I’m Happy Just To Dance With You

Dagli archivi: Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra – Fuck Off Get Free We Pour Light on Everything

Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra – Fuck Off Get Free We Pour Light on Everything (Constellation Records), 20 gennaio 2014

8

Ogni volta che riascolto dall’inizio alla fine l’ultimo disco dei Thee Silver Mt. Zion ho una reazione fisica: un brivido che sale per scoppiare puntuale intorno al secondo minuto e mezzo della penultima traccia, “What We Loved Was Not Enough”. E ogni ascolto mi riserva particolari che mi erano sfuggiti prima, o che forse si rivelano solo dopo: i ritmi, più variegati del solito; le voci, arrangiate e dosate come non mai, pur continuando a narrare spesso cose tremende; alcune derive armoniche lontane dai pur variegati modelli di Menuck e compagni. Forse non bastano questi elementi a definire il disco (appropriandoci impunemente di una delle note definizioni di Calvino) un (piccolo) classico, ma di certo si tratta di una delle vette della vasta produzione dei canadesi, che riescono a combinare il loro usuale rigore con libere, inaspettate, luminose aperture. Appunto: Fuck Off Get Free We Pour Light on Everything. Ancora una volta un disco-manifesto, ma, a differenza di altri, necessario.

 

Recensione pubblicata originariamente sul numero di giugno 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: Cesare Malfatti – Una mia distrazione

Cesare Malfatti – Una mia distrazione (Adesiva Discografica), 22 novembre 2013
7,5

Mentre scriviamo queste righe, Cesare Malfatti ha raccolto su Musicraiser quasi tutto il necessario affinché il suo ultimo album sia distribuito nei negozi, in cd jewelpack. Già, perché dal novembre del 2013 il cd di Una mia distrazione è acquistabile direttamente sul sito di Malfatti, in un formato particolare, sottovuoto, insieme a 9 cartoline: sul fronte fotografie scattate dallo stesso ex-La Crus nel corso degli anni, sul retro i testi, firmati da Luca Lezziero e Vincenzo Costantino Cinaski. Concepito insieme al pianista Antonio Zambrini e registrato (in pochissimo tempo) anche con Matteo Zucconi (contrabbasso), Riccardo Frisari (batteria) e Vincenzo di Silvestro (che suona tutti gli archi), quello di Malfatti è un disco raffinatissimo negli arrangiamenti che tendono spesso al jazz, e non per caso considerando il curriculum di Zambrini e degli altri collaboratori. Una soluzione che, sposata alla dolcezza delle melodie e all’inconfondibile voce leggera e quasi sussurrata di Malfatti, fa pensare (in molte ariose e lievi aperture) al lavoro fatto da Kirby e Harris sulle partiture di archi e piano dei primi due dischi di Nick Drake. Una mia distrazione suona diverso da ogni cosa pubblicata da Malfatti in passato: che rimanga, appunto, solo una distrazione, o indichi una nuova strada, è comunque un album curatissimo, delicato e prezioso.

Recensione pubblicata originariamente sul numero di maggio 2014 de Il Mucchio Selvaggio

Dagli archivi: When You’re Strange (Tom DiCillo, 2010)

Nel dicembre 2010 TomDicillo scrive sul suo blog: “Quando mi sono svegliato stamane ho scoperto che When You’re Strange ha ricevuto una candidatura ai Grammy. La categoria è video di lungo formato (dvd), il che va bene, sebbene sia stato concepito, prodotto e distribuito come film”.
Due mesi dopo il documentario vince il premio, eppure per ora When You’re Strange ha avuto una distribuzione, internazionale e domestica, davvero scarsa. Possibile che la figura di Jim Morrison non sia più interessante? E che la voce narrante di Johnny Depp non attiri almeno il pubblico anglofono?

E dire che di cose interessanti il film ne ha, a partire (è una banalità?) dalla musica dei Doors che, emendata tanto da retrospettive maledettiste quanto dagli strali di detrattori inutilmente acidi, rimane per molti versi superba. È notevole anche il lavoro di ricerca: molti documentari musicali si vantano di avere al loro interno sequenze mai viste prima, ma in questo caso è proprio così. E, infine, si parla almeno un po’ anche di Krieger, Manzarek e Desmond, che pare abbiano appoggiato il progetto (cosa che al famigerato The Doors di Oliver Stone non era riuscito neanche per sbaglio). DiCillo adotta una visione globale del percorso compiuto della band californiana, che viene riallacciato ai momenti turbolenti della storia dell’epoca degli USA e anche alla storia personale di Morrison, qui visto davvero nel modo più oggettivo possibile.

È chiaro perché Oliver Stone si sia fatto prendere la mano con quel film, vent’anni fa: a rivedere certe sequenze e a risentire certi brani, si percepisce la grandezza quasi minacciosa di Morrison, e quel misto di fragilità, carnalità e lirismo che emana ogni sua nota e parola. E quindi anche DiCillo, qua e là, perde il controllo, toccando ahinoi l’apice quando fa spegnere un fiammifero mentre Depp ci narra della morte del leader dei Doors. Subito dopo, però, monta “The Crystal Ship” con immagini dei Doors in vacanza su una specie di yacht, mentre nuotano in acque cristalline e si tuffano dalle balaustre dell’imbarcazione, e tutti hanno uno sguardo un po’ triste. La pacchianata del fiammifero scompare di fronte a un brano di montaggio eccellente.

