I Me Mine

Servizio pubblico

L’autobus che mi ha riportato a casa venerdì pomeriggio mi ha visto stanco, troppo stanco per reagire a quello che ho visto e sentito.
Alla fermata successiva alla mia salgono due ragazzi e una ragazza. Io sono seduto vicino all’obliteratrice.
“Lo facciamo il biglietto?”, dice una ragazza. Ha più o meno venticinque anni, l’aria un po’ strafottente, un piercing sotto il labbro inferiore.
“Io non lo faccio mai”, risponde uno dei due ragazzi, poco più grande di lei, dall’apparenza assolutamente normale.
Bastano queste battute per farmi girare le scatole. I tre si spostano, senza fare il biglietto, facendosi strada a fatica su un autobus abbastanza pieno: ma non si spostano abbastanza perché io non li senta, sebbene a tratti.
I tre iniziano a conversare sull’aumento dei biglietti, in vigore da domani. E si lamentano.
“Che poi” aggiunge la ragazza, “io ti devo pagare per questo servizio? Cioè, in Olanda mica ci sono gli autobus pieni di gente”. Vorrei investirla con un fuoco di fila di parole, banali e non troppo ragionate,  sparate di seguito. Dirle “Che cazzo c’entra”, “Gli olandesi vanno in bicicletta” e fare anche degli appunti su come l’olandese medio possiede una forma di senso civico sufficientemente sviluppata. Ma sono stanco e non reagisco.
I tre continuano a dire banalità, a vantarsi di non avere pagato il biglietto in diverse città d’Italia: una specie di grand tour della violazione di regole, condito con salti del cancello della metro di Roma, evasioni da corriere lombarde e altro.
“Se le cose funzionassero”, continua la ragazza, “ecco, allora sarebbe un servizio pubblico.”
Ed eccola, la frase che mi fa capire che il problema di tutto è il modo in cui gli italiani vedono la cosa pubblica, in genere.
Prima che scendano, riesco a sentire uno di loro che chiede: “Ma è vero che un tempo a Bologna non si pagavano gli autobus?”

Correlazioni

Ieri ho cenato di corsa. Mangio quasi sempre di corsa, in questi giorni densissimi. Per fare prima ho riscaldato l’acqua della pasta nel bollitore. Quando questo ha iniziato a fischiare, ho spento il gas e versato l’acqua bollente in una pentola. Poi ho posato il bollitore che, dopo poco, ha emesso del vapore. Mi pareva che anche lui sbuffasse, esausto.

Di |2011-01-26T08:00:00+01:0026 Gennaio 2011|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |2 Commenti

B/N

Qualche giorno fa il tema del giorno a Maps era l’indicare i segni del declino in atto. Be’, ieri sono andato al cinema a vedere un film uscito da pochissimo, che ha avuto successo alla Festa di Roma. Fuori dal cinema un cartello avvisava che il film era in bianco e nero, come per dire “E non dite che non vi abbiamo avvisati”. Ecco, io credo che se un cinema riceve lamentele perché proietta un film in bianco e nero, tanto da essere costretto a specificare il tipo di fotografia dello stesso fuori dalla sala, è uno dei tanti segni di quanto siamo ancora lontanissimi da una forma qualsiasi di civiltà in questo Paese.

Di |2011-01-17T08:00:00+01:0017 Gennaio 2011|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |0 Commenti

Me vs. Caffarra

Un titolo altisonante per giustificarmi dopo un mese di assenza? No, miei piccoli lettori. Con orgoglio posso dirvi che l’arcivescovo metropolita della città nella quale vivo dal 1996 ha espresso un parere negativo su di me. Roba di cui vantarsi con i nipoti. Com’è andata?

