I Me Mine

Lettera alla mia macchina fotografica

Cara Rolleiflex,

posso chiamarti Rollei? Quando ti chiamo così, oltretutto, la gente pensa che tu sia una di quelle splendide ed eleganti macchine fotografiche quadrate. No, non scattare subito, mi piaci così come sei, germanicamente tozza.
Il primo flash che ho di te è frontale. Mia madre mi ti punta addosso e io dico che non voglio essere fotografato. Lei dice che non mi sta fotografando, eppure preme un tastino. “Per vedere la luce”, mi dice. “Cazzate”, penso io. E infatti, regolarmente, mia madre mi scatta una foto, spostando il dito sul pulsante di scatto. Ma io, allora, che ne sapevo come funzionava un esposimetro? Mia madre ti era tanto affezionata, diciamolo. Talmente tanto che si è arresa solo molto tardi ai tuoi acciacchi. “Che vuoi farci, è una macchina vecchia, del 1971”. Io, bambino nato nel 1978, pensavo a cosa mi sarebbe successo se mi fossi “guastato” sette anni dopo. Mia madre mi avrebbe messo vicino a te nell’armadio e anche io mi sarei piano piano coperto di uno strato, pardon, pellicola di polvere?
Non ricordo mica quando ti ho riscoperto, e ho sviluppato un certo amore per te e per la fotografia. So solo che ti ho preso e portato dal fotografo. Macchina vampira: hai sempre avuto problemi con la luce, le maledette cellule dell’esposimetro che si guastavano sempre. Macchina vampira: quanti cazzo di soldi ti sei ciucciata per farti aggiustare quelle cellule, perché poi si guastassero subito dopo? Scusa, no, non ti impressionare, non volevo sembrarti alterato nella mia esposizione.
Alla fine, l’unica soluzione: imparare a fotografare senza esposimetro, grazie ad una provvida tabella compilata dal fotografo di cui sopra. “Che genio”, pensavo. “Si ricorda a memoria tempi di esposizione e diaframmi.” Solo qualche anno dopo mi sono reso conto che aveva spudoratamente copiato quella tabella dal retro della scatola di un rullino Kodak.
Che emozione poter cambiare i tre obiettivi, il piccolo grandangolo, il teleobiettivo e il planar.
Che bello sentire lo “statlac!” dello scatto e sapere che tutto quello che facevi era possibile senza pile, senza trucco, senza alcun “auto”: tutto meccanico.
Che palle fotografare senza esposimetro, sempre a guardare quella tabella (sostituita poi da un ritaglio di una scatola di un rullino Kodak) prima di scattare una foto: per quanto potessi essere veloce tu nei tuoi tempi, io avevo i miei, ed erano lunghissimi.
Poi, la soluzione: l’esposimetro esterno, comprato in un negozio di seconda mano. E la meraviglia delle persone quando mi vedono armeggiare con quell’apparecchietto nero, mentre lo punto verso di loro. Forse pensano che sia un disintegratore laser. Di sicuro ne era convinto un bambino a Roma, che si era prontamente rifugiato tra le gonne della mamma, pensando fossi un invasore alieno pronto a ridurlo in gelatina.
Ti scrivo questa lettera con il cuore (e il diaframma) in mano, per ringraziarti, perché ancora funzioni e, nonostante i tuoi trentatré anni, riesci ancora a fare cose come queste. Non romperti, per favore. Ricordati che abbiamo solo sette anni di differenza e l’incubo di passare la vecchiaia vicino a te in un armadio c’è ancora. Ma mica per la solitudine. Per il buio.

Di |2004-05-12T03:03:32+02:0012 Maggio 2004|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |0 Commenti

25 aprile

Sentivo di più questa data fondamentale per la nostra storia (e intendo anche per la storia della mia generazione) quando ero ancora a Gorizia. E so anche perché. Per la vicinanza fisica e opprimente della Risiera di San Sabba. Evito ogni tipo di retorica, e vi prego di farlo anche nei commenti. Anche se, visto come vanno le cose in Italia, sarebbe giusto ricordarsi e ricordare ogni giorno, non soltanto durante le “feste comandate”.

Non so chi sia la persona che ho fotografato alla Risiera una delle tante volte che ci sono andato, il 25 aprile 1998. Ma di tutte le foto che ho fatto là questa è quella che mi sembra più forte.
Non dimentichiamo.