Quindi, nella sua ora e mezzo, When You’re Strange non è privo di difetti, o meglio, di piccoli eccessi, qua e là. Però glieli si perdona, un po’ nel nome della buona volontà che lo sostiene, un po’ perché alla fine è difficile essere immuni, tuttora, dal fascino della musica dei Doors.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nell’aprile 2011

Dagli archivi: Reality 86’d (David Markey, 1991)

Una delle band più importanti e influenti della storia dell’hardcore celebra nel 2011 due anniversari: trentacinque anni dalla fondazione e dieci dallo scioglimento. Stiamo parlando dei Black Flag, che nel lasso intercorso tra il 1976 e il 1986 diedero davvero una spinta notevolissima all’undereground culturale statunitense e non solo.

Reality 86’d, firmato dallo stesso David Markey di 1991: the Year Punk Broke, racconta l’anno finale dei Black Flag, quel 1986 in cui i nervosismi e gli attriti tra i tre membri (che ipotizziamo non fossero esattamente delle persone facili) portarono al collasso del gruppo.

Certo, i Black Flag non se la passavano comunque bene: sempre poveri in canna, perseguitati dalla polizia ovunque andassero, tesi dai loro stessi caratteri. Neanche un grande disco come In My Head e il tour che lo seguì (al centro del documentario di Markey) poteva salvarli.

Però c’è un problema: se a metà dello scorso maggio Reality 86’d era comparso su Vimeo, salutato da orde di fan entusiasti di poter vedere questo reperto eccezionale di un’era tutt’ora estremamente influente, allo stesso modo, alla fine di quel mese, il documentario è stato eliminato [ndr 2022: è nuovamente disponibile a questo link]. Perché? Per volere di Greg Ginn, chitarrista e fondatore dei Black Flag. Che ha da recriminare quel genio di musicista?

Tentano di scoprirlo Dan Collins in quest’intervista e Tony Rettman in quest’altra, ma pare proprio che Markey non sia riuscito a ottenere nulla se non un “perché no” da Ginn, l’unico tra i protagonisti del documentario che ha creato problemi: gli altri Black Flag, infatti, sarebbero più che contenti di vederlo distribuito e così i membri delle altre band che compaiono nell’oretta che dura Reality 86’d). Caratteracci, si diceva.

Fatto sta che è un peccato: perché, sebbene la mano di Markey sia la stessa, qui c’è una bella differenza rispetto a 1991. Se nel documentario citato c’è la sensazione (veritiera, peraltro) che i Sonic Youth e i loro amichetti se la stiano spassando mentre scorrazzano nei festival estivi europei di inizio anni ’90 e sentano di avere un futuro davanti a loro, i Black Flag non nascondono di essere al limite del collasso.

La macchina da presa sporchissima di Markey, la vita in furgone, l’imponenza titanica di Henry Rollins, le tonnellate di erba fumata, i kids che pogano come se non ci fosse un domani: ci chiediamo che cosa succederebbe se una vecchia videocassetta del documentario spuntasse tra duemila anni nelle mani di archeologi del futuro. Siamo certi che sarebbero anche loro in grado di percepire l’energia (seppure talvolta negativa) che trasuda da ogni secondo del film e, forse, ristamperebbero il documentario. Sempre che nessun parente di Ginn si faccia vivo per impedirlo.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel giugno 2011

Dagli archivi: tre documentari su Kurt Cobain

A settembre sono vent’anni che è uscito Nevermind, una pietra miliare, musicalmente parlando, ma anche probabilmente l’inizio della fine per Kurt Cobain, che meno di tre anni dopo morirà.

Di materiale documentari sui Nirvana e Cobain ce ne sono tantissimi: scegliamo qui tre titoli diversi per approccio e stile. Eccoli in ordine cronologico.

Il regista e giornalista inglese Nick Broomfield ha diretto nel 1998 Kurt and Courtney. Stimolato dai misteri legati alla fine del leader dei Nirvana, Broomfield va per conto della BBC negli Stati Uniti occidentali, tra California e Washington, per capire che è successo davvero.

Vorrebbe, ovviamente, intervistare Courtney Love, che per un periodo diventò una sorta di “Yoko Ono” perversa e distruttiva.

Tutti la descrivono, nel documentario, come una persona orrenda: o meglio, Broomfield non ci mostra nessuno che la difenda, neanche il padre della musicista.

La “sottotrama” del film è legata alle difficoltà finanziarie della produzione, che vanno di pari passo con la pressione che l’entourage della moglie di Cobain esercita sulla creazione del documentario.

Broomfield intervista una serie di personaggi grotteschi, da Dylan Carlson degli Earth all’ultima babysitter che si è presa cura della figlioletta della coppia prima di quel tragico giorno dell’aprile del 1994.