Qualche tempo fa, la meravigliosa amica V. mi propone di scrivere un testo introduttivo per una mostra da allestire in pieno centro a Bologna (nel palazzo comunale, per intenderci): la mostra è organizzata da un’associazione di agricoltori e ha come tema le immagini devozionali nelle campagne bolognesi. Essendoci la parola “devozionale”, capirete che non c’è di mezzo solo un’associazione di agricoltori, ma pure la Chiesa. E vabbè. Mi viene quindi chiesto di scrivere un testo che, in qualche modo, parta dalle figure femminili legate ai culti della fertilità e della protezione delle messi, per arrivare alla Madonna di cristiana memoria, tuttora oggetto di culti legati al mondo dell’agricoltura.
Diligentemente faccio un po’ di ricerche, butto giù qualche appunto e, in una domenica (e quando se no?), vergo la cartella che mi è stata richiesta. L’amica V. è contenta, il padre dell’amica V. anche di più, bene, amen (eh). Nel frattempo, preso dalle mille opere e parole che mi hanno costretto ad omettere qualsiasi impegno dal blog, come si è visto, mi dimentico della faccenda. Fino a che, qualche giorno fa, l’amica V. mi chiama e mi dice che la mostra è stata allestita, ma che ha scoperto che il mio testo non è finito da nessuna parte: non sul pannello in esposizione, né sul catalogo. Perché? Perché è stato giudicato troppo poco religioso da Carletto&co, combriccola nota per considerare Ratzinger un bravo guaglione, ma un po’ troppo progressista. E secondo me se leggete il testo che ho scritto sarete ancora più sorpresi, o forse avrete il mio stesso sospetto: che la Chiesa cattolica sia tuttora fondamentalmente misogina, e pronta a uccidere nel caso qualcuno dica di nuovo che “Dio è mamma”. In ogni caso: mai come stavolta la sconfitta ha sapore di vittoria.

Metastasi

Avrei voluto scrivere, tra qualche settimana, un post sulla mia esperienza su Facebook. Abbiamo aperto l’account di Maps e quindi anche io sono entrato nel magico mondo del social network più diffuso nei Paesi sviluppati: il mio girovagare tra i profili, richiedere amicizie e accettarne da conosciuti e sconosciuti, l’interazione sulla piattaforma sono tutte cose che mi hanno fatto pensare.

Ma c’è qualcosa che è più urgente da dire, secondo me.
Proprio su Facebook, da una decina di giorni, alcune donne e ragazze hanno iniziato a postare sul loro profilo frasi come: “A me piace sul divano”, “A me piace per terra”, “A me piace sul letto”. Prima una, pooi tre, poi cinquanta: questi messaggi sono aumentati nel giro di pochissimo. “Che senso ha?”, mi sono chiesto (una domanda che mi capita spesso di pronunciare, quando sono in giro su Facebook). Poi me l’hanno spiegato (a voce, eh): si tratta di una campagna per la prevenzione del tumore al seno, promossa in questo mese; quelle risposte (evidentemente maliziose e provocatorie, seppure all’acqua di rose) si riferiscono alla domanda “Dove poggi la borsa appena rientri a casa?”. “Che senso ha?”, mi sono chiesto nuovamente. Mi hanno spiegato, sempre a voce, che l’anno scorso la domanda nascosta era “Di che colore è il reggiseno che indossi in questo momento?”. Lo scopo era il medesimo: sensibilizzare le donne sulla prevenzione di quel tipo di cancro.
Attenzione: sui profili di queste persone compariva solo la risposta, senza link né altro che rinviasse ad una pagina del Ministero della Salute, che patrocina la campagna. Esattamente come l’anno precedente.

