I’m A Loser

Piccolo genio guastatori

Finalmente, dopo settimane di telefonate a vuoto e incontri mancati, D., il precedente proprietario della casa in cui vivo, è passato da me a prendere la posta che ancora gli arriva al suo vecchio indirizzo. D. scrive, disegna, traduce, e, visto che gli pare poco, ha anche costruito per metà la sua casa, ora mia. Ha fatto la cucina in muratura. Ha realizzato una bellissima libreria su misura, che si è portato via – tanto che sospetto che la sua nuova casa sia stata scelta solo perché c’entrava perfettamente la libreria – e, soprattutto, ha posato il parquet.

Ed è stato proprio il pavimento la prima cosa che D. ha notato, esclamando, con accento britannico (mica per posa, è proprio inglese): “Che meraviglia!”, mentre, dietro di lui, appariva il suo pargolo quattrenne. Un bimbo bello, ma un po’ chiuso, spesso imbronciato: neanche il gelato alla fragola che stava mangiando riusciva a farlo sorridere. D., nel frattempo, era praticamente fermo nell’ingresso (che è ancora in fase di sistemazione) e continuava a fare commenti estasiati sul lavoro che ha fatto l’omino del parquet. “È più bello di quando l’avevamo messo noi, ma complimenti, che bello, complimenti.” Ad un certo punto, per rompere l’imbarazzo, offro da bere a padre e figlio, e mostro loro camera e sala-cucina. E anche lì D. dice che gli piace molto tutto. Io sono contento: insomma, ci ha vissuto per anni, l’appartamento l’ha rimesso a posto lui, mi sento quasi orgoglioso. Do un bicchiere d’acqua al bimbo e preparo un paio di cose per me e per D. Sto per passargli il bicchiere, quando sento un rumore sordo, seguito da un rumore liquido. Inequivocabile.

Il bimbo ha vomitato sul mio bellissimo, lucentissimo, apprezzatissimo parquet. A getto. Il vomito, non il parquet. L’inglese, allora, l’ho fatto io: con perfetto aplomb sono andato a prendere straccio e secchio, mentre i conati del pargolo si tramutavano in urla disperate e invocazioni alla mamma. Ho evitato di dire: “Il gelato alla fragola vomitato di fresco nutre il legno”. Ho preferito stare in silenzio, per impedire che lo spirito di Erode mi prendesse.

Infine ho accompagnato il desolato e imbarazzato padre e il congestionato figlio alla porta: entrambi mortificati e sporchi di vomito. E D. si stava anche dimenticando di prendere la sua posta.

P.S. D., se dovessi leggere queste parole: it’s dramatization. Comunque: do not try this at home. Not mine, anyway.

Di |2006-07-04T17:06:00+02:004 Luglio 2006|Categorie: I'm A Loser|Tag: , , , |6 Commenti

Leggere attentamente le istruzioni

Per una serie di motivi, ho sempre avuto un rapporto inesistente con il freezer: cioè, io lo volevo, ma lui non si faceva vedere. O era perennemente pieno di impegni e scatole, quando abitavo con altre sei persone, o era debole e comatoso, come il finto freezer del minuscolo frigo della casa che ho appena lasciato. Nella mia nuova casa il freezer c’è. Me ne sono reso conto da poco, quando ho riscoperto i banconi dei surgelati al supermercato. Di solito ci passavo davanti senza degnarli di uno sguardo, oppure comprando qualcosa che avrei probabilmente mangiato mentre aspettavo l’autobus. E invece, l’altro giorno, ho finalmente comprato dei prodotti da mettere in frigo. Voi direte, che ne so, del caviale di “Quattro Salti in Padella”. L’anatra alla pechinese surgelata. Niente di tutto questo. Ho comprato due pizze.

(Rumori di disapprovazione dal pubblico)

Margherita, per la precisione.

(Qualcuno lancia degli oggetti)

Dell’Esselunga.

