Act Naturally

Dagli archivi: L’inventore di favole (Billy Ray, 2003)

Shattered Glass

Di Billy Ray (USA 2003)
Con Hayden Christensen, Peter Sarsgaard, Chloe Sevigny, Steve Zahn, Rosario Dawson
Durata 95’
Distribuzione Medusa

La storia: Nel 1998 un giornalista scopre che Stephen Glass, l’astro nascente dell’importante settimanale politico The New Republic, ha inventato del tutto o parzialmente gran parte degli articoli di successo che ha pubblicato.

Molta della forza di Shattered Glass, diciamolo subito, risiede nella storia che racconta, senza dubbio affascinante, ma che forse ha fatto rilassare su di essa Billy Ray, regista e sceneggiatore. Nonostante la buona prova di Sarsgaard, infatti, la caratterizzazione dei personaggi è un po’ tirata via, soprattutto quella del protagonista, che viene rappresentato soltanto come un giovane ambizioso che fa della modestia e di un understatement esibito i suoi tratti fondamentali.

Ma l’interesse del film non credo stia in quanto ci sia in esso di cinematografico (o di televisivo), bensì nel tema che fa emergere. Tutto è focalizzato sulle questioni etiche del giornalismo, anche in prospettiva “didattica”: si veda, a questo proposito, l’inizio del film ambientato in una scuola e le esercitazioni per alunni e insegnanti scaricabili dal sito ufficiale del film.

Una delle parti centrali della “lezione” che Glass tiene agli studenti della sua vecchia scuola è tesa a illustrare il metodo di verifica di un articolo, una serie di passaggi da reiterare più e più volte. L’ultimo punto di questa routine riguarda gli appunti del giornalista: anche quelli devono essere controllati, sebbene alla fine sia il giornalista a fare da garante sulla loro veridicità. Proprio qui sta il centro di Shattered Glass: Peter sbandiera i suoi appunti e quindi la sua persona, forgiata a forza di gentilezze e premure nei confronti degli altri, come garanzie di verità di quello che scrive.

Tuttavia gli appunti di Glass alla fine si rivelano essere falsi: in fondo sono solo le sue scritture private e personali, le sue favole, e in quanto tali non sono verificabili, esattamente come accade quando si scrive fiction. Lo spunto interessante del film, purtroppo solo appena accennato a mo’ di cornice narrativa, è che alla fine anche noi spettatori ci rendiamo conto di essere caduti nelle alchimie favolistiche e narrative dell’ingegnoso Glass, di avere creduto alle sue parole riportate, come il direttore del giornale e, soprattutto, come i lettori dei suoi articoli.

La conclusione di tutta la vicenda è perfetta nella sua “costruzione ad abisso”: Glass, adesso, fa lo scrittore, e il suo primo romanzo ha come tema quello di un giornalista che si inventa delle notizie per fare carriera.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, gennaio 2005

Dagli archivi: Godsend (Nick Hamm, 2003)

Godsend

Di Nick Hamm (Usa/Canada 2003)
Con Greg Kinnear, Rebecca Romin-Stamos, Robert De Niro, Cameron Bright
Durata 102’
Distribuzione Eagle Pictures

La storia: Paul Duncan, insegnante di biologia, e Jessie, fotografa, perdono il loro unico figlio Adam in un incidente. Vengono immediatamente avvicinati dal dottor Richard Wells della clinica Godsend, che propone alla coppia di clonare il piccolo Adam, in modo tale che Jessie possa partorirlo di nuovo. I Duncan accettano, ma devono cambiare città e modo di vita per mantenere segreto l’esperimento, che alla fine riesce. Quando il bimbo compie otto anni, l’età in cui il “primo Adam” è morto, le cose iniziano a prendere una strana piega.

La domanda che mi sono posto durante la visione di Godsend è stata una sola: perché? Innanzitutto, perché scrivere una storia del genere? Immagino che Mark Bomback, lo sceneggiatore, si sia detto: “La clonazione è un argomento di moda, sfruttiamolo”. Ma un’idea del genere non basta a reggere una sceneggiatura. Passi pure il fatto che il primo bimbo clonato si chiami come il primo uomo di biblica memoria (avere un bimbo protagonista di nome “Dolly” sarebbe stato troppo); passi anche il personaggio di De Niro, dottore esperto di clonazione, ginecologia e anche ipnotista. Ma questo non è solo un film horror, è anche un thriller: quindi c’è un’indagine, se così vogliamo chiamarla, condotta dal povero papà Paul, che si chiede perché suo figlio sia ossessionato da questo tale Zachary, che nomina continuamente.

Chi è Zachary? Scoprirlo è facile. Si sfrutta una crisi del bambino, grazie ai poteri ipnotici di De Niro viene fuori il nome di una scuola, andata in fiamme. Tra i resti della scuola si trova un disegno di Zachary, perfettamente integro, sul cui retro è leggibile l’indirizzo dove abitava l’autore. Ci si reca alla casa segnata, ma, accidenti!, non ci sono più i proprietari originari, perché la casa è andata in fiamme: sì, come la scuola. Ma tanto i nuovi coinquilini, mentre cercavano una nuova governante, hanno chiamato anche la vecchia e, guarda caso, hanno conservato il suo numero di telefono. Il prode Paul va dalla precedente governante che gli spiega tutto, confessando anche un tentativo di omicidio, come fosse nulla.