Allora mi sono fatto due domande. La prima è stata: “Che senso ha fare una campagna del genere in rete, considerando che gli stati, i messaggi, le sollecitazioni in genere su Facebook, per un utente medio come Maps, sono decine e decine ogni ora?”. Una campagna fallita, insomma. Ma mica solo per motivi “tecnici”.
Mi sono infatti chiesto anche che senso avesse parlare alle donne con un linguaggio da uomo. Perché di questo si tratta: la domanda della campagna di quest’anno prevede chiaramente di attirare l’attenzione attraverso risposte che abbiano comunque un retrogusto “sessuale”. Esattamente come l’anno precedente, dove si parlava di reggiseni.
Reggiseni imbottiti, forse?
No, perché io non sono una donna, ma considerando che uno degli esiti più probabili per certi carcinomi al seno è la mastectomia, che accidenti di senso ha parlare proprio di reggiseni? Ma che senso ha di parlare di sessualità in genere, considerando la seconda domanda, la valenza comunque sessuale del capo di abbigliamento sopra citato e, soprattutto, il fatto che presumo che una donna con un seno solo possa sviluppare delle legittime insicurezze proprio sulla sua capacità di essere attraente dal punto di vista erotico?
Ma non ce l’ho con i creativi assoldati dal Ministero, no: mi domando, però, se per una simile campagna per il cancro al testicolo, avrebbero usato una frase come “Tira fuori le palle e affronta la malattia”.
Ce l’ho invece con quelle donne che sono state, ancora una volta, ad un gioco improntato alla mentalità maschilista dominante e che, ancora una volta, si ritorce contro di loro come un boomerang affilato. Così non si va avanti. Soprattutto quando, sempre su Facebook, tra un “A me piace sul caminetto” e “A me piace sul tappeto”, ho visto uno scambio tra due ragazze. Una diceva: “E sei noi donne ci incazzassimo veramente?” e un’altra non rispondeva, non commentava. Semplicemente, cliccava sul tasto “Mi piace”: un gesto minimo, inane e sconsolato simile al sorriso di chi rimane a terra, senza la forza di alzarsi.

Mani in pasta

Sarà paranoia o estrema attenzione, quella che mi fa notare certe piccole cose? Ho trovato nella buca delle lettere il volantino qui a fianco: il mercato delle pizze a domicilio è tremendo, la concorrenza è atroce, e ognuno cerca di conquistare o mantenere una posizione come può. Con offerte, magari. O consegnando il cibo fino a tarda ora. O dicendo che ha il forno a legna.

Però questa cosa dei pizzaioli italiani non l’avevo mai vista. E non ha, per me, un buon sapore. È davvero impensabile permettere a pakistani, cingalesi, magrebini di mettere le mani sul cibo italico per eccellenza? Sono sempre più deluso, quasi da tutto e tutti.

Ma come “bonus track”, ecco il racconto (curiosamente a tema) della mia amica Luisa Catanese: lo trovate su Carmilla On Line.

Di |2010-09-24T08:23:00+02:0024 Settembre 2010|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |3 Commenti

Sei anni e sei minuti

Oggi sono sei anni che Enzo Baldoni è morto. Qualche minuto fa è stata aperta la “sua” mailing list, quella attraverso cui avevamo conosciuto lui e tanti altri simpatici cazzeggiatori, arguti, intelligenti e ironici. La zonkerlist è aperta di nuovo per 24 ore e già fioccano i messaggi di ricordo. Messaggi teneri, ironici, senza zuccherosità o lacrimevolezze.
Ma lui ci rimprovererebbe, con sagace presa per il culo, il fatto che, accidenti, quel “mi manchi”, esplicito o implicito che sia, è proprio dappertutto.
Quest’anno, niente link ai suoi blog (li avete letti, vero?), ma un bel ricordo pubblicato nello scorso aprile.

Di |2010-08-26T00:06:00+02:0026 Agosto 2010|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , |0 Commenti