La parata di strani figuri fa pensare una cosa certa allo spettatore: qualcosa di strano sotto l’apparente suicidio di Cobain c’è. Broomfield ci lascia quindi con alcuni momenti struggenti, legati ai ricordi e ai cimeli della zia di Kurt, con qualche dubbio e con nessuna prova, se non quelle terribili coincidenze che hanno portato molte persone a fare delle congetture sulla scomparsa di Cobain. Si respira il clima cospiratorio di quegli anni, che però oggi pare lontano.

Nel 2004, invece, nel decennale della morte, esce il cofanetto With the Lights Out: in tre cd e un dvd si mette in luce il lato inedito della musica dei Nirvana.

Cobain, ovviamente, domina la scena, ma è la musica che sta al centro del progetto.

Il dvd, in particolare, è realmente emozionante: comprende video amatoriali e non girati tra il 1988 e il 2003.

In quindici anni Cobain, nonostante tutto, è sorprendentemente costante. Certo, nelle prime prove filmate a casa della madre del bassista Novoselic, il ventunenne biondo è timido al punto tale da suonare e cantare rivolto al muro, spalle alla camera.

In fondo Kurt è ancora in un momento di incertezza e crisi che dura da quando, a otto anni, i suoi hanno divorziato: da quel momento la sua vita è andata a rotoli sempre, dal punto di vista emotivo.

Sempre nel dvd ci sono altri momenti eccezionali: uno su tutti è la prima esecuzione dal vivo di “Smells Like Teen Spirit”, una canzone che come poche altre segna gli anni ’90 e quelli a venire. Il live è dell’aprile del 1991, cinque mesi prima dell’uscita di Nevermind e della consacrazione planetaria della band.

Infine, Kurt Cobain: about a son. Diretto da A.J. Schnack nel 2006, è un documentario bellissimo.

Oltre un’ora e mezza fatta solo di volti di abitanti delle zone di Aberdeen e Olympia, foto di concerti dell’epoca (soprattutto di altre band), paesaggi squallidi o incantevoli, traffico e periferie, diner e officine meccaniche.

Tutto è commentato dalla voce di Cobain, tratta dalle registrazioni di numerose telefonate fatte dal giornalista Michael Azerrad per il libro Come as you are, tuttora considerato uno dei più belli in assoluto sui Nirvana.

Le parole di Cobain, talvolta pronunciate con voce un po’ assente, o con la bocca piena, si intrecciano meravigliosamente con una colonna sonora più che notevole, formata dalle canzoni e dalle band che Kurt amava di più.

Dai Vaselines ai Melvins, dagli Young Marble Giants ai Mudhoney. “Songs from the era”, si direbbe: una scelta azzeccatissima per un documentario che, non a caso è intitolato quasi come una canzone dei Nirvana. Schnack si sofferma molto sull’infanzia, vero snodo cruciale dello sviluppo emotivo di chiunque, Cobain compreso.

Proprio lui continua a dirlo, nel corso del film: sono uno qualunque. Ma non si tratta di modestia. Sembra più una richiesta d’aiuto, di considerazione. Non pone tesi, About a son: racconta la storia di un personaggio, iconico suo malgrado, in maniera affascinante e originale, quasi astratta, abbracciando le contraddizioni di un grande artista così come la sua musica.

Un ritratto commovente, consigliato a chi volesse tentare di conoscere, forse senza poterlo capire fino in fondo, Kurt Cobain.

Recensione pubblicata originariamente sul blog di Pampero Fundacion Cinema nel maggio 2011

Dagli archivi: BlackStarman: addio a David Bowie

Look up here, I’m in heaven
I’ve got scars that can’t be seen
I’ve got drama, can’t be stolen
Everybody knows me now

(da “Lazarus”)

Quando questa mattina la notizia è rimbalzata sui profili di amici (veri o fittizi) su Facebook, ho pensato: è una bufala. Poi ho sentito “Heroes” alla radio e la conferma della notizia: David Bowie è morto ieri, dopo diciotto mesi di battaglia con un cancro che l’ha avuta vinta su una delle figure che ritenevamo immortali. Bowie è morto davvero, pochi giorni dopo avere dato alle stampe Blackstar, l’ultimo di una lunga serie di album che hanno definito non solo la musica, ma – nell’accezione più ampia del termine – il mondo degli ultimi cinquant’anni. Mezzo secolo in cui Bowie ha scritto, composto, recitato, inciso, suonato dal vivo, è caduto e si è rialzato, ha dato vita e ucciso alter ego (da Ziggy al Thin White Duke), ma anche mezzo secolo in cui uno dei più grandi artisti che il pianeta abbia conosciuto ha ascoltato, nel senso più ampio, le pulsioni del mondo intorno a lui per ridarne una sua lettura e, spesso, anticipandone gli sviluppi.