Di |2004-04-25T03:16:00+02:0025 Aprile 2004|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |8 Commenti

Ricordo guanciale: post intimista-nostalgico. Diabetici, occhio.

Iniziamo da me. D’altro canto il post è intimista, no? Ero un bambino bravo, quando ero piccolo piccolo. Non rompevo le palle, non svegliavo mia madre ad ore assurde per la poppata, non strillavo troppo, mangiavo e non facevo capricci. E non combinavo troppi casini. “I problemi”, dice mia madre, “sono iniziati quando hai imparato a parlare”. Ma questo non c’entra.
Un giorno, però, ho fatto qualcosa tipicamente da bambino. Ero sul terrazzo della casa dove sono nato, al quinto piano. Non potevo vedere fuori perché l’orrenda “ringhiera” di cemento impediva a me nanerottolo la vista dell’orizzonte. Molto leopardiana, come cosa. In un cestino sul terrazzo c’erano delle arance. Io ne ho presa in mano una alla volta, appoggiandomele alla guancia, sentendone il freddo. Ogni volta che ognuna prendeva la temperatura del mio corpo, con il candore tipico dei bimbi, la buttavo giù, alla cieca. E ne prendevo un’altra.
Questo racconto mi è stato fatto da mia madre, ma, a differenza di altri episodi della mia vita di bimbo che non ricordavo direttamente, ha sempre avuto qualcosa in più, un non-so-che che mi penetrava fino in fondo. E adesso torniamo al presente.

Mi è sempre piaciuto guardare le fotografie, mie o di altri. E sentivo che c’era una fotografia, da qualche parte, che aveva a che fare con l’episodio che ho raccontato. Ripeto: lo sentivo mio, ma c’era qualcosa in più. Mi sembrava di ricordare il senso di liberazione che avevo nel lanciare della arance dal quinto piano, facendo qualcosa di assolutamente proibito, tra l’altro. Ho portato da casa dei miei degli album di foto. E ho trovato la foto in questione, che non metto qua, anche se l’ho subito passata allo scanner, per motivi di pudore (se proprio siete curiosissimi e mi scrivete, ve la mando, veramente). Mia madre è uscita, mi ha visto in questa posa buffa. Prima di fermarmi, è tornata a casa e ha fatto la foto. L’ho rivista, quindi, dopo tanto tempo. E mi sono reso conto che quello che ricordo nettamente è il freddo dell’arancia sulla guancia.

Sì. Questo è il mio primo ricordo in assoluto. Era l’aprile del 1980. Avevo un anno e dieci mesi. Ed ero biondo.

Di |2004-04-19T00:28:00+02:0019 Aprile 2004|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |10 Commenti