(Scatta la rivolta popolare)

Insomma, l’altra sera, tornando dalla radio, stanco e affannato, mi sono detto: e adesso mi mangio una bella pizza. Ho cantato una canzone col mandolino intitolata “Si schiatta di caldo, ma preferisco il caldo del forno per dieci minuti che mettermi a cucinare.” E ho pensato ad un altro elettrodomestico usato sempre poco: il forno. Nella mia casa nuova il forno c’è. E’ lucente, bellissimo, essenziale, che guarda, quasi quasi ti pare brutto metterlo là, incassato tra gli altri elettrodomestici, e lo vorresti minimo minimo come comodino in camera da letto.
Però io a questi oggetti ci tengo, e leggerei anche le istruzioni di una torcia elettrica, figuratevi il manuale di un forno. Una lettura appassionante, ricca di colpi di scena, emozionante, calda (scontato). Mi siedo comodo, accendo la pipa, e, sorseggiando un cognac, inizio a leggere.

La prima volta che usate il forno – “La prima volta”, penso, romanticamente, poi torno alle istruzioni – dovete farlo stare acceso per un’ora a 200 gradi.
Sbianco. Ma c’è dell’altro, un suggerimento assolutamente prezioso, metti che…
Durante quest’operazione è consigliabile tenere aperta la finestra.

Ho ordinato una pizza.

Neighbours 8 – Sneak Preview

Ancora non mi sono trasferito nella nuova casa, questione di giorni. Ma, come immaginerete, sono spesso lì per fare lavori, lavoretti, stucchi, affreschi, trompe l’oeil… Vabbè: sono lì per montare mobili Ikea, e basta. Cuore di truciolato.
Ho passato in questo modo anche il giorno del mio compleanno (venerdì: grazie, sì, ho espresso il desiderio, ma che carin*, non dovevi), giorno scelto dal fato per il recapito a casa mia di elettrodomestici e di un armadio di tre metri per due. Che è stato montato da due omini prezzolati. Omini prezzolati che, come da accordo, non solo hanno montato il bestione (frase che scritta così ha un sentore di zoofilia snuff), ma hanno anche eliminato i vari imballaggi, portandoli via con loro.
E si sono portati via anche un cartone che sembrava vuoto, ma in realtà conteneva istruzioni e viti di un pezzo che dovevo montare io. Ho realizzato la cosa troppo tardi, e ho pensato che avevo un’unica possibilità per non tornare in quel posto maledetto alle porte di Bologna, e mi sono precipitato giù dalle scale.
Sulle scale ho incontrato una graziosa vecchietta che, come tutte le graziose vecchiette, quando sentono un giovane che avanza alle loro spalle, anche se zoppo, in sedia a rotelle, sciancato o tutt’e tre le cose, si mettono di lato come se stessero passeggiando lungo l’Autosole nel pomeriggio del 14 agosto. “Vada, vada, che lei è giovane, e io sono lenta.” Trascuro lo scarto logico tra le due opposizioni, penso che alla fine qua, 9 giugno dopo 9 giugno, iniziamo a vedere la terza decina, e mi comporto da perfetto vicino. Forse troppo, nel senso che, dieci minuti dopo che mi sono presentato già mi dice che mi tratterà come suo nipote e mi carezza il viso (giuro). E poi iniziano i guai. Sempre fermi sulle scale, mi informa che:
– in quel palazzo ci sono continuamente dei furti;
– sono previste grosse spese per rifare questo e quello.
Inizio ad essere preso da un vago senso di ansia, e sono tentato di chiedere alcune delle pastiglie che sicuramente la signora tiene nella borsa. Glisso, e intanto arriviamo al portone. Lei mi carezza ancora, mi chiama per nome, mi dice “chebelgiovine” (che sa un po’ di gerontofilia snuff).
Ma io ho una missione da compiere.
“Mi scusi signora, devo fare una cosa”, dico, e con gesto atletico mi sporgo nel cassonetto sotto casa e inizio a ravanare nella monnezza, per cercare l’imballaggio perduto.

Epilogo. Alla fine l’ho trovato. E quindi la mia dose di culo per il 2006 l’ho usata tutta. In un cassonetto.
Il secondo tragico epilogo. Delle orrende spese di cui sopra si discuterà nella prossima riunione di condominio. La prima riunione di condominio della mia vita.
Stasera.
Alle 21.
In perfetta contemporanea con Italia – Ghana.