Il beat e il pop dei primordi, l’ariosità degli anni ’60 e l’amarezza con cui quel sogno è finito, il senso di cupezza e speranza, fine e progresso insieme degli anni ’70, la (ri)scoperta e la visione algida e plastica della disco e del soul, le oscurità elettroniche e la jungle, la consapevolezza degli anni Zero: queste rapide tappe sono quelle percepite da chiunque abbia vissuto gli ultimi decenni, ma sono anche delle linee di lettura possibili del percorso artistico di Bowie e, allo stesso modo, una traiettoria nella cultura pop moderna e post-moderna. Questo perché il musicista è stato al nostro fianco per tutto questo tempo, ha commentato con le sue canzoni, i suoi film, i suoi concerti, i suoi vestiti il nostro mondo, per poi tornare a se stesso negli ultimi due splendidi dischi.

Sono proprio The Next Day e Blackstar a darci tante importanti “lezioni” riguardo a questi tempi, in cui ognuno di noi è star e impresario di se stesso.

La prima è la discrezione: quando uscì la prima canzone dopo anni di silenzio, “Where Are We Now?”, uscì di sorpresa. Niente teaser, trailer, gif, nulla. Solo un brano e un video: le sorprese sono belle proprio perché in quanto tali arrivano dal nulla. La stessa che (non) ha circondato l’uscita di Blackstar e la malattia di Bowie. La stessa discrezione che pare sia impossibile da mantenere in questi giorni, in più di un contesto in cui sarebbe da ambire.

La seconda ha a che fare con il rapporto con la nostalgia e la memoria: tornando a The Next Day, è chiaro come Bowie, in quello che si rivelerà il suo penultimo disco, rilegga se stesso, riguardi la sua carriera, dalla copertina al testo del primo singolo: tutto lo indica. Ma lo fa creando qualcosa di nuovo, come ha fatto quasi sempre, non limitandosi – come si fa spesso in questi giorni di retromanie – a copiare-e-incollare il passato (e lui è uno dei pochi che se lo poteva permettere, di nuovo quasi sempre).

L’ultima riguarda il rapporto con il presente e il futuro: Blackstar è un disco che ha tanti riferimenti ai lati più difficili dell’oggi, senza avere la pretesa di raccontarli direttamente, ma usando parole e musica per evocare e suggerire, lasciando molto lavoro all’ascoltatore. Rivoluzionario, in un’epoca di pappe precotte di ogni gusto e per ogni occasione. E inoltre Bowie ha voluto realizzare il suo ultimo disco con dei giovani jazzisti: avrebbe potuto suonarlo con chiunque, ma davvero chiunque sulla faccia della Terra, e invece no.

Le sette canzoni che compongono il testamento di Bowie sono lanciate verso il futuro: un futuro che ora, nell’immediato, vedrà miliardi di parole, incluse queste, spese per ricordare la stella, ma che poi sarà composto da tanti attimi in cui godremo della sua luce, perdendoci ancora una volta nelle meravigliose musiche che ci ha lasciato.

Originariamente pubblicato sul sito di Radio Città del Capo, gennaio 2016

From us to you: il nostro regalo per i cento anni di Gianni Rodari

Posso dire che tutto è nato su questo blog, dieci anni fa, con un post in cui dichiaravo il mio amore per Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari, il disco di Lucia e Virgilio del 1972 che ho consumato quando ero piccolo e che non ho mai smesso di ascoltare. Grazie alle numerose reazioni che ha scatenato quel post, anche a distanza di anni, ho capito che quelle canzoni erano ancora parte della memoria di tanti, ma riuscivano a conquistare anche chi le ascoltava nel terzo millennio.

Poi, nell’ottobre 2019, mi sono imbattuto in uno scambio di commenti in cui veniva citato Rodari e, ancora una volta, ho inviato all’amica impegnata nel dibattito informazioni sul disco. Non lo conosceva, ma era bastato un ascolto per conquistarla. L’amica era Francesca Bono degli Ofeliadorme, e il suo entusiasmo mi ha fatto pensare a quanto la sua voce e il suo stile fossero adatti a rileggere una delle Filastrocche, nello specifico “Il gatto inverno”.

Più me la immaginavo, più mi convinceva. Da lì mi sono detto: “Conosco un sacco di musiciste e musicisti di spessore: perché non organizzo – in maniera del tutto volontaria e con contributi volontari di tutti i coinvolti – un album-omaggio a questo disco, e quindi al lavoro di Gianni Rodari, di Lucia Mannucci e Virgilio Savona, lo metto in rete e dono i ricavati dei download a un’associazione, un ente o una struttura che si occupa di bambini?”.

Sono stato travolto da questo pensiero, che si è formato così, tutto insieme, ma sono stato incoraggiato a continuare anche dalla risposta positiva di Paola Rodari, la figlia di Gianni, la prima persona “esterna” a cui ho comunicato il progetto.

Ho quindi preso il telefono e ho selezionato i possibili candidati secondo tre criteri:
1. dovevano essere persone che potevo contattare facilmente, con un messaggio o una telefonata;
2. dovevano essere persone che avevano una sensibilità letteraria, musicale e umana con il mondo e le idee di Gianni Rodari;
3. dovevano essere ragionevolmente libere nel periodo in cui pensavo si dovessero produrre le tracce (una produzione fattibile anche in casa, dato che la lunghezza delle canzoni del disco originale è assai ridotta e che gli arrangiamenti di Savona sono tanto efficaci quanto semplici).