Cats and cigarettes

Ho una confessione da farvi. I miei genitori non sanno che fumo. O meglio, non sanno che fumo sigarette. Cose strane, lo so, ma tant’è. Quindi, dopo il pranzopasquale, dopo il caffè, niente sigaretta. Guardo il mio fratello di parole (special guest per queste festività nel profondo nordest) che se la fuma, la sua, e muoio anche io dalla voglia di una sigaretta. Niente. Fino a che non mi accompagna in stazione, domenica. Nel sottopassaggio, finalmente, posso accendermene una. Salgo le scale e continuo a fare due chiacchiere con il fratello di parole che ha deciso di fermarsi con me fino a che non arriva il treno. Dopo un paio di minuti, qualcuno mi chiama.
“Francesco!”
Mi giro e non ci posso credere: è il medico di famiglia dei miei, nonché loro amico. Personaggio alquanto buffo e strano. Bravo, eh. Tanto bravo che non appena ho potuto ho cambiato medico.
“Uhm, ciao” faccio io.
“Eh, ma sei tu, non ti riconoscevo! Ho visto un fumatore…”
“Ahiacazz'” penso io: mi ha etichettato, è la fine. “Fumatore… Ogni tanto…”, tento di giustificarmi. E mi viene in mente di una delle ultime visite che mi ha fatto. Avrò avuto tredici-quattordici anni. Ausculta, batte, le solite cose. Poi mi guarda là, tutto a posto, ma mi chiede repentinamente: “Sesso? Dico, qualche pippetta?” (testuale). Io divento viola e dico “Nooooooooooo”, ma seriamente. E lui, trattenendo un sorrisino: “No, no, certo”. Tanto per dirvi che tipo bizzarro sia.
Scopro che faremo il viaggio fino a Mestre insieme. Io avrei voluto leggere, ma pazienza. Quando ci sediamo gli chiedo se può mantenere il segreto professionale, per modo di dire, sulla questione delle sigarette, onde evitare che precari equilibri familiari vengano mandati in fumo (ops). Lui acconsente e iniziamo a parlare. Mi dice, tra le altre cose, che:
1. è triste perché gli è morto il gatto, anzi, la gatta a cui la figlia ventenne è affezionatissima. “Non ha amici”, mi confessa. “Non aveva amici”, correggo io pensando si riferisca alla gatta defunta;
2. ha sepolto la gatta in giardino, mettendo delle viole come decorazione, in un punto in cui la figlia – in vacanza con la madre e ancora ignara della disgrazia – possa vedere la tomba dell’amato felino mentre studia. Poi ci pensa e dice: “Va a finire che questa guarda fuori dalla finestra, si intristisce e non studia un cazzo”. Io lo convinco a non chiamare il vicino per fargli disseppellire il cadavere;
3. deve andare in Sicilia, ma non ha preso l’aereo perché ha paura di attentati (era l’11 aprile): evito di dirgli che l’ultimo attentato è stato fatto in un treno, pensando che quel povero uomo ha davanti a sé un giorno intero di viaggio;
4. i genitori sbagliano tutto e sono troppo emotivi;
5. la nostra generazione è fottuta;
6. lui, però, ha problemi alla prostata, che lo faranno sicuramente andare in bagno molte volte di notte, disturbando i suoi compagni di vagone letto. “Dovevo portarmi il pappagallo di carta”, conclude. Io rido. Lui no. Penso a come può essere fatto un pappagallo di carta.
Finalmente arrivo a Mestre e lo saluto. Prima di scendere gli dico: “Oh, mi raccomando. Mantieni il segreto, eh”. “Quale segreto?” chiede lui. “Sul fatto che fumo”. “Ah, pensa, non me lo ricordavo già più. Vedi, io con il segreto professionale non ho problemi, sono un ottimo medico: infatti non mi ricordo un cazzo”.

L'invasione degli ultracorpi e il cane di Pavlov

“Mi sono perso un film, proprio in un cinema: due file avanti a me c’eri tu” (Paolo Conte, “Un fachiro al cinema”)

Quando penso alla mia storia con M., mi viene spesso in mente l’inizio, il vero principio di tutto. Non “come potrebbero essere andate le cose, se”. Io i “se” di questo tipo li odio. E in questo periodo ci penso spesso, perché doveva essere marzo, o giù di lì. Quattro anni fa, credo.
Un cinema pieno, il Lumière, cinema d’essai di Bologna. Io e il mio amico entriamo nella sala, ma è tutto pieno, pochissimi posti sparsi qua e là. Non possiamo vederci il film insieme, troppa gente. Quindi ognuno per la sua strada. Vedo un posto e mi siedo. Alla mia destra c’è lei: rimango fulminato dalla sua bellezza, letteralmente. Iniziamo a chiacchierare del più e del meno, facciamo battute sull’introduzione al film che tiene un professore dell’università, poi si spengono le luci, e inizia il film. Non l’ho visto molto, quel film, perché mi sono girato spesso a guardarla, illuminata dal chiarore dello schermo.
Alla fine del film, ho sentito una voce che diceva piano: “Posso dirti una cosa? Sei bellissima”. La voce era la mia, ovviamente. L’ho capito perché lei stava guardando me, mentre arrossiva vistosamente, diventando ancora più bella. Me ne sono andato.
Non ho mai più detto di getto una cosa del genere ad una donna, né in un cinema, né in un altro posto. E non vedo l’ora di ridirlo, e di dimenticarmi di quando e a chi l’ho detta.