Pagherò, in ginocchio da te

Sono iscritto a diversi siti di lavoro. Sapete, JobOnLine.com, FuckThePrecariat.net, cose del genere. Funziona così: tu metti il tuo profilo, le tue esperienze di lavoro, i tuoi obiettivi, e poi ti arriva una mail alla settimana con delle offerte di lavoro.
Ho scoperto che io corrispondo al profilo di sbobinatore di nastri. Cosa fa lo sbobinatore di nastri? Semplice: mette su una cassetta e trascrive quello che c’è registrato sul nastro. Una pratica abbastanza comune per un “giornalista freelance” (vi prego, notate le virgolette) come me, che magari fa un’intervista per la radio e poi la trascriva sperando che venga pubblicata da prestigiose testate come “L’eco di Roccasecca inferiore” o “Il corriere di Baranzate”.
Ho risposto alla mail che mi offriva un lavoro da sbobinatore con il dovuto entusiasmo. Una settimana dopo mi hanno chiamato, per dirmi che stavano valutando il mio profilo per cinque ore di nastro. Nella scala degli sbobinatori penso che equivalga alla valutazione del conduttore di San Remo per uno showman.
Mi hanno richiamato ieri, dalla stessa agenzia di servizi (ah, signora mia, il terziario avanzato… Avanzato nel senso che nessuno ha avuto il coraggio di mangiarselo ed è rimasto lì, prendete pure). Ma non per le cinque ore, bensì per un lavoro di un paio d’ore di nastro. Ottanta euro netti, da consegnare entro lunedì. Stavo per accettare, quando ho chiesto: “Sì, ma quando mi pagate?” Musica d’attesa. Poi la signorina riprende la linea e mi dice: “Dall’amministrativo mi dicono che noi facciamo sessanta giorni fine mese”, una formula che vuol dire che se fatturano lunedì prossimo il mio lavoro mi pagano alla fine di luglio. Ottanta euro. Una somma che io, sebbene sia tutt’altro che ricco, non rifiuterei di prestare ad un amico di un amico.
Non ho saputo dire altro che “No, vabbè, dai, per ottanta euro un sessanta giorni a fine mese, no, dai.”
La gentile signorina mi ha ricordato che viviamo in un regime libero e democratico, e mi ha detto che posso rifiutare.
E appena ho chiuso la telefonata ho capito che no, non avrei sbobinato il festival di San Remo neanche quest’anno.

Una premura fuori dal Comune

Sapete, esiste la tassa sulla spazzatura, che qui a Bologna si chiama tasshashulrushco. E’ una cosa a cui uno di solito non pensa: una tassa sulla monnezza sembra quasi un paradosso. Invece essa c’è, e di solito uno se ne accorge quando gli arrivano i bollettini delle tasse arretrate non pagate, con cifre che superano abbondantemente il migliaio di euro: quando arrivano tali comunicazioni, la prima cosa che si fa di solito, instintivamente, è abbracciare il cestino della carta straccia, giurandogli eterno amore, per poi tentare di venderlo su e-Bay.
Per evitare brutte conseguenze, insomma, sono andato all’ufficio apposito un paio di mesi fa, per denunciare la mia abitazione, e la metratura della stessa. Eh già, perché la tassa è calcolata sul metro quadro: conviene, quindi, spargere ogni superficie del pavimento della propria residenza con dei rifiuti, urlando cose come: “Oh, sono quaranta metri quadri, ma me li godo tutti”, prima di svenire per i miasmi della decomposizione. Ma non divaghiamo: due mesi fa ho riempito il mio bel modulo, venendo a sapere, che ne so, il foglio catastale con il quale è registrata la mia abitazione e altre cose assurde, come l’orario di apertura dell’uffiziodelrushco. Poi, come tutti, ho aspettato paziente l’arrivo del bollettino, che è arrivato. Tasse per l’anno 2006, da pagare in comode rate in numero di quattro (4), da aprile a ottobre. Il punto è che tra poco più di un mese cambio casa, quindi nuova metratura da riempire di rifiuti. Come fare? Basta chiedere, e infatti telefono. La domanda, l’avrete capita anche voi, è semplice: quante rate devo pagare relative a questa casa, visto che la cambierò a metà anno?
Ci ho messo due giorni per trovare qualcuno al telefono: forse dovevano ogni volta superare mucchi di monnezza prima di arrivare alla cornetta, fatto sta che ce l’ho fatta, in una giornata nervosa e stancante. “Lei intanto paghi”, mi dice l’impiegata, “poi quando cambia casa, ce lo comunica perché cambia la metratura e l’importo dell’imposta.” “Sperando che non cambi neanche il tasso della tassa”, penso io. Ma la risposta non mi soddisfa, ovviamente, e rifaccio la domanda. Inizia un gioco snervante di dialettica, in cui l’impiegata mi ripete sempre le stesse cose, ma con parole diverse. Mi chiedo se di cognome faccia Bartezzaghi, e nel frattempo sento che sto per perdere: la pazienza, innanzitutto. Lei mi coglie alla sprovvista. “Ha capito?” “Sì”, dico io mentendo. “Secondo me no”, ribatte lei. “Infatti”, dico io e sento che sto per mettermi a piangere. “Eh, ma quando non capite le cose, mica vi dovete vergognare, insomma”, dice l’impiegata, e mi rispiega, stavolta senza anagrammi, cambi di vocale o figure retoriche. E io capisco, e mentre capisco spero che non mi metta un brutto voto, che quelli, come la tasshashulruscho, si pagano a fine anno.
“Vediamo la sua pratica”, continua lei. Io ormai sono sotto interrogazione, devo resistere. “Lei risiede in via Riva di Reno 58”, legge l’impiegata. “Veramente no”, dico io, e comunico il mio vero indirizzo (che, per inciso, non è neanche lontanamente avvicinabile da un punto di vista anagrammatico, fonetico o enigmistico a quello che mi ha detto l’impiegata). “Ci dev’essere un errore”, dice Madame Lapalisse. “Lei lo ha scritto bene?” Evito la domanda trabocchetto e lei ammette che potrebbe essere stato un errore loro. E mi chiede il numero di telefono: per non essere bocciato, penso, me la porto anche a letto, la prof.ssa Monnezza, e glielo do.