Ovviamente al tema della clonazione è legato anche quello della paternità. Chi è il vero padre di Adam? Conflitto risolto in due battute e una scena, altamente simbolica, in cui è Richard a fare volare l’aquilone del bimbo, parlandogli di Dio, mentre il padre biologico li guarda. Nick Hamm, quello di Martha da legare, si è limitato a riproporre senza alcuna fantasia stilemi horror: case buie, fotografia fredda, soggettive a casaccio. Un altro “perché”. Perché hanno recitato (male) in questo film attori del calibro di Robert De Niro e Greg Kinnear? Non mi sono dato una risposta definitiva. Forse avevano tempo libero, o c’è stato un improvviso aumento del costo della vita negli Stati Uniti.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2004

Dagli archivi: La spettatrice (Paolo Franchi, 2003)

La spettatrice

Di Paolo Franchi
Con Barbora Bobulova, Andrea Renzi, Brigitte Catillon
Durata 100’
Distribuzione Istituto Luce

La storia: Valeria è una giovane traduttrice, e condivide un appartamento con una coetanea a Torino. Rimane spesso a guardare, non vista, l’appartamento di fronte al suo, abitato da un uomo di cui non sa assolutamente nulla. Quando scopre che l’uomo si è trasferito a Roma, anche Valeria raggiunge la capitale e scopre che Massimo (questo il suo nome) ha una compagna, Flavia, più vecchia di qualche anno. La ragazza si introduce nella vita della coppia e diventa amica di Flavia, aiutandola nella scrittura di un libro sul suo ex-marito.

È difficile fissare con le parole lo stato di leggerezza che pervade questo film intenso e denso; Un film dominato dalla sottrazione, dall’ellissi, dalla passività dello sguardo e dell’azione, da una sorta di onnipresenza mai svelata, se non nel finale, di elementi trasparenti come aria e acqua.

L’esordiente Paolo Franchi punta molto sulle capacità interpretative della protagonista, tenendola quasi sempre in scena, e filtrando tutto il film attraverso il suo sguardo e, più in generale, attraverso il suo modo di sentire. In fondo, la stessa Valeria è un filtro: fa la traduttrice simultanea, esiste solo in quanto tramite istantaneo tra due lingue. Anche Flavia conduce un’esistenza particolare.

Nonostante abbia un compagno e una professione soddisfacente, vive proiettata verso un’altra dimensione, quella del marito morto, che mitizza e cerca di fare rivivere attraverso un libro su di lui, più volte iniziato, ma mai completato. Sia Flavia che Valeria, nonostante la loro diversità, più che vivere galleggiano e fluttuano.

Entrambe le donne trovano talvolta nel sesso dei momenti di concretezza: il sesso esplicitamente e saltuariamente richiesto da Flavia a Massimo, e quello concesso da Valeria a occasionali partner senza bisogno di parole o di scontate pratiche seduttive.

Prima di tornare a Torino la protagonista manda una lettera a Flavia, in cui svela i motivi della sua momentanea presenza nella vita di lei e Massimo. Ammette che non ha il coraggio di agire, nella vita; che rimane a galla, non pensando assolutamente ad affondare, ma senza muoversi. Io ho in mente l’immagine di un gerride lacustre, un piccolissimo ed esile insetto che si muove velocissimo e a scatti a pelo d’acqua, rimanendo per molto tempo immobile.

Valeria fa come il gerride, segue il suo istinto: cambia città, fa domande indiscrete, piange, entra nella vita di altre persone, ne ruba pezzetti, come nella bellissima scena del caffè, in cui la protagonista capta al volo dei brani di discorso che una coppia inglese fa alle sue spalle per dare un finto ritratto della sua vita a Flavia.

Tuttavia Valeria sta per lo più ferma a guardare le vite degli altri, in un silenzio che, una volta tanto, è veramente pieno e ricco, e viene interrotto solo da qualche spostamento repentino, da qualche parola. E noi spettatori rimaniamo incantati a guardare la grazia della stasi, tra uno scatto e l’altro.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, luglio 2004

Dagli archivi: La perfezione degli oggetti – Osservazioni a latere di Terra di confine

Open Range - Terra di confine

La visione dell’ultimo bellissimo film di Kevin Costner porta con sé alcune riflessioni. Si può partire, volendo, dalle considerazioni sul genere, ovverosia su come Costner si rapporti al western. Terra di confine è un film classico, prima che un western classico. Nessuna rivisitazione postmodern(ist)a: cavalli, campi lunghi, pistole. Ma il film, allo stesso tempo, ci dà una visione quotidiana della vita che manca nella gran parte dei film del genere. Tutta la prima parte, giustamente lenta, non è altro che un diario minuzioso di ciò che veramente è e fa un cowboy: portare le mandrie al pascolo, pulire i piatti dopo aver mangiato, ripararsi dalla pioggia aspettando che passi, rintracciare la mandria dispersa dopo il temporale. Una routine che i protagonisti Boss e Charley conoscono bene, e che per gli altri due del gruppo è ancora, tutto sommato, qualcosa di nuovo ed eccitante, fonte di scherzi e allegria.

