiani (considerati scemi o almeno superficiali – forse a ragione?) si rivolgono, perdonando gli errori e santificandone le opere, la cui reale conoscenza è spesso ridotta ai soli frontespizi.

Non pensate di fare i fotografi: un consiglio di Kevin Cummins

Alla galleria Ono Arte di Bologna, fino al 20 novembre, sono esposte le foto di Kevin Cummins, uno dei nomi che meglio ha saputo raccontare il rock per immagini. Attivo dalla fine degli anni ’70, si fa prima a dire chi Cummins non abbia fotografato, negli ultimi quarant’anni: davanti alle sue lenti sono passati in tanti, da Bowie ai Pistols, dai Joy Division ai Buzzcocks, dai Fall ai New Order. L’ho intervistato per Maps: oggi pomeriggio potrete ascoltare la chiacchierata che abbiamo fatto, ma se siete curiosi, è pubblicata ora sul sito della trasmissione, doppiata e in lingua originale.

Parliamo degli inizi della tua carriera: quando hai scattato quella che secondo te è la prima delle fotografie per cui sei diventato famoso?
Quando studiavo arte a Manchester andavo ai concerti e scattavo delle foto per me stesso: era un modo per entrare gratis, nei primi anni ’70. Scattai una foto a David Bowie durante il tour di Ziggy Stardust: credo che sia stata quella a farmi pensare che fotografare poteva essere un modo per guadagnarmi da vivere. Quindi il mio prima scatto fu proprio Bowie dal vivo.

Com’era passare la barriera del palco? Il backstage è probabilmente uno dei luoghi in cui si può costruire un rapporto più intimo con il musicista.
Quando iniziò il punk, molta della scena era a Manchester. Io avevo sempre la macchina con me e Paul Morley, che scriveva per il New Musical Express, andava a tutti i concerti. Abbiamo pensato di dare alla stampa musicale inglese foto e parole per testimoniare il momento e credo che i Buzzcocks siano stati i primi con cui abbia lavorato a stretto contatto. Andavo spesso a trovarli, scattavo loro molte foto e provavo soluzioni diverse: loro non erano abituati a essere fotografati, io non lavoravo molto nel mondo del rock, quindi sia io che loro abbiamo sperimentato, cercando strade diverse. Un po’ alla volta ho così creato un portfolio. Quindi sì, penso che tutto sia cominciato con i Buzzcocks.

C’erano ostacoli tra te e gli artisti? Voglio dire che un giovane fotografo può incontrare delle difficoltà nell’accedere a luoghi privati…
No, in realtà credo che ci siano più ostacoli ora, in un periodo in cui chiunque può usare il cellulare e fare delle foto. All’epoca ce n’erano meno, anche perché eravamo tutti coetanei e perché avevo studiato fotografia: questo permise a molte band di avere da subito delle foto professionali e i gruppi erano contenti del mio lavoro. Quando ho cominciato a fotografare i Joy Division, ho avuto modo di dare loro qualcosa che allora non si potevano permettere.

Sei molto famoso per le tue fotografie dal vivo, ma hai scattato molte serie di bellissimi ritratti. Qual era il tuo metodo quando dovevi lavorare su quel tipo di fotografia, incontrando un musicista e fotografandolo a lungo?
Credo che il primo passo sia riconoscere quanto valga il loro tempo: intendiamoci, è prezioso quello di tutti, ma i musicisti hanno un’idea abbastanza idiosincratica del tempo. Talvolta si possono aspettare anche tre o quattro giorni prima di fare il primo scatto, fino a che sono felici di averti intorno: allora tiri finalmente fuori la macchina fotografica, rompendo allo stesso tempo la barriera che crea. I musicisti iniziano a reagire a una persona, non più a un obiettivo e non c’è problema se si gira intorno a loro non scattando una foto per ore. Può capitare che sia necessario aspettare una settimana per un grande scatto, ma talvolta ne vale la pena.