Epilogo. Due giorni fa, alle nove di mattina, ricevo una telefonata. “È il Comune di Bologna”, dice una donna al telefono. Io sono sveglio da cinque minuti, e spero solo che non ci sia un compito in classe a sorpresa. “Salve, sono quella dell’altro giorno”, mi dice un’altra donna al telefono. E storpia il mio cognome. Io la correggo, e lei: “Sicuro? Guardi che mi ha detto così l’altro giorno.” Evito di dirle che è anni che pronuncio il mio cognome, e la lascio continuare. “Il suo indirizzo… Abbiamo sbagliato noi a scriverlo, è stato un nostro errore, sa? L’ho chiamata solo per comunicarglielo.”
Per sicurezza aspetto che si pronunci la Corte di Cassazione.

Ho fatto tre al Superenalotto

Ho fatto tre al Superenalotto, davvero. Nell’estrazione di giovedì scorso. Voi non avete mai giocato al Superenalotto? Non siete mai stati tentati dal jackpotmilionario? No?
Beh, io ci gioco da un po’. Non è un modo per risolversi la vita, questo lo so. Ma, d’altro canto, con lo stipendio che ho dovrei lavorare diecimilaseicentoquindici anni, per accumulare dei soldi. Ovviamente senza contributi. E senza pensione. Anche perché sforerei l’età pensionabile di un bel po’, e se dovessero pagarmi i contributi per tutti quegli anni di lavoro dovrebbero regalarmi un piccolo stato dell’Africa centrale come ricompensa. Quindi preferisco giocarmi le mie due combinazioni da un euro e tentare il sei.
Sapete quante possibilità ci sono di fare sei al Superenalotto? Le hanno calcolate dei matematici. Poi, quando hanno finito di ridere, hanno comunicato al mondo il risultato: una su seicento milioni. Circa. È il circa che mi dà fiducia, ovviamente. Pensate, quindi, a tutta la popolazione dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, ognuno con la sua bella combinazione da un euro. Tralasciate la fila che ci sarebbe alle ricevitorie. Beh, di questa massa di gente, tedeschi, sanmarinesi, newyorkesi, e ovviamente anche gente del Wyoming, farebbe sei uno solo. Immaginate che rosicamento gli altri. In confronto fare tredici al Totocalcio o vincere la Lotteria Italia è una bazzeccola. Nonostante questo io e altri milioni di persone giocano al Superenalotto. E non venite a fare discorsi da formichine, che con quell’euro risparmiato, eccetera eccetera: ci vorrebbero sempre migliaia di anni per accumulare una cifra decente, per giocare finalmente il sistemone spaziale globale, che aumenta moltissimo le possibilità di vincita: una su trecento milioni. Via gli Stati Uniti dalla competizione, insomma.