Ma il film di Costner si distanzia da altri western anche per la concezione dello spazio, non dal punto di vista filmico, ma storico. Partiamo dal titolo: Open Range vuol dire letteralmente “campo aperto”. E si usa in inglese l’espressione “range cattle” per indicare il bestiame che pascola liberamente, quello degli allevatori nomadi, come vengono chiamati nel film.

Il punto è che i campi non sono più liberi, ormai gli Stati Uniti iniziano a pensare alla proprietà privata; il problema non sono più i nativi ai quali rubare le terre, ma il possesso delle terre stesse e la loro spartizione. Due inquadrature sono fondamentali a questo proposito.

La prima ci mostra un campo lungo con in primo piano un filo spinato, a fuoco. La seconda ci dà l’unica indicazione temporale del film: è il 1882 inciso sulla “lapide” di Mose. Questi elementi non sono affatto marginali. Il campo inizia a non essere più aperto, ma recintato: per questo motivo ci saranno molti problemi tra gli allevatori nomadi e i primi “rancheros”.

E poi l’anno di ambientazione del film: il ‘900 è ormai vicino, l’anno dopo verrà inaugurato il ponte di Brooklyn e il prezzo di un francobollo verrà ridotto a due centesimi di dollaro. Sono le comunicazioni interne che interessano agli Stati Uniti, tant’è che nell’anno successivo ci sarà un’importante accordo con il Canada per la standardizzazione degli orari ferroviari. La frontiera non ha più alcun senso come limite da superare, ma inizia ad essere considerata come limite da non far valicare: non è rimasto nulla da scoprire.

C’è un ultimo punto da considerare: l’importanza degli oggetti, non tanto quelli dei cowboy (c’è solo un brevissimo scambio di battute sul tipo di pistola che i protagonisti usano), ma quelli domestici, dell’ambiente che funge da sogno (proibito) dei personaggi principali.

La casa del dottore e di sua sorella, non per niente, rimane un luogo estraneo a tutto il resto, una specie di bolla spazio temporale o di parentesi, invasa e corrotta da ciò che vi sta fuori solo alla fine del film. Quando i cowboy si informano sullo stato di salute del loro giovane amico “ricoverato” nella casa, non entrano per non sporcare per terra.

E poi: Charley rimane affascinato dal servizio da the di Sue, e l’unico pensiero prima di affrontare la sparatoria finale è quello di fargliene avere uno uguale, dopo avere distrutto per sbaglio il suo. E cosa fa il personaggio interpretato da Costner? Sceglie il modello su un catalogo: il commercio per corrispondenza (in senso lato) inizia adesso, e le inquadrature insistite sugli oggetti che vengono messi in vendita sono importanti, testimoniano un’altra forza modernizzatrice degli USA, uno dei vettori portanti del “progresso”.

Le importazioni di prodotti sono segnale della stessa cosa: i dolci migliori e i sigari migliori, ultimi desideri che si concedono Charley e Boss, vengono dalla Svizzera e da Cuba. Gli oggetti in genere, quindi, potremmo dire le merci, sono uno dei fulcri intorno ai quali ruota Terra di confine che, non per niente, si chiude su un lento dolly che va a finire proprio sul servizio nuovo di Sue.

Perfetta nella sua immobilità, la porcellana è un perfetto contraltare a una delle sparatorie più belle viste in un film di recente: una sparatoria, come si diceva giustamente sul penultimo numero di duellanti, in cui i corpi cadono pesantemente per terra, si sbaglia la mira, la mano trema. Una sparatoria vera, insomma, per un film che vuole essere legato alla realtà, al quotidiano e quindi agli oggetti, che rappresenta il momento delicatissimo di passaggio dall’America di frontiera all’America del consumo.

Articolo originariamente apparso su duellanti, aprile 2004

Dagli archivi: Terminator 3 – Le macchine ribelli (Jonathan Mostow, 2003)

Terminator 3 – The Rise of the Machines

Di Jonathan Mostow
Con Arnold Schwarzenegger, Nick Stahl, Claire Danes, Kristianna Loken, David Andrews
Durata 109’
Distribuzione Medusa

La storia: Dieci anni dopo avere rischiato la pelle a causa del T-1000 inviato dal futuro per ucciderlo, John Connor deve fronteggiare la temibile Terminatrix, o TX, e anche il sistema Skynet, che ha creato un virus per bloccare l’intero sistema telematico mondiale. Ma, ancora una volta, dal futuro verrà inviato un Terminator per proteggere lui e quella che sarà la sua futura compagna nella vita e nella resistenza degli uomini contro le macchine, quando il giorno del giudizio è ormai imminente.

All’inizio di T3 John Connor ricorda le parole della madre Sarah: il futuro non è scritto, dipende da noi. E ammette di non esserne proprio convinto. Pur non essendo all’altezza del primo episodio, quest’ultimo film della serie Terminator condivide con esso un certo pessimismo di fondo, che fa sicuramente bene, e lo distanzia quindi (per alcuni versi) da Il giorno del giudizio.