C’è qualcuno che hai dovuto fotografare e ne avresti fatto volentieri a meno e, viceversa, c’è qualche musicista che sei sempre felice di riprendere?
Di solito non sono costretto a fotografare persone che non mi piacciono: la mia è una posizione privilegiata. Ho avuto modo di lavorare con tante persone che apprezzavo, instaurando con loro un bel rapporto professionale. Se la band con cui lavori non ha rispetto di te come artista e, allo stesso modo, tu non rispetti loro, non verrà mai fuori una foto decente. L’unica band con la quale ho dovuto lavorare per un servizio del New Musical Express sono stati i Duran Duran: credo che non ri rispettassero l’un l’altro, quindi figuriamoci che rispetto potevano avere per me.

Tra tutti i concerti che hai visto in vita tua, ce ne sono un paio ancora ben presenti nella tua memoria per la loro importanza?
Penso che anche oggi i concerti possano essere interessanti, ma per dire i più ovvi, di certo quello dei Sex Pistols al Lesser Free Trade Hall di Manchester, un paio di concerti dei Joy Division e David Bowie nel periodo di Ziggy Stardust: momenti in cui pensi con enfasi che sia il giorno più bello della tua vita. In realtà, però, ce ne sono stati anche in tempi più recenti: ad esempio quando gli Oasis stavano davvero diventando grandi, andarli a vedere voleva dire esclamare “Mio Dio, c’è una stella enorme sul palco”. Sono cose che affascinano, ma talvolta è lo spettacolo stesso a fare effetto. Ricordo di avere visto Noel Gallagher a Londra un mese fa in un posto piccolissimo, da trecento persone, chiamato Dingwalls. Eppure era come se fosse grandissimo. Il punto è l’emozione: una volta che non c’è più, tanto vale non andare ai concerti.

Hai parlato di fotografia digitale, prima: che ne pensi e cosa pensi dei nuovi fotografi rock?
Io uso il digitale e non ho nulla in contrario. Non capisco però perché le persone si ostinino a usare i loro iPhone per scattare foto ai concerti. Non riusciranno mai a farne una bella così, così come non avranno mai dei video di buona qualità. Ho visto Jack White, sempre un mese fa e sempre a Londra: prima del concerto è salito uno sul palco ha detto di mettere via i cellulari, perché avrebbero pubblicato il concerto in mp3 un paio di giorni dopo insieme a delle foto del live di buona qualità. Insomma, ha detto a tutti di godersi lo spettacolo. E’ stato bellissimo, perché è davvero irritante quando vai a un concerto e davanti a te ci sono trecento persone con il loro telefono: non stanno avendo una bella esperienza live, non stanno nemmeno guardando il concerto, poiché lo fanno attraverso uno schermo. Meglio tenere il telefono in tasca e godersi il concerto.

Quale potrebbe essere un suggerimento per un giovane fotografo intenzionato a una carriera come la tua?
(ride) Non fatelo, non fatelo! Oggi è difficilissimo, perché ci sono così tanti mass media e così tanta gente che non vuole pagare per dei contenuti. Iniziare una carriera del genere per un giovane fotografo è veramente qualcosa di autodistruttivo, che non permette di sopravvivere. Io ho la fortuna di avere un archivio legato a un periodo in cui non si fotografava così tanto, ma oggi è dura, davvero dura.

Docciaschiuma

Photo: pareeerica (flickr)

Il nuovo docciaschiuma l’ho odorato al supermercato, prima di comprarlo. Ho sentito qualcosa, ma al momento non ho capito.
Poi, alla prima doccia, mi sono reso conto che il bagno sapeva dello studio del mio medico di base. Un luogo di attesa, talvolta sofferente o preoccupata, ma che porta a una persona quasi sempre accogliente e garbata.
Sono andato da lui a luglio, l’ultima volta. Tra le altre cose, mi ha detto “La vita, talvolta, è così”, in modo pacato, calmo, consapevole.
Adesso, quando faccio la doccia, mi sforzo di tornare a quella calma. Cerco di fare stare in silenzio i pensieri e lascio che nella doccia risuoni solamente il mio “trentatré”.