Fatto sta che giovedì scorso ho fatto tre. È tremendo fare tre. Perché non è fare quattro, né cinque, né cinque più uno. (Sei l’ha fatto la signora Evelyn Jackson di Tampa, Florida). E’ quasi vergognoso. Anche mio padre ha fatto tre, una volta. Si vergognava talmente tanto di farmelo sapere che, per attutire il colpo, mi ha detto “Non sono tuo padre. Ah, e poi ho anche fatto tre al Superenalotto”.
Quando ho visto i risultati delle estrazioni ho avuto un minuto di euforia, fantasticando se, coi soldi vinti, avrei potuto prendere, oltre alla birra media e alla quattro stagioni, la proibitiva aggiunta di mozzarella di bufala.
Venerdì mattina sono andato nella ricevitoria dove avevo giocato il giorno prima. “Salve”, ho detto imbarazzato al gestore, porgendogli la schedina. “Avrei fatto tre al Superenalotto.” “Bravo”, mi ha detto il gestore, pensando ai cazzi suoi. “Sono dodici euro e sessanta.” Ha ravanato nella cassa, poi mi ha guardato e mi ha chiesto: “Non avrebbe mica quaranta centesimi di resto?”

La rivolta degli oggetti – Parte quinta

Era dall’aprile di due anni fa che non usavo un titolo del genere e, sinceramente, pensavo di non farlo più. Ma stavolta non si tratta di banali disguidi tecnologici e informatici, ma di qualcosa che viene dal profondo. Molto dal profondo. Per questo consiglio la lettura di questo post solo in ore molto lontano dai pasti.

Insomma, com’è come non è, vivo da quasi un anno in questo piccolo appartamento nel cuore di Bologna: quarantacinque metri quadri con cantina. Nel senso che il bagno e la cucina sono la cantina. Sì, mangio ed elimino ciò che ho mangiato sottoterra, in un estremo gesto di pudore, nascosto agli occhi del mondo (poi il letto è a due metri da terra su un soppalco, ma ciò che faccio là ha del divino. Parlo del dormire, che avete capito). Quindi, il mio bagno è poco sopra le fognature. (Oh, io vi ho avvisati, eh. Se iniziate a sentire qualcosa allo stomaco chiudete questa finestra e non ci pensate più).
Oggi pomeriggio verso le tre ho sentito un rumore simile a quello che fanno gli aviogetti quando solcano i cieli, che uno guarda in alto e non li vede perché viaggiano oltre la velocità del suono e quindi quando li si sente sono già passati.
Solo che quel rumore là veniva da sottoterra. Ma non da sotto sotto. Dal bagno, dai.
La prima volta non ci ho fatto caso, anzi, ho guardato il cielo, metti che il jet avesse inchiodato nell’aere e stesse facendo retromarcia.
La seconda volta ho avuto dei sospetti.
La terza volta mi sono precipitato giù in bagno, e ho visto un dito di liquame invadere la parte vicino alla tazza. Poi ho aperto la doccia. Stava vomitando da sotto in su, cioè dallo scarico.
“Hai bevuto di nuovo”, le ho detto. “Cambia shampoo”, mi ha detto lei, e ha avuto un altro conato. “Se mi mettessi in testa quello che stai spargendo per il piatto doccia…” “Avresti capelli forti e concimati”, ha concluso lei, sarcastica.
Ho immediatamente preso il telefono per contattare l’amministratore, quando hanno suonato il campanello di casa.
Ho aperto e, davanti a me, si è presentato Tom Savini. L’uomo dello spurgo era identico al mitico Tom, davvero. E lì ho capito che la situazione stava virando sullo splatter. Ho immaginato il corridoio di Shining invaso non dal simbolico sangue ma dalla terricola merda. Ho immaginato Ewan McGregor, vestito come in Trainspotting, che suona a casa mia, entra in bagno e dice “Eh no, io in quel cesso non ci entro manco se c’è nascosta una tonnellata di eroina”, per poi aggiungere “E tu sai dove mi sono andato a cacciare per una dose”.