John è uno sbandato, non ha una casa, non ha un lavoro fisso, non si sente assolutamente l’eletto, il futuro capo della resistenza. L’eletto. Cosa vi ricorda questa parola? Matrix, ovviamente. Niente di più lontano. Se, infatti, soprattutto nel secondo capitolo della trilogia dei Wachowski la filosofia spicciola, e soprattutto il tema del libero arbitrio, viene continuamente tirata fuori in un insostenibile (a mio avviso) e poco comprensibile eccesso didattico e didascalico, in questo film tutto rimane sullo sfondo, pur essendo presente, per fare spazio all’azione sfrenata. E per fortuna.

Il ritmo di T3 è magistrale, il film non lascia un attimo di tregua allo spettatore ed è divertente, pur non avendo eccessive pretese. I rari momenti di pausa sono stemperati da una buona dose di ironia, cosa a cui già T2 ci aveva abituato, ma senza esagerare, evitando di usarla come ultimo mezzo per mostrare di avere ancora qualcosa da dire. Spesso alcuni luoghi tipici riscontrabili nei due film precedenti sono rivisitati e capovolti.

Per esempio, Terminator appena arrivato nel presente è come sempre nudo e in cerca di vestirsi. Come nel secondo episodio, entra in un bar country&western, dove però, proprio quella sera, c’è una Ladies’ Night: a nessuna, quindi, fa paura l’enorme figura di Schwarzy, anzi, le avventrici guardano ammirate il suo corpaccione ignudo. Esattamente come il poliziotto che la ferma per eccesso di velocità guarda ammirato il seno della Terminatrix seduta in macchina, seno da lei rimodellato aggiungendo qualche taglia per l’occasione dopo avere visto una pubblicità di Victoria’s Secrets. A questo punto si potrebbe iniziare un bel discorso analitico sul corpo, corpo umano, corpo robotico… Ma no, non c’è tempo. E per fortuna.

Perché dopo dieci minuti di film è tutto un turbinio di inseguimenti, sparatorie e di esplosioni, cose a cui anche i due episodi precedenti ci avevano abituato. Cosa poteva rimanere da fare, allora, al valido Jonathan Mostow, per non sfigurare? Nel secondo Terminator l’inseguimento avviene con un camion? Qui c’è un’autogru, con braccio posto orizzontalmente, in modo da sfasciare più cose possibili ai due lati della strada. In una scena un elicottero entra a tutta velocità in una specie di hangar. Basta? No, perché, qualche secondo dopo, ecco irrompere un altro elicottero, secondo una logica dell’accumulo che risulta incredibilmente efficace.

I personaggi, poi, sono come devono essere: la TX è bellissima e spietata (e riconosce le persone leccando il loro sangue e acquisendo notizie sul loro codice genetico). Terminator ha ormai una sua ironia (involontaria per il personaggio, ma assai calcolata e modellata su quella che emerge dal secondo capitolo) e ha in dotazione un programma di lineamenti di psicologia integrato nella memoria (questo gli permette di dire battute che agghiacciano i due protagonisti, del tipo: “La vostra serenità è positiva, allontana l’ansia e la paura di morire”).

Forse è un po’ debole il personaggio interpretato da Clare Denis, Kate Brewster, ma in questo contesto funziona. E infine John Connor, che rimane lo stesso adorabile cazzone de Il giorno del giudizio, ma con in più, come dicevo, la consapevolezza che il suo ruolo è troppo grande per lui. Il confronto tra lui e Terminator, che potrebbe raggiungere pesantezze “filosofiche” inaudite, si limita a qualche momento efficace, in cui, appunto, emerge il tema del libero arbitrio e delle responsabilità del singolo rispetto alla collettività (ricordando vagamente, in qualche modo, alcuni punti di Spider Man).

Ma questo, lo ripeto, non è fondante. Viene accennato solamente, e tanto meglio per chi lo coglie (non ci vuole molto), ma chi non lo dovesse fare si può godere tutto comunque. John Connor rimane una persona spaesata, che guarda al futuro tra lui e Kate in maniera umana (della serie: ma pensa un po’, avrò dei figli con questa ragazza carina), e che rimane pieno di paure e di incertezze.

La scena finale del film è emblematica: i due rimangono al sicuro in una sorta di bunker e ricevono le prime chiamate via radio da parte dei sopravvissuti all’inevitabile giorno del giudizio: inizia la resistenza, di cui Connor, quindi, sarà il capo. Quando gli chiedono chi è che comanda laggiù, John esita molto, prima di dire il suo nome, e parla quasi mormorando. I due protagonisti si stringono la mano, per cercare un appoggio in un altro essere umano più che per altri motivi. John e Kate non si baciano mica, del resto è appena iniziata una guerra nucleare, a chi verrebbe in mente di farlo? Bravi.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2003

Dagli archivi: Goodbye, Lenin! (Wolfgang Becker, 2002)

Goodbye, Lenin!Goodbye Lenin locandina

Di Wolfgang Becker
Con Daniel Brühl, Katrin Sass, Chulpan Kamatova, Florian Lukas, Maria Simon
Durata 118’
Distribuzione Lady Film

La storia: Christiane, attivista del partito comunista della Repubblica democratica tedesca, cade in coma durante i disordini precedenti alla caduta del muro di Berlino. Si sveglierà solo otto mesi dopo, con un cuore ancora molto debole. La Germania e l’Europa, intanto, sono cambiate radicalmente, ma il figlio Alexander, con la complicità di amici e parenti, cercherà di creare un mondo in cui tutto è come prima, se non meglio.