Di |2024-05-12T19:24:22+02:0028 Settembre 2012|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |1 Commento

Vivere d’ascolti: intervista a Joe Boyd

Quando Joe Boyd entra negli studi di Radio Città del Capo, venerdì 7 settembre 2012, indossa una camicia floreale, la stessa che porterà durante l’incontro con il pubblico alla Coop Ambasciatori, sul suo libro Biciclette bianche (Odoya). Qualche minuto prima dell’onda chiacchiero con lui per provare a conoscerlo a microfoni spenti: è disponibile, cordiale senza esagerare, distinto. “Fai tutte le domande che vuoi: al massimo non rispondo a quelle a cui non voglio rispondere”, mi dice prima di iniziare.

“L’ideale per il quale mi adoperavo era ascoltare qualcosa in equilibrio con la melodia suonata in modo chiaro”: questa è la definizione del mestiere di produttore che dà nel libro. Quanto questo “canone” deriva dalla sua formazione folk, blues e jazz?
Credo che ogni lavoro che ho fatto sia in relazione con la mia vita di ascolti. Ho iniziato ascoltando mia nonna che suonava musica classica al pianoforte, ho proseguito da adolescente sentendo in maniera ossessiva jazz, blues e rock and roll. Per diventare uno scrittore è necessario leggere tanto. Se si desidera lavorare in ambito musicale, allo stesso modo, bisogna ascoltare molto.

Lei ha incontrato e, soprattutto, lavorato con tantissimi musicisti che hanno fatto la storia della cultura musicale del XX secolo: che cosa l’ha guidata nell’individuare così spesso dei talenti come quelli che ha scoperto, prodotto e portato in tour?
La risposta è la stessa della domanda precedente: ascoltando. Mi sono sempre chiesto: ascolterò questa musica tra cinquant’anni con lo stesso rispetto che ho per Louis Armstrong, Billie Holiday o Muddy Waters?

Quanto eravate consapevoli di fare la storia del costume, della società? Penso ad esempio all’UFO di Londra…
Quando sei nel mezzo di qualcosa e sei giovane, non pensi a quello che stai facendo, non ti fermi per guardarti indietro e per capire quale sia il tuo ruolo “storico” in una prospettiva più ampia. Credo che fossi conscio della rivoluzione in atto e di esserne una piccola parte, insieme a John Hopkins, Barry Miles, i Pink Floyd e altri. Ma se da giovane sei troppo cosciente di te stesso non fai cose davvero interessanti.

A molti musicisti, dell’epoca e non solo, è stato spesso chiesto (quando ancora non erano famosissimi) quanto pensavano di durare: si è mai chiesto, per esempio, quanto sarebbe durata la faccenda dell’UFO club, per quanto tempo la gente sarebbe continuata a entrare nel locale?
L’UFO ebbe vita breve, si bruciò presto: in tutto fu un’esperienza di nove mesi. Ma se parliamo di fare dei dischi, be’, forse questa è stata una ragione per cui non ho avuto un grande successo commerciale. Pensavo sempre: avrò voglia di ascoltare questo disco tra cinquant’anni? Ero molto consapevole delle registrazioni, della produzione, della loro capacità di durare nel tempo. Si trattava comunque di un pensiero molto intimo, privato: una cosa tutta nella mia testa. Ma questo, forse, è uno dei motivi per cui non ho avuto molte hit.

Tornando all’UFO e parlando del pubblico che lo frequentava, lei lo descrive come “attento a tutto”: come percepisce l’attenzione del pubblico oggi?
Oggi il pubblico è frammentato: grazie a internet e ai tanti tipi di musica pubblicati, c’è un pubblico per ogni genere musicale. Credo che comunque la gente sia ricettiva: ci sono tanti festival in Inghilterra, per esempio, dove c’è classica, etnica e folk mischiate insieme. In qualche modo il pubblico sta tornando a essere aperto com’era negli anni ’60.

Quindi la frammentazione di cui parla non è da considerarsi come un elemento negativo?
Ci sono dei lati negativi e positivi. Nel giugno del 1967 tutto il mondo ascoltava Sgt. Pepper’s: non c’era nessuno che non lo conoscesse, bastava iniziare a canticchiarne una canzone. Cose del genere non accadono più, il che è un peccato. Ma ci sono altri vantaggi.