“La cosa importante non è la caduta, ma l’atterraggio” (L’odio, di Mathieu Kassovitz)

Della caduta non mi sono accorto, dell’atterraggio sì. I pezzi sparsi in giro, ovunque, ma per fortuna integri. Una lenta e faticosa raccolta, per poi rimetterli insieme. Ho pensato che quello che mi ha fatto poi è stato tremendamente e crudelmente umano, ma si sa che noi umani siamo capaci delle più crudeli, razionali efferatezze. E il film che ha fatto iniziare tutto era L’invasione degli ultracorpi. Segnale evidente, ma non ci ho fatto caso all’epoca.
Penso di essermi ripreso, dopo un anno, dopo vari scherzi del destino. L’indifferenza a cacciare via l’odio, sentimento intenso e faticoso quanto l’amore, se vero e sentito. Forse è così, ma forse no.
Perché stamattina ho sentito una campanella risuonare lontano, appena distinguibile, e ho salivato sangue, anche se M. non c’entra nulla, visto che non la vedo e non la sento più.  Segno, però, che le ferite sono ancora aperte, anche se colei che le ha prodotte è tornata, se dio vuole, al suo pianeta. Speriamo che il suo atterraggio sia stato disastroso, e che il motore sia guasto, e non possa tornare. In nessuna forma.

Omonimie

Ricevo una telefonata da un numero che non conosco. Nella mia testa si accende una scritta: “Lavoro”. Infatti, nonostante quello che si dice in giro, sono fondamentalmente disoccupato.
“Pronto?”
“Ciao Francesco, sono Martina”
“Martina?”
“La sorella di M. [la mia ex: le cicatrici che vedete ogni tanto sono opera sua], come stai?”
“Bene…”. La scritta “Lavoro” è sostituita da un grosso punto interrogativo al neon.
“Senti, scusa se ti disturbo, sono a Barcellona…”
“Ah”
“E ti volevo chiedere: ma come si chiama quel posto di cui mi hai parlato…”
“Che pos… Io? Quando?”
“Quando sei stato a Barcellona quest’estate, mi hai detto che eri andato in un posto bello, Calle de… Plaza…”
“Io sono stato a Barcellona quest’estate, ma…”
“Qualcosa tipo ‘De Mar’…”
Martina. Un’adorabile, sveglia quindicenne (credo), carina e intelligente: anche lei inesorabilmente intaccata dalla follia della sua famiglia. Anche Martina.
“Ma quando te ne avrei parlato?”
Inizia a balbettare qualcosa.
“Quando? Eh, mi…”
“Io sono stato lì quest’estate, ma io e te non ci vediamo da più di un anno…”, e vorrei anche ricordarle il perché, dicendo qualcosa sui costumi morali di sua sorella, ma evito.
“Ehm, sì, no… Cioè. Scusa, non importa, dai”
E la telefonata finisce. Continuo a pensare alla malattia di mente e alla sua trasmissione genetica, ai piselli di Mendel. Poi, ad un tratto, si illuminano nella mia testa due scritte, identiche: “Francesco”. Dal poco che so della mia ex, della quale meno conosco meglio è, dovrebbe stare con un ragazzo. Che si chiama come me. Forse capisco anche questo. Le scritte si spengono. Buio.

Di |2004-03-20T03:07:00+01:0020 Marzo 2004|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |18 Commenti

Un panino con la mortadella, grazie – Riflessioni e resoconti inutili su un fine settimana come-si-deve

Sabato. Ebbene sì, c’ero anche io a vedere i Franz Ferdinand. Un concerto pieno di VIP, tra l’altro: tra il pubblico abbiamo riconosciuto un redivivo Brian Jones, con i capelli tinti di nero per non farsi riconoscere. In più uno dei roadie dei FF era niente poco di meno che James Hetfield dei Metallica. Avremmo tanto voluti sentirli suonare insieme “I Can’t Get No Sanitarium”. Sarà per la prossima volta. Tra il pubblico anche i Micecars, con i quali ho parlato di chirurgia plastica e nuove correnti negli studi comparati sul wrestling.
Ma insomma, ‘sti FF come sono come non sono. Una sottile (o spessa, o a cubetti, a seconda dei gusti) metafora.
Uno ha fame, voglia di una cosa sfiziosa. Entra da un salumiere che fa panini e gli chiede un panino con la mortadella. Eccolo. Cosa si spera da un panino alla mortadella? Che sia gustoso, che la mortadella sia tagliata bene, che il pane sia fragrante. Punto.
Avevo voglia di ballare come un cretino e cantare le loro canzoni. I FF mi hanno dato esattamente quello che volevo, e forse anche di più. Perché dal vivo suonano forti e potenti, sono coinvolgenti e il loro atteggiarsi non è assolutamente credibile. Il cantante per certe mossette ricorda uno dei Pulp. O anche qualsiasi altro cantante inglese non depressissimo (niente a che fare, quindi, con Ian Curtis e Nick Drake). Ma, finite le mossette, si mette a ridere con gli altri e con il pubblico. Come per dire: “Allora, sono stato bravo stavolta o no?”. Pare, insomma, che ‘sti FF si divertano a suonare (cosa fondamentale), lo facciano bene e siano loro i primi ad essersi meravigliati del loro successo. Tanto per cambiare, lasciatemi divagare.