Come spettatore italiano, mi ritrovo nella stessa situazione di qualche settimana fa, quando ho visto City of God. Esattamente come per il film di Mereilles il mio essere non brasiliano mi faceva percepire alcune cose come se fossero adornate da una sorta di epicità aggiunta, anche nel film di Becker mi sono trovato a non capire del tutto. Con la differenza che mentre in City of God ci muoviamo efficacemente, soprattutto nella prima parte, nei territori della vita e storia come mito, in Goodbye, Lenin! le cose sono confuse e spesso in equilibrio instabile.

Nel film ci vuole essere un po’ di tutto: la Storia, innanzitutto, ma quella recente e vicina a noi, che conosciamo bene (sebbene da non tedeschi, appunto). Una sorta di abbozzo di romanzo di formazione, vedi gli accenni all’infanzia del protagonista e ai suoi eroi, la storia del suo primo amore, il rapporto con i genitori che cambia, la vita adulta. Inoltre il regista spinge sia sul registro del grottesco e del comico, con un uso frequente di accelerati e del commento fuori campo del protagonista, sia sul dramma familiare. E tutto ciò è imbevuto in un tentativo di commedia.

Così alcune realtà che presumo possano essere state all’ordine del giorno nell’ex Germania est, come la disoccupazione, lo spaesamento politico, culturale e umano di vecchi militanti del partito e dei giovani ai quali venivano offerte possibilità tanto nuove quanto effimere, vengono spesso ridotte a macchiette, a stereotipi.

Il vecchio collega di Christiane, insegnante del politecnico Karl Marx, si è dato all’alcolismo, la prima cosa che si fa quando si attraversa il confine tra Berlino est e ovest è andare in un sexy shop, la Germania si riunifica veramente con la vittoria della nazionale tedesca ai mondiali di calcio italiani. Va bene, immagino possa essere stato così, ma è questo l’unico modo di rappresentarlo?

Tuttavia altrove il regista rivela un tocco delicato e molto personale. Un esempio su tutti è la creazione di quella bolla temporale che diventa la stanza di Christiane, una volta che la donna viene portata a casa dopo il lungo ricovero. In un primo momento la stanza diventa una specie di parentesi ferma all’ottobre 1989, una specie di teca, in cui tutto viene dal passato.

Divertenti, quindi, le sequenze in cui Alexander e l’amico Denis creano finti telegiornali. Godibile la ricerca affannosa del figlio dei cetriolini “socialisti” per la madre, ormai introvabili e sostituiti da prodotti di importazione olandese, ma la cosa si ripete troppe volte. Poi la stanza diventa un vero e proprio laboratorio, dove il tempo si muove in una sorta di realtà parallela. Quindi viene fatto credere a Christiane che sono i cittadini dell’ovest ad arrivare nella DDR, attratti da uno stile di vita alternativo al capitalismo, con scene decisamente divertenti. D’altro canto, quando viene reclutato il cosmonauta idolo di Alex per interpretare un improbabile successore di Honecker alla guida del paese, si cade un po’ nel patetico.

Il film continua in questa incertezza, caricando troppo delle situazioni, disegnandone alcune molto bene (soprattutto quando si tratta di nascondere alla madre l’enorme pubblicità della Coca Cola e il passaggio del dirigibile West), ma rimanendo insicuro sulla strada da prendere.

Così, nel pout-pourri generale, anche la storia del padre perduto e poi ritrovato (ovviamente ricco, con altri due figli, che vive in una bella villa con giardino) rimane appena abbozzata, sullo sfondo, quasi indistinta. Peccato, perché, ripeto, Becker non è affatto banale sia nelle scelte registiche che nella direzione degli attori, che, la Sass sopra tutti, sono bravi e nella parte.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, giugno 2003

Dagli archivi: Aprimi il cuore (Giada Colagrande, 2002)

Locandina Aprimi il cuore

Aprimi il cuore

Di Giada Colagrande
Con Giada Colagrande, Natalie Cristiani, Claudio Botosso
Durata 93’
Distribuzione Lucky Red

La storia: Caterina vive e studia con Maria, sua sorella, che per mantenersi si prostituisce in casa. Le due ragazze sono unite da un rapporto d’amore assoluto e totale, che verrà messo in crisi con l’entrata nel loro mondo di Giovanni, custode della scuola di danza che frequenta Caterina. L’equilibrio si rompe portando a tragiche ed estreme conseguenze.

Per il suo primo lungometraggio, Giada Colagrande sceglie una storia difficile, facilmente etichettabile. Se si provano a filtrarne i contenuti, emergono tematiche come incesto, prostituzione, cattività, omicidio. Roba da fare gioire molti giovani registi italiani, magari quasi esordienti che, con ogni probabilità, trarrebbero da tutto ciò qualcosa di già visto in tutto e per tutto.

Non è il caso di questo film, scritto dalla stessa regista insieme a Francesco Di Pace, in cui questa (pericolosa) ricchezza di contenuti viene resa con forma asciutta e una messa in scena statica e ferma. Quando parlo di messa in scena, intendo tutto: la scenografia, per esempio. La maggior parte del film è ambientata nell’appartamento delle sorelle (il vero appartamento delle protagoniste), cinquanta metri quadri da cui la sorella minore non esce quasi mai, perché non vuole farlo. Il cielo spunta ogni tanto, ma spesso visto dalla finestra di casa, inquadrato come qualcosa di lontano e irraggiungibile. La luce del sole entra nelle stanze, ma in maniera riflessa. La luna, crescente, marca il tempo che passa, un tempo ipnotico, ritualizzato.