Qual era il clima culturale che spingeva i giovani londinesi ad assistere a delle maratone psichedeliche come il 14 hour Technicolor Dream
Quello fu un evento unico: era l’aprile del 1967, un momento che rappresenta perfettamente l’esplosione di quella piccola scena underground verso tutto la coscienza del Paese. L’uscita di “Arnold Layne”, che fu un successo, fu d’aiuto nel cambiare profondamente il pubblico inglese: prima c’erano piccoli gruppi dalla mentalità quasi sperimentale, ma dal marzo al maggio 1967 cambiò tutto. Il pubblico diventò grande e curioso: non sapeva molto della scena di cui stiamo parlando, ma era desideroso di farlo.

Cambiamo per un momento anno, luogo e scena: raccontando del famoso festival di Newport, mette in evidenza una resistenza “purista” folk a quello che stava succedendo. Non è accaduto qualcosa di simile con l’ampliamento della scena psichedelica?
Sì, certo, ma i sentimenti erano diversi. A Newport ci fu una specie di rivoluzione, che rovesciò le certezze della vecchia guardia. Due anni dopo a Londra, nella scena psichedelica, volevamo diffondere il più possibile le nostre idee rivoluzionarie, dal punto di vista estetico, filosofico e politico. Solo quando abbiamo avuto successo ci siamo detti: “Oh, abbiamo sbagliato”.

Lei è molto preciso nel ricordare gli eventi: c’è forse un momento individuabile che segna questo “errore”?
Sì: era il settembre del 1967 quando mi resi conto che il pubblico dello UFO club non era più lo stesso. Non c’erano più in giro persone sveglie, curiose, aperte alle esperienze. La mia e la nostra reazione potrebbe essere bollata come elitaria, ma ormai la gente non pensava all’LSD come a un’esperienza sacrale: era diventato solo un modo per stonarsi, per andare fuori di testa: era solo un’esperienza, divertimento. Due anni dopo ci fu la tragedia di Altamont: capimmo allora che avere un mucchio di Hell’s Angels fatti della nostra roba non era una buona cosa.

Leggendo il libro incontriamo veramente una quantità di grandissimi musicisti, che lei descrive spesso con affetto, ma senza sconti. Tra tutti, però, spicca il modo in cui racconta di Nick Drake: ne parla di più di altri , con i quali pure ha lavorato più a lungo. E, leggendo le pagine a lui dedicate, sembra che il tono del libro (spesso divertente e irriverente), si acquieti rispettosamente, come le ultime parole che si dicono prima dell’inizio di un discorso o un concerto che si vuole ascoltare con attenzione. E la musica di Drake sembra risuonare nelle pagine più di quella di altri.
Magari è la traduzione italiana… No, è vero: ciò che racconto di Richard Thompson, Mike Herron, Sandy Denny e Syd Barrett ha a che fare con momenti di svolta nella loro vita o nei loro caratteri, ma non parlo tanto di musica. Anche quando racconto di Nick Drake sono critico: il fatto che non riuscisse a parlare al pubblico e che non fosse così sicuro di sé sul palco sono cose che mi hanno frustrato. Insieme a queste critiche c’è però il rimpianto di avere fallito, di non essere riuscito a renderlo famoso mentre era in vita.

Eppure si percepisce una distanza, come se fosse in fondo impossibile cogliere davvero i tratti del carattere e della sua persona, come se provenisse da un altro pianeta. Pensa ancora a lui, ha ancora degli interrogativi su Nick Drake?
Penso molto a Nick Drake, anche perché ora, che scrivo più di quanto mi occupi di musica, se torno a organizzare concerti si tratta di live con la musica di Nick Drake. Ne ho anche portati un paio in Italia, qualche anno fa. Penso alla sua musica, anche perché stiamo preparando un cd dal vivo, su cui sto lavorando. Penso alla grandezza della sua scrittura, delle sue capacità musicali e quando sento altri cantanti alle prese con le sue canzoni, queste diventano ancora più forti.