Flashback. Casa di Franz. Arriva Ferdinand.
Ferdinand: Franz, non puoi capire.
Franz: Cosa?
Ferdinand: Ce l’abbiamo, sfondiamo di brutto. Senti qua (fa un riff di chitarra).
Franz: Cos’è, i Duran Duran?
Ferdinand: No, senti bene (lo ripete).
Franz: Ah, no, sono gli Interpol.
Ferdinand: Ma no, cioè, non hai capito: l’ho scritto io, ‘sto riff.
Franz: Sì, come no. Senti questo (attacca i primi accordi di “Love Will Tear Us Apart”). Che ne dici, eh? Roba mia. Ma va’.
Suonano alla porta.
Franz: Chi è?
Voce: Sono il capo della Domino Records. Passavo di qua per caso e vi ho sentiti. Vi faccio incidere un disco.
Ferdinand: Vedi? Te l’avevo detto, io.

Che poi, diciamolo, le cose in realtà non sono andate molto diversamente. I FF mi inizieranno a stare sulle scatole nel momento in cui rilasceranno dichiarazioni spocchiose e non rideranno più dopo le loro mossettine.
Dopo il concerto dancefloor scatenata. Per quanto ci si possa scatenare ballando in dodici in mezzo metro quadro. Mi sono divertito tantissimo, anche se la legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi non mi ha permesso di esibirmi al meglio durante “Surfin’ Safari”. Poco dopo il sapiente dj ha messo di seguito una canzone delle Hole e “Anarchy in the UK” dei Sex Pistols. Un segnale inequivocabile per andarsene.
P.S. Considerando il numero dipersonechehannounblog che ho visto (senza contare le altre qua sotto), comincio una petizione per eliminare la parola blog-meeting (e affini e derivati): che senso ha?

Domenica. Il ritrovo dei blogger (e vivaddio non blogger) presentialconcertodelgiorno prima (enonsolo) è fissato all’una davanti ad un ristorante del centro. Riprendendo la metafora della mortadella, cosa ti aspetti da un ritrovo di persone di cui leggi spesso con piacere e sghignazzamenti vari le parole? Che si stia bene insieme e si chiacchieri amabilmente. Se l’incontro avviene in un ristorante, poi, ci si aspetta che si mangi bene. Secondo la signora del ristorante “tutto era una meraviglia”. Ah, cosa non fanno i tortellini al Prozac mangiati tutti i giorni. Il pranzo non ha suscitato clamori, ma la compagnia è stata bella, sì. Poi ci siamo speziati l’anima e abbiamo mostrato ai non-bolognesi le solite cose. No, non la triade tette-torri-tortellini. Le tette no, per motivi di pudore (io, al massimo, avevo una serie di foto di tette che porto sempre con me, a volte servono). Non le torri, tanto quelle le hanno viste tutti. Non i tortellini, perché quelli se li è mangiati, ridendo come una pazza, la signora tossicomane del ristorante. Al massimo, sfruttando la sua euforia, avremmo potuto convincerla a mostrare le sue tette. Meglio di no. Abbiamo mostrato loro altre cose, insomma. Poi li abbiamo portati a mangiare il gelato in un posto buono. E poi li abbiamo portati in piazza Santo Stefano. Tutto qua? Tutto qua. Niente di speciale, infatti. Ma volete mettere il godimento massimo che dà un panino alla mortadella quando è fatto bene?

(grazie a tutti, di cuore!)