La vita delle sorelle, soprattutto quella di Caterina, è scandita in maniera ossessiva. La ragazzina studia in casa, mangia in casa, fa l’amore con la sorella in casa. Sente i gemiti dei clienti della sorella e il rumore ritmato della rete del letto che cigola, un suono acuto, opprimente, invadente e pieno che, insieme ai pesanti e cupi silenzi, fa letteralmente da colonna sonora.

Dopo ogni amplesso, un altro rituale, antico e (fin troppo) simbolico: il lavaggio. Caterina aiuta Maria a fare il bagno, e, quando sarà la sorella minore a prostituirsi, i ruoli ovviamente si invertiranno. Caterina è un animale in gabbia, che non ha la minima voglia di uscire, a parte per andare a scuola di danza. Talvolta la vediamo appoggiata alla finestra mentre getta un’occhiata sul mondo esterno, ma con indolenza, senza curiosità.

L’entrata del mondo esterno, l’irrompere di elementi estranei nel mondo emotivo ed emozionale delle due sorelle segna le svolte della storia. Prima Giovanni, che non può non esclamare “Che cazzo di situazione!” quando viene a sapere dello stato di cattività in cui vive Caterina. Poi, alla fine del film, è l’entrata nell’appartamento della moglie di uno dei clienti di Maria, disperata perché il marito è scomparso da una settimana senza lasciare tracce (“Siamo così innamorati”, dice la donna in lacrime a Caterina), a portare alla conclusione della vicenda.

Tutto, come ho detto, è ripreso in maniera sobria, distaccata, con la macchina da presa spesso distante dai corpi, immobile o quasi. Anche quando i corpi sono impegnati in amplessi freddi e squallidi, la camera si tiene spesso a distanza, ma non per pudore, quanto per una forma di non-partecipazione consapevole.

L’abbondanza dei contenuti e dei simboli, quindi, viene ben bilanciata (come già detto) dalla messa in scena. Nonostante tutto, si sente a volte una sensazione di eccesso. Prima di tutto nell’intermissione di rappresentazioni pittoriche della Madonna, dall’annunciazione fino alla morte. Una delle due sorelle si chiama Maria, il discorso è esplicito fin dall’inizio: non si tratta assolutamente di voler giocare sul filo del blasfemo, quanto di rappresentare un tipo di femminilità, che comprenda maternità, amore, sesso. In questo discorso, coerente e chiaro, l’introduzione dei quadri risulta quindi a volte sovrabbondante.

Inoltre il film è spesso segnato da innumerevoli e coltissime citazioni: Caterina studia da sola, non va a scuola, e quindi ripete alla sorella, e a noi, passi di Dante, poesie di Donne, interpretazioni leonardesche e michelangiolesche del dualismo corpo e anima, teorie cosmologiche di Tico e Keplero. Il tutto con un tono poco più che scolastico, che sicuramente alleggerisce i vari simbolismi. Un discorso a parte, infine, va fatto per la musica, praticamente sempre diegetica e, anche in questo caso, a volte fin troppo autoreferenziale: uno dei brani portanti del film è Chiarina di Schubert, dedicata dal compositore alla moglie Clara, molto più giovane di lui, e i titoli di coda sono accompagnati da un’Ave Maria fadista.

Sono questi, comunque, piccoli difetti, forse attribuibili alla normale paura di non essere capiti fino in fondo che molti registi esordienti hanno. Giada Colagrande dimostra di avere un occhio attento e una sensibilità non comune nel trattare quelli che sono temi universali e, quindi, molto difficili e pericolosi da rappresentare.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, maggio 2003

Dagli archivi: Sex is comedy (Catherine Breillat, 2002)

sex is comedy locandinaSex is comedy

Di Catherine Breillat
Con Anne Parillaud, Grégoire Colin, Roxanne Mesquida, Ashley Wanninger, Dominique Colladant
Durata 92’
Distribuzione Sharada

La storia: La regista Anne, alle prese con il suo nuovo film, sta cercando di girare una difficile scena d’amore, ma gli attori coinvolti faticano a darle quello che chiede.

Ogni film che parla di cinema è una potenziale arma a doppio taglio. Da un lato affascina e coinvolge, ma dall’altro rischia di voler risolvere in maniera metaforica, semplicemente mostrando la macchina-cinema, temi universali e difficili, arrivando talvolta a risultati quanto meno didascalici, se non addirittura banali.

La Breillat non sfugge a tutto questo. Sex is comedy è un film gradevole, ma discontinuo. È piacevole quando rimane sul set e narra delle vicissitudini delle giornate di riprese, delle lunghe attese, dei piccoli accorgimenti tecnici: in questo modo, ancora una volta, la finzione magica del cinema viene svelata, pur rimanendo intrigante. È assolutamente pretenzioso quando, attraverso alcune battute della regista, vengono veicolate massime e verità “assolute”, soprattutto sul cinema e sul mestiere della regia.