Quale fu la prima cosa che pensò quando sentì le canzoni e quale fu la prima quando lo vide suonare?
Rimasi meravigliato dai primi quindici secondi del primo nastro demo di Drake. Ero stupefatto. C’erano tanti cantautori in quegli anni, ma non mi è mai piaciuta la forma che avevano questi borghesi bianchi che cantavano in inglese. Era proprio una categoria che non mi interessava. Quando sentii Nick, però, era diverso, al di sopra di chiunque avessi mai sentito. Passò molto tempo prima di vederlo esibirsi dal vivo davanti a un pubblico, ma suonò per me delle canzoni in una stanza più piccola di quella in cui mi trovo ora, nella quale ogni nota risuonava moltissimo. Suonava la chitarra così bene e così forte, con quelle dita robuste, che nonostante fosse una chitarra acustica, dovetti coprirmi un po’ le orecchie da quanto alto era il volume prodotto.

Ha mai trovato delle similarità tra la fragilità di Syd Barrett e quella di Nick Drake?
Sì, certo, anche se reagivano molto diversamente: Syd era più aperto, ma erano entrambi molto delicati e fragili. Entrambi furono sconfitti da questa fragilità, in maniera diversa ma con gli stessi effetti.
Erano entrambi brillanti e originali.

Qual è stata la più grossa emozione (musicalmente parlando) della sua vita?
Ce ne sono state tante! Nel libro però parlo dell’ultima serata del Blues and Gospel Tour nel 1964: Muddy Waters, Rosetta Tharpe, il Reverendo Gary Davis, Brownie McGhee e Sonny Terry che suonavano tutti insieme al Brighton Dome. Furono fantastici, c’era un clima stupendo e ricordo di essermi detto che se avessi mai ascoltato nuovamente una musica così bella sarei stato fortunato. Lo sono stato perché poi ho ascoltato spesso musica bella quasi come quella, ma mai sempre a quel livello.

Il libro parla degli anni ‘60, ma vorremmo che ci raccontasse qualcosa della produzione di Fables of Reconstruction dei REM, nel 1985.
Fu complesso: mi piacevano i ragazzi, andavamo d’accordo, ma tutto fu fatto di fretta. Erano infelici di stare nella piovosa fredda Londra e non seguirono il mio consiglio di alloggiare in un albergo vicino allo studio. Affittarono invece un appartamento a Mayfare, nel centro della città, e si facevano un’ora di taxi per raggiungere gli studi, ogni giorno. Questo era sufficiente per deprimerli. Anche il missaggio è stata una sfida, perché mi è capitata una cosa più unica che rara. Quando sei al mixer di solito arriva il chitarrista solista che ti sussurra “Puoi alzare un po’ la chitarra?” e il cantante che dice di non riuscire ad ascoltare bene le parole. Con i REM, invece, Michael Stipe diceva “Abbassa la voce” e Peter Buck “Abbassa la chitarra”. Tutti volevano che abbassassi la loro traccia: quando si fa un missaggio, gli elementi sono in relazione tra loro, in una sorta di prospettiva, cosa che sono riuscito ad ottenere a fatica, poiché ogni cosa doveva essere più bassa delle altre. Ho lottato molto ed ero realmente preoccupato che, all’uscita, i fan dei REM lo odiassero. Alla fine il disco ha venduto bene, sebbene il gruppo non ne era così contento. Di recente, però, ho visto la band che mi ha detto di avere cambiato idea: ora lo considerano un bel disco.

Riuscirebbe a descrivere con una pennellata, con due parole, alcuni dei musicisti con i quali ha lavorato? Iniziamo da Muddy Waters.
Pieno di dignità, potente e profondo.

Richard Thompson.
Una sorta di genio della chitarra, curioso di ogni tipo di musica e in grado di suonarle tutte.

Eric Clapton.
Quando lo conobbi era un ragazzo normalissimo, ordinario, che sapeva anche suonare la chitarra. Sembrava un impiegato delle assicurazioni che, al tempo stesso, era un grande della chitarra blues.

Nick Drake.
Molto silenzioso, diffidente, ma completamente dedicato e devoto alla creazione di musiche complesse.

Bob Dylan.
Non ho avuto modo di conoscerlo benissimo. Comunque era antipatico, cinico, ma brillante.

Nel suo libro dice che Bryter Layter di Nick Drake è un disco che tuttora non si stanca di ascoltare. C’è una canzone particolare per lei in questo album?
Sì. Oltre a Nick Drake c’è un altro musicista sul quale non dico nulla di negativo, ma anzi spendo parole di riverenza, sebbene per poche pagine: è il pianista sudafricano Chris McGregor. Uno dei momenti più belli tra quelli passati in studio fu il loro incontro. Le sessioni di registrazione dei due si sovrapposero e quindi Chris McGregor suonò in una canzone di Nick Drake, “Poor Boy”.