Differ'nt Strokes e la sindrome di Chicco a Superstrike

Inizio a diventare vecchio, evidentemente, e a condurre una vita strana. Me ne accorgo sempre quando c’è la neve. Del fatto che abbia nevicato ieri l’ho saputo in una sua mail che ho letto stamattina: pensate un po’. L’unica cosa che mi riporta alla normalità è che mi sveglio ad un’ora decente di mattina.
In questi giorni i miei risvegli sono stati caratterizzati da un colpo di tosse fortissimo, che mi scuoteva dal sonno. Quindi mi alzavo, andavo a raccattare il polmone che era fuoriuscito e mi preparavo alla mia giornata di scrittura, miele, sciroppo, propoli e fazzoletti di carta.
Stamattina, mentre facevo colazione, ho rivisto una puntata del telefilm Arnold (in originale, appunto, Diff’rent Strokes, con l’apostrofo) dopo anni che non lo vedevo.

Quando ero piccolo Arnold mi piaceva un sacco. Aspettavo l’ora in cui veniva trasmesso, ogni pomeriggio, poi di mattina, poi non ricordo; ridevo alle battute, ed ero anche segretamente innamorato di Kimberly. I primi sintomi della sindrome del titolo sono stati due, stamattina:
1. le battute mi facevano cacare;
2. Kimberly era un cesso ai miei occhi.

Sì, c’è bisogno di una parentesi, per spiegare cos’è la “Sindrome di Chicco a Supestrike” (la cui scoperta è da attribuire ad un team di cervelli che, se non sbaglio, sono fondamentalmente quelli che scrivono qua – corigetemi se sbalio). Vi ricordate il telefilm I ragazzi della terza C? Io ne andavo matto, come Arnold (anche se ero di qualche anno più grande): mi piaceva Sharon Zampetti, anche se subivo il fascino di Benedetta, le battute mi facevano sganasciare, sapevo le sigle a memoria. Zampetti padre mi è sempre stato sulle palle, ma questo è un altro discorso. Una delle puntate mitiche è proprio quella in cui Chicco va come concorrente a Superstrike, fittizio quiz condotto, se non erro, da Marco Columbro. Una puntata decisiva, centrale, emozionante.
L’abbiamo rivista non troppo tempo fa, quella puntata, e ci siamo resi conto di quanto quel telefilm fosse, tutto sommato, stupido, banale, a volte anche volgare. Sicuramente poco divertente. Zampetti mi stava ancora di più sulle palle, anche perché mi sono reso conto che oggi abbiamo gli Zampetti al potere, praticamente ovunque. La figlia, Sharon, sapeva di plastica. Benedetta aveva decisamente perso ogni fascino. E tutte le icone della fine anni ’80 erano lì, sbattute davanti ai nostri occhi, fuori posto ed evidenti nella loro ingenuità. (Del resto, anche la sigla: “Studiare in jeans c’est plus facile, sentire Dante in Compact Disc”. Anche se c’è chi non la pensa così).
Insomma, “Chicco a Superstrike”, rivista qualche anno dopo, non fa ridere, non emoziona. Una schifezza. Fa sentire il tempo che passa. Adesso sapete cos’è la sindrome.

Sindrome che, guardando Arnold, si è manifestata in maniera violenta e crudele. Ho visto la fine della prima parte della puntata in cui Drummond, il papà adottivo dei fratelli Arnold e Willis, e padre naturale di Kimberly, ha un incidente. Arnold, disperato, dice “i bambini possono piangere” e giù lacrime (fintissime). Immediatamente ho pensato alla malattia che ha colpito Gary Coleman. Quando era piccolo io manco sapevo che cosa fosse una malattia degenerativa. Per me Arnold era un bambino. Poi ho visto Willis. O meglio, ho visto Todd Bridges, l’attore che lo interpretava. Una volta finita la serie, ha tentato di continuare a recitare, ma senza successo (Willis lo si è per sempre, probabilmente). Quindi ha iniziato ad avere problemi di cocaina e altri guai con la giustizia. Adesso si è rimesso a fare l’attore, e forse è anche peggio. E infine Kimberly. Beh, Dana Plato ha avuto gli stessi problemi di Willis, pardon, di Todd Bridges. Non ha recitato, se non in softcore, è stata su Playboy e su Girlfriends. No, non come editorialista. Nel 1999 è morta per overdose di tranquillanti.
Ma non è soltanto vedere queste cose che mi ha scosso, ma anche leggere alcuni orrendi messaggi perbenisti, qualunquisti e demagogici che erano sottesi alle puntate e che ai miei occhi di bambino erano nascosti (che mi siano arrivati direttamente al cervello?). Uno per tutti: Arnold prega Dio che non gli porti via Drummond e gli consiglia di portare via un politico. Per non parlare dei frequenti e spiattellati messaggi anti-droga (di cui c’è sempre evidenza nelle biografie linkate sopra, passando sopra, se potete, al deprecabile sito che le ospita). Probabilmente il discorso sul razzismo, dati i tempi, forse era qualcosa di nuovo in tv, ma non ne sono sicuro.