Mi ha risvegliato il Tom Savini felsineo, che mi ha spiegato che l’avevano chiamato dal civico 15, perché le cose andavano male.
Un’ora dopo, e numerose vomitate della doccia dopo, è tornato per dirmi che anche il 19 era messo male.
Ora, vediamo se siete intelligenti: a che numero civico abito?

Adesso pare che tutto sia calmo. Un possente rutto del bidè ha segnalato la tregua. Ma per me il rumore dei jet sarà per sempre legato alle profondità degli scarichi. Come dicevano i Pink Floyd: “Goodbye blue sky”.

Di |2006-02-06T23:03:00+01:006 Febbraio 2006|Categorie: I'm A Loser|Tag: , , , , , |7 Commenti

Free

Tra tutte le parole importanti, care e cari, “free” ha un posto particolare. Comprensibile a chiunque, spesso legato al sostantivo “freedom”, questo aggettivo è una ventata d’aria  per il dissidente imprigionato, per il consumatore squattrinato, per il pensiero oppresso. E anche per il lavoratore atipico.
Ne inizio a comprendere i diversi significati con il passare del tempo, e con l’esperienza. Eccone alcuni.
Letteralmente “stampa libera”, in realtà il “free press” è un giornale o giornalino o giornaletto che viene diffuso gratuitamente per strada o nei locali. Può essere informativo (City, Leggo, Metro), con tendenze di costume (Urban) o semplicemente pieno di appuntamenti ed eventi che si svolgono nella città in cui viene distribuito. Un paio di mesi fa mi contatta un free press di quest’ultimo tipo, con sede a Bologna, e mi chiede di scrivere di cinema per loro. Nella mail si intende chiaramente che non potrò essere pagato. Ed ecco il duplice significato della parola gratis. Non paghi per prenderlo, non paghi per scriverci sopra. Siccome è una vita che lavoro gratis, tento al primo colloquio che ho con il direttore di ottenere qualche vantaggio materiale dalla mia eventuale collaborazione con il giornale. Dopo avere scartato un pagamento in termini di “visibilità” (visto che, sebbene la mia firma in fondo all’articolo sia in grassetto, sempre di carattere in corpo tre si tratta), dopo avere rifiutato un compenso in forma di caciotta venuta direttamente dalla Sicilia, fatta con le pecore della prozia della redattrice, riesco a piegare i vertici del free press per farmi avere una tessera che mi permetterebbe di andare a vedere tutte le proiezioni di un noto multisala cittadino gratis, free. E quindi accetto.
Per scoprire che la tessera è sospesa durante i primi dieci giorni di programmazione di qualsiasi film. Qualsiasi. Ora, dovendo guardare i film al massimo entro una settimana dall’uscita, per assolvere i miei doveri radiofonici, la tessera si rivela fondamentalmente inutile.
Rimane, quindi, il problema di fare dei soldini da qualche parte, per sfruttare il tempo libero che il lavoro part time mi lascia. Scartando alcune attività a me poco consone (tipo carpentiere, maestro d’asilo, fisico nucleare e, soprattutto, capo del mondo, che richiederebbe – ne sono certo – un full time che non mi posso permettere), penso ad un’altra tessera che ho e mi butto verso il giornalismo free-lance.
Il giornalista free-lance, spesso, è un piazzista. Tenta di vendere a chiunque qualsiasi cosa che ha scritto in vita sua, dalla lista della spesa ai dossier segreti del KGB (in questo caso, ovviamente, non appare la sua firma in calce). Fondamentalmente tutti cercano un giornalista free lance. O meglio, tutti sono disposti ad avere servizi incredibili, magari da zone delle quali gli inviati dei giornali non frequentano neanche gli alberghi. Io, al massimo, potrei fare un servizio dal Pilastro*, ma comunque mando lo stesso il mio curriculum qua e là, dovunque si richiedano delle collaborazioni di qualche tipo. Ed ecco la mail che ho ricevuto stamattina.

Gentile Utente,
la ringraziamo per averci contattato e per averci inviato il suo curriculum via mail, l’annuncio pubblicato nelle offerte di lavoro di XXX, in realtà riguarda la nostra ricerca di collaboratori free lance disposti a scrivere recensioni a titolo gratuito e volontaristico, naturalmente tutti i collaboratori usufruiranno degli accrediti stampa per seguire gli eventi da recensire, se questa offerta dovrebbe essere di suo gradimento e le interesserebbe collaborare con la nostra testata giornalistica, la invitiamo a contattare il nostro direttore responsabile, drt. YYY che le spiegherà tutte le modalità per l’inizio della collaborazione.
Ringraziandola ancora per la sua disponibilità e complimendomi con lei per il suo brillante curriculum, le porgo i nostri più cordiali saluti.