Alla fine del 2019, infatti, pensavo di “sfruttare” l’anno rodariano per eccellenza, questo disgraziato 2020, in cui ricorrono il centenario della nascita, 60 anni dall’uscita della raccolta Filastrocche in cielo e in terra, 50 anni dall’assegnazione del Premio Andersen e 40 anni dalla morte. Il disco sarebbe uscito ad aprile così da dare tempo ai musicisti di produrlo e di avere 8 mesi per promuoverlo.

Nel frattempo, ovviamente, ho ricevuto l’appoggio dell’agenzia che cura la produzione letteraria di Rodari e delle edizioni musicali del disco originale. Una bella soddisfazione, magnificata dal fatto che intorno al progetto fossi riuscito a raccogliere con estrema facilità un nugolo di belle persone affinché si occupassero di alcuni aspetti tecnici: quelli legali (Emanuela Russo e Antonio Tavoni), quelli sonori (Roberto Rettura e il suo Studio Spaziale, Angelo Epifani e il suo Epifonica Sound Lab) e quelli grafici (Marcello Petruzzi e tutta Housatonic).

Chi veniva a conoscenza di quest’idea sorrideva e diceva “Ci sto”, pur sapendo che avrebbe lavorato gratis, una cosa che mi sorprende sempre, quando ci penso, ma non tanto quanto un’altra, relativa all’assegnazione delle canzoni.

Il penultimo giorno del 2019 scrivevo “alle musiche e ai musici” queste parole:

Vi chiedo (…) di indicarmi le tre canzoni che “vorreste”, se ce ne sono. Le virgolette sono d’obbligo, perché sarà praticamente impossibile che ognuno abbia la canzone che preferisce. Io cercherò di venire incontro ai vostri desideri, ma per forza di cose sarò costretto a prendere decisioni che non si accordano ai vostri gusti. In tal caso, mi direte se siete ancora della partita, oppure no. Potete anche dirmi anche “o questa o nulla”, ma se non vi accontento, e quindi non sarà possibile farvi partecipare, promettiamoci che ci vogliamo bene lo stesso.

Sì, è vero, molti mi hanno detto “scegli tu”, ma uno dei “miracoli” legati alla nascita di questo disco è stato che tutti, proprio tutti, hanno avuto la canzone che desideravano.

La prima, “Filastrocca impertinente” di Dente, è arrivata nella mia mail a metà febbraio. Due settimane dopo eravamo in piena emergenza sanitaria. Eppure il progetto, che ora aveva un titolo (Rifilastrocche in cielo e in terra) e un ente beneficiario (l’impresa sociale Con i Bambini), entrambi scelti a maggioranza da tutte le persone coinvolte, non si fermava. Le canzoni continuavano ad arrivarmi una ad una e, ogni singola volta, mi commuovevano fino alle lacrime: pensate a cosa provereste se qualcuno vi mandasse qualcosa che, contemporaneamente, vi riportasse all’infanzia e vi desse fiducia nell’umanità.

Il tutto nel mezzo della prima pandemia che tutti stavamo vivendo e che, in un orribile giorno di aprile, ha portato via Mirko Bertuccioli dei Camillas, anche loro coinvolti nell’album. “La canzone che avevamo pensato la facciamo lo stesso”, mi ha detto qualche settimana dopo Vittorio Ondedei, cofondatore della band. Anche in quel caso, lo confesso, mi è entrato qualcosa in entrambi gli occhi, facendomi lacrimare un po’.

E con la fine dell’estate tutto era pronto, grazie allo sforzo collettivo di musiciste, musicisti, professionisti del diritto d’autore, fonici, produttori, specialisti in comunicazione. L’amico Marcello Petruzzi e Housatonic hanno realizzato una copertina (anche in versione da colorare) e un video splendido, servito come apripista del disco, uscito poco più di un mese fa.

Dieci anni fa non avrei mai pensato di riuscire a ideare da solo le Rifilastrocche in cielo e in terra. Oggi ci sono sono riuscito proprio perché non sono stato solo. Ed è quindi giusto che questo biglietto di auguri in musica per i cento anni di Gianni Rodari sia firmato anche da Alessandro Grazian, Anna Bazueva, Michele Postpischl, Alessandro Fiori, Stefano Santoni, Silva Cantele, Andrea Manzardo, Matteo Fiorino, Nicola Baronti, Serena Altavilla, Valerio Canè, Angelo Epifani, Enzo Cimino, Enrico Liverani, Ruben, Michael, Theodor e Zagor Camillas, Giovanni Imparato, Letizia Cesarini, Laura Loriga, Francesca Pizzo, Andrea Gerardi, Franco Naddei, Fabio Cinti, Cristopher Bacco, Andrea Pulcini, Paola Mirabella, Giuseppe Peveri, Federico Laini, Nicola Setti, Francesca Amati, Roberto Rettura, Antonio Tavoni, Davide Cristiani, Luca Di Mira, Enrico Pasini, Luca Torreggiani, Meike Clarelli, Valeria Sturba, Vincenzo Vasi, Marcello Petruzzi, Andrea Monachesi, Gianluca Sturmann, Marco Marzoli, Emanuela Russo e Raffaella Tenaglia.