Nonostante le smentite della stessa Breillat, Anne non può non ricordare la regista stessa, e il film pare confermare questa tesi, con infiniti rimandi ai lavori precedenti dell’autrice. Non si tratta, infatti, di perseguire in maniera, appunto, autoriale le tematiche costanti della sua filmografia, sesso e verginità su tutte, ma di vere e proprie citazioni.

La scena centrale del film e, ovviamente (?), anche del film nel film (che si chiama Scenes intimes), in cui la protagonista si trova a fare sesso per la prima volta, è identica a una sequenza del precedente A mia sorella: stessa l’attrice (Roxanne Mesquida, brava come tutto il resto del cast), stessa la posizione della macchina da presa, stesse le battute pronunciate dagli attori.

Siamo ben oltre la strizzatina d’occhio, andiamo quasi verso un trattato autocelebrativo, tanto più che il film è narrativamente basato, o addirittura sbilanciato, sulla figura della regista, che sceglie gli attori “come gli uomini scelgono le donne, per poi consumarli”. Il rapporto tra attore e regista con sfumature erotico e sadomasochistiche? Già visto.

D’altro canto, però, la Breillat sa guardare con ironia al suo cinema. Esemplare, a questo proposito, la scena in cui l’attore si trova a dovere mettere un fallo di plastica, a mo’ di protesi. Non può non venire in mente il clamore suscitato da Romance, film in cui, sebbene soltanto a livello pubblicitario, aveva fatto scalpore la “comparsata” del pene di Rocco Siffredi.

Come molti registi, la Breillat è innamorata del cinema e di se stessa. Questo fa sì che non voglia quasi staccarsi da questo piccolo e, tutto sommato, gradevole film. Dopo alcuni cartelli di titoli di coda, ecco comparire di nuovo, sebbene solo per qualche secondo, la regista Anne.

La scena d’amore centrale (e onnicomprensiva, aggiungo) del film Scene intimes (ma anche di Sex is comedy e dei film della Breillat), è stata finalmente girata, con emozione, partecipazione e pathos da parte di tutta la troupe. Anna/Catherine si può finalmente rilassare, mangiando una banana e sorridendo. Ci sono altre “scene intime” da girare, nient’altro importa.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, marzo 2003

Three Days (a Week)

Il fine settimana appena trascorso lo ricorderò finché campo, a prescindere che io ne scriva o meno: ma voglio comunque annotare qualcosa di queste ore passate (ma dai?) all’insegna della mia grande passione per quei quattro ragazzotti inglesi.

Venerdì 25 novembre – George Harrison: Living in the Material World

Il primo appuntamento con il “Beatles-weekend” è alla Cineteca di Bologna per la prima italiana del documentario su George Harrison (di cui oggi ricorre il decennale della scomparsa). I biglietti sono stati comprati da tempo, non si sa mai, anche perché la Sala Mastroianni dove proiettano il film di Scorsese (a cui è intitolata l’altra sala della Cineteca: una buffa coincidenza che avrebbe divertito non poco anche i Fab Four) non è così grande. Ci sono diverse persone pronte a entrare nella sala, compreso… Walter Veltroni. Ohibò. Entriamo per primi con lo scopo di sederci nella fila di poltrone che permette di stendere le gambe, visto che il film dura quasi tre ore e mezzo, ma su ognuna di quelle poltrone c’è il cartello “Riservato”. Riservato a chi? Ma a Veltroni, all’assessore alla cultura Ronchi e a Red Ronnie. E famiglie.

La gente seduta intorno a noi si gira verso la “fila VIP” con sguardo tra il deprecante e il curioso e borbotta battute e lazzi nei confronti dei privilegiati. Si respira una bella aria, tra le poltrone del cinema, c’è attesa. Si spengono le luci e ci immergiamo nel documentario, realmente bello e riuscito. Ci si commuove, si sorride consapevoli per cose già conosciute e ci si emoziona per immagini e aneddoti mai sentiti prima.

Come dico nel post che esce oggi su “Seconda Visione” (ne parleremo stasera in onda), l’esperienza che il documentario di Scorsese offre allo spettatore è incredibile anche perché parallela al percorso che Harrison stesso ha fatto nei suoi confronti. Un percorso spirituale di conoscenza, realizzato attraverso un film.

Un’impresa difficilissima portata a termine con sobrietà, ironia e profondità. Durante la visione, poi, ogni apparizione sullo schermo di McCartney è accompagnata dal pensiero che tra ventiquattro ore saremo nuovamente in mezzo a persone (cento volte tanto) che la pensano come noi e, finalmente, vedremo Paul. Dal vivo.

Sabato 26 novembre – Paul McCartney “On the Run” tour

All’ora di pranzo arrivano da Roma M. e A. Ovviamente sono in città per il concerto: andando a prenderli in stazione già si avverte nell’aria un’eccitazione generale. Sento qualcuno dei Menlove, che mi dice che Paul è al Baglioni, no, è a Giardini Margherita, macché, è in Piazza Maggiore, ma forse è già al Palasport di Casalecchio. Tutto si rivelerà incredibilmente vero, ma lo scopriremo solo quella notte, tornati a casa, leggendo le cronache dell’incredibile giornata.