Quello che mi ha comunicato questa lettera, di nuovo, è il senso di libertà. Di un mercato del lavoro flessibile, mobile, elastico, volontaristico, libero da costrizioni, sindacalismi, burocrazie contrattuali. E, soprattutto, libero da regole grammaticali.

* Quartiere periferico di Bologna, dotato di fama sinistra e malavitosa (ma secondo me non è male).

De fiducia (it all started from a salama da sugo)

L’esperienza non insegna nulla, cari e care. E quindi, ho ridato fiducia alla salama da sugo e lei me l’ha fatta pagare di nuovo. Non contento della passata esperienza, lo chef S. (sempre più rapito dalla figura di Allan Bay), quando ancora doveva cuocere i tortelloni, ha detto: “E dopo tutto questo, un bel ‘Between the sheets'”. Noi commensali l’abbiamo guardato stupiti, capendo che il nome del cocktail vuol dire “tra le lenzuola”, ma abbiamo guardato rapiti la salama, immersa nell’acqua bollente per gli ultimi minuti, dopo la solita lunga cottura di sette ore. La salama è stata servita a tavola, ma con più spavalderia dell’altra volta. Ed è stata mangiata velocemente, troppo velocemente, accompagnata da abbondante vino rosso. Ho sentito distintamente la salama ridacchiare, mentre la finivamo a colpi di cucchiaio. Poi è arrivato il famoso cocktail di cui sopra. Poi…

Stamattina mi sono svegliato in condizioni orrende. La testa pulsante. La Novalgina scaduta. Una giornata di lavoro davanti. Ma prima, un altro impegno: andare a dare dei soldi all’agenzia immobiliare che dovrebbe portarmi alla mia nuova casetta.
Arrivo davanti al bancomat, che ormai mi vede talmente spesso che mi dà il cinque alto, quando mi avvicino. Sono troppo distrutto per cercare di tenerlo a distanza. Infilo la carta, digito il codice. Sbagliato. “Oh cazzo, ma non era…”. Riprovo. Sbagliato. Annullo l’operazione. Aspetto un po’. Rimetto la carta. Sbagliato. “Ma come…” Sbagliato. Riannullo, riprovo. Penso al codice, ma mi viene in mente solo la salama da sugo. Codice sbagliato. Rumore di risucchio. Carta trattenuta. Il bancomat non mi saluta neanche, mentre entro in banca.
La cassiera mi dice che prima di domani mattina, non se ne parla. Chiedo se posso ritirare dei soldi, anche se ho il conto in una filiale della stessa banca, lontana lontana. “Non c’è problema”, dice la cassiera, ma:
1. controlla se ho soldi in banca;
2. chiama la banca per farsi mandare via fax la mia firma;
3. si rende conto che i fax della filiale laggiù non funzionano: come fare a darmi fiducia? Facile:
4. inizia a farmi i nomi degli impiegati della filiale lontana lontana, per sapere se li conosco (giuro), come garanzia del fatto che io sia io. Al terzo Mario Rossi che mi viene nominato, ammetto in lacrime di essere un egoista che non si è mai interessato a fondo delle vite di chi amministra i suoi risparmi.
Intanto, nella cassa accanto a me, un uomo chiede quattromila euro in contanti. Immediatamente dopo la cassiera riesce a darmi i miei soldi, rassicurando la filiale lontana lontana che, in fondo, trecentocinquanta euro sono una piccola somma. Io mi rendo conto che la salama che è in me ha già progettato sei differenti modalità di rapina di quella filiale, e che trecentocinquanta euro sono ben più della metà del mio stipendio.
Arrivo in agenzia con i miei bei soldini, li saluto, e li lascio nelle mani dell’impiegata, con anche una copia delle buste paga, eccetera. Poi l’impiegata mi guarda e mi dice: “Sa, c’è un problema per l’appuntamento con la padrona di casa. Ha visto la radio dove lavora e ha pensato che lei potrebbe essere un no global.” Nascondo immediatamente la foto di Casarini che porto sempre con me e tento di spiegare che, oltre a lavori con contratto, lavori casuali, la firma di mio padre come fidejussore, una boccetta di sangue e un patto con la yakuza, non ho altre garanzie. “Vedremo che si può fare”, dice l’impiegata.