Cento di questi giorni, W Gianni Rodari!

1977: Frank Zappa rinasce ad Halloween

Oggi Frank Zappa avrebbe compiuto 77 anni. Chissà quanti altri album avrebbe firmato, oltre ai 62 in tre decenni scarsi di carriera (a cui sono seguite decine di opere postume) che definiscono il percorso unico di un genio capace di sgretolare le barriere tra generi e stili musicali e di usare la stessa furia iconoclasta per scagliarsi contro l’American way of life. Ma nella densa discografia del musicista spicca un anno privo – o quasi – di uscite, il 1977, che segna gli ultimi frangenti di un periodo creativo ricco di tensioni e difficoltà, ben testimoniato dai sei leggendari concerti di Halloween tenuti al Palladium di New York.

Le registrazioni integrali dei live di quarant’anni fa, rimasterizzate a 24 bit, sono state pubblicate per la prima volta in una chiavetta USB a forma di candy bar con 158 file wav e booklet digitale, in una confezione che comprende anche maschera e costume da Frank Zappa: un’occasione unica per ascoltare sedici ore di musica che marcano un importante passaggio nell’imprevedibile e scintillante biografia artistica del musicista.

Per comprendere l’importanza del momento fotografato da Halloween 77 è bene tornare indietro di un paio di anni, fino al giugno del 1975, quando esce One Size Fits All: insieme al successivo Bongo Fury, pubblicato a ottobre, include le ultime incisioni con l’incarnazione delle Mothers (“of Invention” va e viene nella ragione sociale) che comprende tra gli altri Tom Fowler al basso, George Duke alle tastiere, Napoleon Murphy Brock al sax, nonché un ritrovato e spumeggiante Captain Beefheart.

Proprio allora cominciano i problemi che costelleranno il biennio seguente, a cominciare dalla progressiva rottura con il manager Herb Cohen, che porta nel 1976 alla fine della DiscReet Records, con conseguenti cause incrociate e congelamenti di capitali. I live diventano l’unica vera fonte di guadagno e tra il 1975 e il 1977 Zappa e i suoi musicisti girano più volte Europa, Canada e Stati Uniti, toccando anche Giappone e Oceania.

Inoltre c’è da gestire il master di un nuovo disco, Zoot Allures, che Zappa riduce da doppio a singolo e consegna direttamente alla Warner Brothers, ma non è tutto. Da anni Zappa è impegnato nella gestazione di canzoni che dovrebbero uscire sempre per la WB proprio nel 1977, e come consuetudine fanno già parte delle scalette dal vivo: l’opera è un ambizioso quadruplo LP e si intitola Läther.

La Warner Brothers, però, giudica troppo rischiosa la pubblicazione del lavoro e chiede a Zappa di suddividerlo e spezzettarlo. Il musicista si oppone: porta quindi i master agli stabilimenti della Phonogram, fa eseguire le prove di stampa nel formato originale quadruplo e sceglie come data di uscita il giorno di Halloween.

Il momento è perfetto, perché proprio il 28, 29, 30 e 31 ottobre di quell’anno Zappa sarebbe tornato al Palladium di New York: ci era già stato nel dicembre del 1976, e da quei concerti aveva anche tratto un live, Zappa in New York, pubblicato dalla Discreet Record nei primi mesi del 1977, ma subito ritirato dalla Warner. L’etichetta si intromette anche nella relazione tra Zappa e la Phonogram, e rincara la dose comunicando l’intenzione di pubblicare il materiale del live e del quadruplo, smembrandolo e riadattandolo in cinque uscite, programmate tra il marzo del 1978 e l’inverno del 1979.

Zappa è mortificato e furioso al punto da interrompere un rapporto – seppur limitato alla sola distribuzione – che durava da un decennio: intenta causa alla Warner, dando il via a una battaglia che lo vedrà vittorioso solo nei primi anni ’80. Nel frattempo fa quello che ha sempre saputo fare meglio: suona.

Il tour autunnale del 1977 comincia l’8 settembre a Tempe, Arizona, e si conclude alla fine dell’anno a Los Angeles. Zappa lascia a casa gli ottoni e si porta dietro una band che è un concentrato di tensione elettrica, espressione di un rock duro e progressivo, ma elastico al punto da allungarsi verso il jazz, l’avanguardia e il cabaret.

Il veterano, per modo di dire, è Terry Bozzio, con lui da un paio d’anni: il batterista non è solo un valido partner dietro le pelli, ma anche un’ottima spalla per sketch e siparietti. Patrick O’Hearn accompagna Zappa al basso da un annetto, il percussionista Ed Mann neanche da sei mesi. I due tastieristi Peter Wolf e Tommy Mars hanno superato le audizioni poco prima dell’inizio dei live, insieme a un bravo chitarrista, dotato anche come cantante, che però (orrore!) non sa leggere la musica: Adrian Belew.