La timidezza della disperazione

Secondo giorno di lavoro dopo il rientro dalle vacanze: buona parte di me è ancora e l’umore non è proprio ai massimi livelli. Ricordo che sul sito di Repubblica, nella famigerata colonnina di destra, avevo letto un titolo sul “trauma da ritorno”, ma mi pare esagerata come ipotesi.
Mi ferma una persona, per strada, con una cartina della città in mano. Noto che sulla mappa è evidenziato l’Ospedale Maggiore, ma l’uomo mi chiede, in un italiano stentato, come si arriva in via Corticella. Gli faccio notare che è da tutt’altra parte rispetto all’Ospedale Maggiore, ma l’uomo insiste, in inglese, dicendo che vuole andare proprio in via Corticella. Istintivamente, allora, inizio anche io a parlare in inglese, e finalmente lui si allarga in un sorriso. “Sei la prima persona che parla inglese che incontro, oggi”. Sorrido anche io, e gli spiego che sarebbe meglio se prendesse un autobus, per raggiungere le zone che mi ha indicato, ma lui ribatte dicendo che no, ci andrà a piedi. “Ho problemi, qui a Bologna. Io vengo dall’India, la mia famiglia è a Napoli, moglie, e due bambine”, continua, indicando con il palmo orizzontale rispetto al terreno l’altezza delle figlie. “Sono qui per lavorare”, dice. Io prendo in mano la cartina per fargli vedere con il dito la strada da percorrere, quando noto che l’uomo ha gli occhi lucidi. Nello stesso momento in cui me ne accorgo, lui si porta al viso il fazzoletto di carta che tiene in mano e asciuga un principio di lacrima, tornando subito a interessarsi alle mie indicazioni.
E allora penso che già mollare tutto è difficile, che lasciare moglie e figli lo è ancora di più e che questo continuo non essere capiti, aiutati, compresi, dev’essere insostenibile. Ma ci vuole comunque un coraggio quotidiano a sopportare tutta la fatica e il dolore, e non è da tutti: perché anche tra quelli che vengono qui a trovare lavoro ci sono i deboli, i sentimentali, i fragili, quelli che della loro disperazione non riescono a farsene una ragione (e come non capirli?) eppure devono metterla da parte e andare avanti.
Mi ha salutato benedicendomi, e io ho mentalmente mandato a fanculo me stesso, il trauma da ritorno, la colonnina di destra di Repubblica e la mia finta, ipocrita ed egoista leggerissima infelicità.

Di |2010-08-24T14:13:00+02:0024 Agosto 2010|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |2 Commenti

Come al solito, si festeggia in contumacia

Sono in ferie da un po’, e tra un po’ me ne vado proprio. Il blog è trascurato, la città si svuota, i telegiornali aprono con notizie sui cuccioli nati negli zoo del mondo, e ADayintheLife compie, tra qualche giorno, sette anni.

Avrei voluto scrivere un post mistico esoterico sul numero sette, avrei voluto scriverne uno sociologico musicale su Best Coast, ma invece mi accontento di questo “chiuso per ferie”. Va bene così: il blog di cinema va avanti ancora per un po’, poi si ferma anche lui. Tanto si sa che il vero ricominciamento è a settembre, no?
State bene.

Di |2010-08-07T16:32:00+02:007 Agosto 2010|Categorie: I Me Mine|Tag: , , |0 Commenti

Era una nota buia e tempestosa…

Inutile negare che devo molto a Matteo B. Bianchi, una delle pochissime persone che ho conosciuto nel mondo editoriale che non fosse uno stronzo. Ho presentato spesso i suoi libri e lui ha introdotto con passione la presentazione milanese de La guerra in cucina, qualche mese fa. Ma soprattutto Matteo, qualche anno fa, ha scelto un mio racconto per la sua rubrica su Linus “Laboratorio esordienti”, ed è stato un onore essere pubblicati  grazie a lui su una delle riviste più importanti del panorama editoriale italiano, di cui io sono affezionato lettore fin da quando ero piccino. Oltre a quello spazio, Matteo curava anche una piccola rubrica di novità letterarie “altre” rispetto a quelle recensite dal grande vecchio Piero Gelli. Si chiamava “Shorts”, ed era davvero un bell’osservatorio sui giovani autori, e non solo.
Perché declino tutto al passato? Perché dal numero di maggio, Matteo non ha più i suoi spazi. Perché non  li ha più? Leggetelo sul suo blog.
È uno schifo, e lo sarebbe anche se non avessi mai neanche letto una riga di Matteo. Ma, conoscendolo, perdonatemi, sono ancora più incazzato.

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