Alle 17 siano già in fila all’entrata dell’Arena: siamo pressati, già un po’ stanchi, ma con la voglia mostruosa di entrare. Ed eccoci nel parterre. C’è qualcuno vestito come la band in Sgt. Pepper’s, centinaia di magliette dei Beatles, cartelloni, striscioni, sorrisi a trentadue denti. Alle otto e mezzo parte un lungo video di introduzione e la gente già canta le canzoni diffuse dall’impianto e applaude quando un Paul ragazzino, giovane, quarantenne, sessantenne appare sui maxischermi che proiettano l’introduzione al live. Questa è la prima data del tour europeo e ci sentiamo tutti uniti nel privilegio di assistere a un concerto storico già sulla carta, oltre che nell’amore folle, irrazionale e sincero che tutti e tredicimila nutriamo per i Beatles.

Alle nove si spengono le luci e inizia uno dei concerti che ricorderò per sempre. Una scaletta fantastica che inizia con “Magical Mystery Tour” e si conclude con “The End” (didascalico? E chi se ne importa) attraverso trentacinque canzoni per lo più prese dal repertorio del quartetto di Liverpool, ma che ha uno dei momenti più alti nella resa letteralmente pirotecnica di “Live and Let Die”.

Si salta, si canta, ci si commuove (soprattutto su una “Something” durante la quale compaiono solo foto come questa quassù): ogni tanto mi guardo intorno e vedo solo gente che sorride, si bacia, si abbraccia, urla e agita mani e braccia. Una festa totale, come non credo di avere mai visto prima. Paul è in buona forma: la voce si scalda canzone dopo canzone, fino a osare tantissimo per potenza e altezza, considerata l’età del nostro.

Penso che quest’uomo è sul palco ininterrottamente da cinquantaquattro anni, ma mostra un entusiamo puro e contagioso dall’inizio alla fine. Scherza, ride, dice delle frasi in italiano senza nascondere di leggerle. Ci ha in mano. Del resto è Paul McCartney. Lo stordimento per lo spettacolo a cui abbiamo assistito ci entra dentro e non mi ha ancora abbandonato.

Domenica 27 novembre – Band on the Run

Durante il pranzo che precede la partenza di M. e A. quasi non si parla della serata precedente. Che c’è da dire, del resto? Siamo ancora increduli di fronte al concerto che abbiamo visto: non tanto perché non pensavamo che ci saremmo divertiti, ma perché è stata un’esperienza fortissima, difficile da descrivere a parole, come del resto avrete capito leggendo l’esile resoconto di sabato. Sarà la stanchezza o la strana aria che le domeniche portano con loro, ma mi pare di fluttuare lungo la giornata, con leggerezza.

Quando cala la sera decidiamo di vedere il documentario allegato all’edizione speciale di uno dei dischi più belli della carriera solista di McCartney, quel Band on the Run uscito quasi quarant’anni fa. E ogni volta che Paul compare, questa volta sullo storto tubo catodico di casa mia, penso che c’era proprio lui, quel ragazzo che abbraccia la moglie Linda e si muove con disinvoltura tra basso, chitarra, pianoforte e batteria, sul palco la sera prima.

Mano a mano che il documentario si avvicina alla fine, portando con sé il ritorno alla normalità del lunedì mattina, due sentimenti si accavallano: la nostalgia per quello che è stato (tutto: dalla Beatlemania degli anni ’60, mai vissuta, alla faticosa uscita dal parcheggio del Palasport, più che vissuta) insieme alla gioia per avere dentro di sé immagini, suoni e memorie bellissime e indimenticabili. Da questo contrasto emerge solo una cosa: l’amore per la musica che questi quattro incredibili esseri umani hanno creato, insieme e da soli.

Un amore condiviso che abbiamo potuto percepire nell’aria, tutti insieme, in un fine settimana particolare, ma che pulsa ogniqualvolta arrivi all’orecchio di qualcuno una manciata di note di “Day Tripper”, del pezzo che dà il titolo a questo blog, o di qualsiasi altra canzone di Harrison, Lennon, McCartney e Starr. “I Beatles”, si dice, e immediatamente si sorride, perché ci si sente a casa.

Il potere del manifesto

L’influenza che mi ha colto nel fine settimana mi ha permesso di avere un po’ di tempo per me: con somma gioia, quindi, ho preso in mano un volumone acquistato in Inghilterra quasi un anno fa. Si chiama The Art of Hammer e, lungi dall’essere un trattato di storia degli utensili, raccoglie i manifesti più belli della casa cinematografica inglese. Versioni britanniche e statunitensi, ma anche italiane, tedesche, francesi e belghe di affiche di film come La maledizione di Frankenstein, Dracula il vampiro, La mummia e tanti altri.

Dopo essermi perso per più di un’ora nei colori sgargianti delle riproduzioni, tra canini insanguinati e decoltè, mi sono reso conto con stupore che, decadi dopo, quei manifesti (seppur ridotti rispetto alle dimensioni originarie) continuavano a funzionare: mi avevano ipnotizzato e desideravo ardentemente vedere o rivedere i film a cui corrispondevano.

Poi uno dice: la magia del cinema.

Di |2024-05-13T16:07:44+02:0010 Novembre 2011|Categorie: Act Naturally, Paperback Writer|Tag: , , , , , , , , |Commenti disabilitati su Il potere del manifesto
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