Zappa gli insegnerà le canzoni nei fine settimana antecedenti l’inizio del tour, e (come scotto?) gli farà subire ogni tipo di angheria sul palco. “C’è bisogno di uno che si metta in testa un casco lampeggiante e si muova come un robot! Che ne dite di Adrian?”, ricorda il chitarrista nelle note di Halloween 77. All’epoca, con i suoi ventott’anni da compiere, è il membro più vecchio della band, Zappa escluso.

Halloween: il musicista californiano celebra da qualche anno la sua festa preferita al Felt Forum, un teatro newyorchese nel complesso del Madison Square Garden.

Nel 1977 l’appuntamento si sposta negli spazi eleganti e storici del Palladium per sei concerti, due il 28 e 29 ottobre, uno il 30 e gran finale il 31, proprio nel giorno in cui sarebbe dovuto uscire Läther. Zappa decide non solo di fare registrare tutto dal fido Kerry McNabb, ma anche di riprendere le le serate, producendo il materiale che poi finirà in Baby Snakes, uscito nei cinema nel 1979.

La scaletta dei primi quattro concerti è identica, ma ogni pezzo splende dell’urgenza e del giovanile nervosismo dei musicisti, a partire dal pezzo di apertura, “Peaches En Regalia”, interpretato in una versione più veloce e rutilante del solito: i cambi di ritmo, le modulazioni e le riprese dei temi sono impeccabili e, grazie al bel lavoro di rimasterizzazione, si apprezzano ancora di più le finezze timbriche e di arrangiamento apportate da ognuno.

Il boogie sinistro e orrorifico di “The Torture Never Stops”, da Zoot Allures, sembra perfetto per la ricorrenza della vigilia di Ognissanti, ma si adatta bene anche al momento tormentato che sta attraversando Zappa, assillato da ex manager, avvocati, “giornalisti che si portano dietro le tipe alle interviste per potersele poi scopare più facilmente” e, ovviamente dalla Warner Bros.

L’etichetta è il bersaglio principale del musicista: in “Titties ‘N Beer” afferma che averci a che fare è come stare all’inferno, un paragone che lascia costernato il diavolo interpretato da Terry Bozzio. Il batterista è al centro di un altro noto duetto, “Punky’s Whips”, in cui racconta come sia stato sedotto e ingannato dall’immagine effeminata di Punky Meadows, frontman della glam band Angel.

E se O’Hearn non si trattiene e accenna a “In-A-Gadda-Da-Vida” degli Iron Butterly quando parte una tirata anti-hippy, Adrian Belew è il protagonista assoluto di Flakes”, che Zappa introduce così: “Questa canzone parla di gente che non fa quello che dovrebbe. C’è una grande concentrazione di questi non-cittadini [in originale denizens, ndr] in California. Detto in parole povere, il problema è che tutti quelli che si trasferiscono in California lo fanno per ottenere l’assegno di disoccupazione, dell’assistenza sociale o entrambi”.

Sempre nelle note di Halloween 77 è lo stesso chitarrista a ricordare come è nata la canzone: “Una notte ero nel seminterrato di Frank, mi stava facendo sentire una canzone che aveva in mente di insegnare alla band. Aveva una specie di cattivo retrogusto folk e, tanto per ridere, ho cominciato a cantarla alla Bob Dylan. Frank ha sogghignato: ‘Questo nel concerto lo mettiamo’”. L’imitazione di Belew è veramente spassosa, come lo sono i divertissement del periodo tra fine ’60 e inizio ’70 (con il raro ripescaggio di un singolo delle Mothers, “Big Leg Emma”) che si alternano alle ricercatezze di “Envelopes”, alla versione strumentale di “Coneheads” e alle lunghe improvvisazioni di “Wild Love”, comprese tra i venti minuti e la mezz’ora della serata di Halloween.

Di fronte a questo circo musicale raffinato e controllatissimo, il pubblico sghignazza e si diverte sempre di più, viene invitato sul palco per essere irriso in gare di ballo sui ritmi di leggendaria difficoltà di “The Black Page #2”, gode di battute e sketch politicamente scorretti (ora e allora) e viene investito dalla potenza della doppietta finale, composta da “Camarillo Brillo” e da una trionfale “Muffin’ Man”.

Dopo questo “riscaldamento” lungo due giorni (e dodici ore di live, più altrettante di soundcheck), Zappa e i suoi possono osare di più: il pubblico è dalla loro parte, molti hanno comprato i biglietti per tutti i concerti, tanto che vengono riconosciuti e salutati dal palco. “Stink-Foot” e “The Poodle Lecture” aprono le danze del 30, in cui trovano posto la seconda esecuzione in assoluto della celebre parodia di Peter Frampton “I Have Been in You”, le première di “Dancin’ Fool” e “Jewish Princess”, un’insolita “King Kong”e il finale scatenato con “San Ber’dino”.