Qui l’intervista in formato audio.

ABeachCì

Nelle due settimane abbondanti passate in Sardegna, sono stato sulla spiaggia come non mai. Per lo più ho sguazzato, letto e fatto parole crociate, ma ho avuto tempo e modo di guardarmi intorno. La spiaggia, o meglio le spiagge che ho frequentato, sono aperte e democratiche e offrono uno spaccato sociale che vede solo la frequentazione di autobus come luogo di pari osservazione, con la sostanziale differenza che al mare si sta seminudi. E infatti ho notato che ormai tutti hanno un tatuaggio. Grandissimo o piccolissimo, l’animaletto, la figura, il segno più astratto si stagliano sui corpi seminudi dei bagnanti: almeno due persone su tre lo sfoggiavano. La moda è esplosa in questi ultimi anni, ma (si sa) la gente si tatua da sempre. Senza scomodare l’uomo di Similaun, ho notato diverse persone oltre la trentina che avevano tatuaggi risalenti almeno a una decina di anni fa. Mi è parso che, con il passare del tempo, questi segni si comportino come fanno i manifesti sui muri: prima perdono i colori, lasciando in evidenza solo i contorni, sempre più scuriti, poi diventano inintellegibili; tant’è che viene da avvicinarsi a queste macchie per esaminarle, chiedendosi se si tratta della comunicazione per una svendita in un mobilificio o se quella sagoma è l’inconfondibile cotonatissima capigliatura di Moira Orfei e del suo Circo, di passaggio in città in una settimana della tarda estate del Settantaquattro.

Rimanendo nell’ambito dell’estetica, pare che la grande moda quest’anno sia stata fare esercizi per gli addominali in spiaggia. Non ginnastica, yoga, tai chi, no: addominali. Pochi. Insomma, ho visto più di una volta qualche maschio (italico) mettersi supino, mani dietro la nuca, gambe leggermente flesse e via! Uno, due, tre, quattro, massimo dieci movimenti, sotto l’occhio benevolo della fidanzata. Alla fine, per premiare l’olimpico e maschiale sforzo, nuotatina, birretta o assunzione della posizione a pancia in giù, per abbronzare la schiena. Variante: il piegamento sulle braccia. Nella mia flaccida pigrizia non ho capito.

Un’altra ricorrenza è stata la diffusione tra le bagnanti della trilogia di Cinquanta sfumature…, con un’ovvia predilezione per il primo volume. Come ha scritto qualcuno su Twitter, le spiagge quest’estate sembravano un club di lettura dei romanzi di James. Mi immaginavo di trovare più Kindle e simili, sotto l’ombrellone, ma l’unico che ho visto era di una ragazza straniera. In genere, libro pseudozozzone a parte, mi è parso di vedere meno gente del solito che leggeva romanzi. Ho adocchiato un Pastorale americana (edizioni de La Repubblica) su un telo al sole e gli immancabili Coelho e Allende insabbiati e inumiditi. Queste osservazioni sono riferite agli italiani: perché l’impressione è stata che gli stranieri, soprattutto del Nord Europa, leggessero di più. Poi magari era la traduzione olandese di Cinquanta sfumature… o la versione tedesca delle barzellette di Totti. Eppure…

A parte queste spicciole e frivole considerazioni, comunque, le spiagge mi hanno un po’ depresso: l’italiano al mare urlacchia, magna, sporca, richiama i figli, si preoccupa per i figli, insulta i figli. L’italiano va in visita all’Asinara e si fa fare le foto dietro le sbarre delle celle del carcere di massima sicurezza, giocando al 41bis. Sotto l’ombrellone si esibisce, rutta e scoreggia, insabbia, rompe, sporca. Ma ogni tanto i miei occhi allibiti incontravano lo sguardo di qualcuno che guardava, allibito anche lui, la stessa scena. E si accendeva una scintilla di mutuo riconoscimento, silente e sorprendente. In attesa di una riscossa?

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