A volte, andare a lavorare, è una pausa, in una giornata.

Tornando a casa dalla radio, suona il telefono. Mi sto appena riprendendo dai postumi della salama, ma il forte odore di ascella che c’è in autobus, misto al lieve ondeggiare del mio corpo pressato tra gli altri, non aiuta. Rispondo, è l’agenzia. “La padrona di casa vorrebbe la firma di suo padre nel contratto, e anche del padre di C.” In quel momento sull’autobus una signora bestemmia la Vergine dicendo che le hanno rubato il portafoglio. Ovviamente tutti gli occhi dei passeggeri vanno in cerca della pelle più scura, immediatamente. L’autista ferma l’autobus con le porte chiuse a trenta metri dalla mia fermata, e dice che bisogna aspettare i Carabinieri. Io, ormai, sono in trance. Levito, sospinto dalla forza salama che è in me, acconsento al fatto che mio padre firmi il contratto della nuova casa, respiro con la bocca.
La situazione si smuove, le porte vengono aperte, scendo. E chiamo mio padre.
“Pronto, papà? Sono io, è per la casa nuova”
“Dimmi.”
Decido di giocare d’anticipo sulla padrona di casa.
“Senti, pensavo: hai una certa età, ormai. Che te ne fai di tutti e due i reni?”

Passages

Insomma, sto cercando casa. Ora, come ho già avuto modo di spiegare, cercare casa a Bologna è un’impresa, a meno che l’impresa non la si possieda (e con essa molto contante). Spesso, poi, gli unici appartamenti a canoni un po’ più decenti sono affittabili “solo a famiglie no studenti”. Ma che mi frega? Ormai sono un lavoratore, no, quindi basta con gli annunci attaccati ai muri della zona universitaria, basta col passaparola: si chiamano le agenzie.
Leggo un annuncio che dice, più o meno: appartamento con ingresso, soggiorno e angolo cottura, bagno. Il prezzo è abbordabile, visto quanto viene valutato il mio corpo di ventiseienne nella tabella del traffico internazionale di organi, quindi chiamo. La voce dall’altra parte è affabile, cordiale, calda: da manuale. Accenno all’appartamento a cui sono interessato, e lui capisce al volo, e completa la descrizione che ho iniziato, poi si ferma.
“Lei è uno studente?”
“No, lavoro come giornalista”, faccio io orgoglioso. E sto per raccontargli tutte le cose belle che faccio, ma lui è più veloce di me.
“No, sa, il fatto è che questo appartamento è più per studenti…”
“In questo momento vivo in una casa per studenti”, puntualizzo, pensando che, alla parola “giornalista”, all’homo immobiliaris sia venuto in mente qualche film con giornalisti ricchi, belli, che vivono in loft, vanno in taxi, e fanno l’idromassaggio nella “giacusi”. Ma il tipo si mostra esitante.
“La casa non è in buono stato.”
“Cade a pezzi?” chiedo.
Risatina nervosa.
“Vede,” continua, “l’appartamento è formato… Insomma, si immagini un rettangolo: c’è un corridoietto, poi la camera, e poi il salotto. La camera…” pausa enfatica “è di passaggio”. E io vorrei incazzarmi e dirgli che non è che uno studente vive bene in case progettate o ristrutturate da architetti laureati in psichiatria dell’abitazione, e io lo so bene, perché vivo da otto anni in un appartamento che ha un bagno di passaggio. Invece dico “Vabbè”.
“Ma cosa le interessava?”, mi chiede l’homo immobiliaris andando alla parte terza del manuale, intitolata “Come recuperare un cliente potenzialmente perso”.
“Una casetta in centro, al massimo sui settecento euro…”
Silenzio.
“Abbiamo un appartamento alla Bolognina* a 800 euro. Le interessa?”
Non gli chiedo neanche se ha un salotto, una cucina o un garage di passaggio. Dico solo “nograzie”, saluto e riattacco.

* Zona periferica di Bologna, nota per avere ospitato l’incontro in cui il PCI diventò PDS (vedi “svolta della Bolognina”).

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