Però ho un bel ricordo. L’attore che interpreta Philip Drummond, Conrad Baine, compare ne Il dittatore dello stato libero di Bananas, nel ruolo del principale di Fielding (Woody Allen). Quando vidi Bananas per la prima volta, quando apparve sullo schermo mi fece uno strano effetto. Anche perché assomigliava tremendamente ad un mio compagno di classe, o meglio, a come sarà tra una ventina d’anni. E poi a quel tempo mi piaceva ancora guardare I ragazzi della terza C.

P.S. Ma vi ricordate chi era la fidanzatina di Willis, Charlene, nella stagione 1985/86? No? Proprio lei. Evitiamo ulteriori speculazioni, su.

"My strong fingers beneath the snow"

Ogni volta che cade la neve, mi dimentico quando è stata l’ultima volta che l’ho vista. Come se la neve caduta coprisse anche i miei ricordi, e si posasse direttamente sulla neve passata, nascondendola.
Tornando dalla radio, stanotte, sono passato in posti dove non c’erano orme e impronte. E mi sono emozionato.
Però ho capito veramente di vivere di fretta, male, in questo periodo, quando mi sono reso conto che non avevo tempo per fermarmi a guardarla, la neve.
Mi sono accontentato, dopo due ore di chiacchiere e musica lanciate nell’etere, del silenzio.

L’origine del titolo del post è questa.

Di |2004-01-27T03:43:00+01:0027 Gennaio 2004|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |23 Commenti

Serenità

L’ho augurata a tutti per il 2004. I miei amici mi guardano e dicono che esprimo serenità, bene. Quindi l’augurio è valso per me, in primo luogo. Penso, mentre ascolto Talkie Walkie, al perché avevo deciso, ormai qualche mese fa, di aprire un blog. Pensavo, anzi, ero sicuro, di trasferirmi a Milano, e avrei voluto descrivere quella città con i miei occhi di persona nata e cresciuta in una remota cittadina del remoto nordest. Niente di originale, ma mi avrebbe tenuto compagnia. E invece ho deciso di rimanere a Bologna, rischiando moltissimo. Ieri notte mi è presa l’angoscia per questa scelta. Ma, se i miei amici mi vedono sereno, vuol dire che non ho sbagliato.
Il vero 2004, quindi, inizia domani, anzi, tra qualche ora. Ho deciso di rispettare una tabella di marcia rigorosa: al mattino studio-per-esami (da tenere non da dare, finché ho ancora una deontologia… quanto mi do? Poco, mi sa, ma per ora…). E il pomeriggio? Scrivere, in maniera metodica e costante, come si dovrebbe fare. Il tutto inframmezzato da telefonate alle milioni di persone sfuggenti che mi hanno detto “La tua proposta/curriculum/lavoro è interessante, sentiamoci”. Telefonate che, per la maggiore, finiranno con una frase del tipo: “La tua proposta/curriculum/lavoro è interessante, risentiamoci”.
Però domani mattina (tra qualche ora, in verità) vado a comprare un lettore dvd/divx/mpeg/mp3/e che fa anche il cappuccino con la schiuma, sfidando le orde di folli consumatori. Lotteremo per i duecento pezzi disponibili nel punto vendita indicato nel volantino. Quindi i programmi iniziano a saltare da subito. Ma pazienza. Intanto io sono sereno.

P.S. Mi rendo conto che la qualità dei post su questo blog inizia a scadere paurosamente, ma la mia vita, per ora, è piuttosto monotona. Organizzerò presto una spedizione di freeclimbing acrobatico, tranquilli.

Di |2004-01-07T02:07:00+01:007 Gennaio 2004|Categorie: I Me Mine, We Can Work It Out|Tag: , , , , , |8 Commenti
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