L’ultima serata – proposta da sola in un triplo cd –  riprende le scalette precedenti, ma aumenta il livello dello spettacolo sul palco, come le sequenze live di Baby Snakes ben dimostrano. Tra spettatori presi a frustate e altri invitati a gareggiare nell’imitazione di Zappa stesso, torna sul palco il bassista delle Mothers of Invention Roy Estrada, e interpreta un personaggio che si eccita alla vista di una maschera di gomma nell’operistica “The Demise of the Imported Rubber Goods Mask”. 

Il finale con la strumentale “Black Napkins” è un’ulteriore celebrazione dell’arte chitarristica di Zappa e le tinte ancora più scure di “The Torture Never Stops” paiono risentire dell’approccio grandguignolesco e teatrale di Alice Cooper, fino a qualche anno prima sotto l’ala protettiva della Straight Records – fondata proprio da Zappa e Cohen – prima di finire sotto… Warner.

A proposito di etichette: è proprio durante la serata di Halloween che il musicista californiano, oltre a consigliare di fare sempre il gesto delle corna quando si firma un contratto discografico, ovviamente per eliminare il malocchio, annuncia la nascita della Zappa Records, la più longeva delle creature discografiche partorite dal musicista.

Ci vorrà quasi un anno e mezzo per vedere nei negozi il primogenito dell’etichetta, Sheik Yerbouti: tra i maggiori successi critici e commerciali di Zappa, il doppio è inciso insieme a questa nuova e giovane formazione e, pur includendo integralmente le registrazioni di “Jones Crusher” del 31 (un’altra splendida performance vocale di Adrian Belew) e la già citata “Jewish Princess”, contiene solo una parte delle novità suonate al Palladium in quei giorni del 1977.

Le altre protagoniste delle scalette newyorchesi (comprese quelle del dicembre 1976, sempre al Palladium) sono proprio i brani di Läther, che – lo ricordiamo – doveva uscire proprio quel 31 di ottobre. Un paio di mesi dopo Zappa porta le prove di stampa Phonogram del quadruplo LP alla KROQ di Pasadena e, affinché gli ascoltatori della radio californiana non aspettino “da 3 a 5 anni per ascoltare la mia splendida musica”, li invita a registrare il suo nuovo disco, che trasmette per intero: dà così vita a una serie infinita di bootleg che alimenteranno il mito del disco “perduto”.

Läther uscirà così come era stato pensato solo nel settembre del 1996, poco meno di tre anni dopo la morte di Frank Zappa.

Mantenere la media

2016-03-17-04-25-33

Siamo tra Natale e Capodanno, ed ecco l’inutile e tradizionale elenco dei concerti a cui ho assistito nel 2016. Sono 86, esattamente come l’anno scorso, nonostante una pausa estiva dovuti a infortuni immobilizzanti.
Qualche dato aggregato, che non fa mai male. I concerti sono stati visti per lo più a Bologna, con due succose trasferte: una per il Primavera Sound di Barcellona e una per il SXSW di Austin. Il locale che ho frequentato di più è stato il Locomotiv Club di Bologna, la band che ho visto di più sono stati i C+C=Maxigross. Insomma, eccoli qua, in ordine cronologico, tutti e 86 tra festival, showcase, arene enormi e piccolissimi club.

The Winstons, Covo Club, Bologna, 9 gennaio
Shaloma Locomotiva Orchestra, Teatro San Leonardo, Bologna, 15 gennaio
Aucan, Godblesscomputers, TPO, Bologna, 23 gennaio
Jacco Gardner, C+C=Maxigross, Covo Club, Bologna, 6 febbraio
Kaos, Viruz, Locomotiv Club, Bologna, 13 febbraio
Extraliscio, Palazzo Pepoli, Bologna, 18 febbraio
Mulatu Astakte, Locomotiv Club, Bologna, 20 febbraio
Adriano Viterbini, Egle Sommacal, Locomotiv Club, Bologna, 21 febbraio
Toxic Love, Palazzo Pepoli, Bologna, 25 febbraio
Iacampo, Palazzo Pepoli, Bologna, 10 marzo
The Jon Spencer Blues Explosion, Elli de Mon, Locomotiv Club, Bologna, 10 marzo
Diamanda Galas, Teatro Manzoni, Bologna, 11 marzo
Girls Names, Latitude, Austin, 15 marzo
Declan McKenna, Latitude, Austin, 15 marzo
Oscar, Latitude, Austin, 15 marzo
Pauw, Cedar St. Courtyard, Austin, 16 marzo
Joan Thiele, Numero 28, Austin, 16 marzo
White Denim, Radio Day Stage, Austin, 16 marzo
Iggy Pop, Noveller, The Moody Theater, Austin, 16 marzo
Sunflower Bean, Radio Day Stage, Austin, 17 marzo
Eleanor Friedberger, Clive Bar, Austin, 17 marzo
Petite Noir, 800 Congress, Austin, 17 marzo
Jack Garratt, Radio Day Stage, Austin, 18 marzo
Chvrches, Radio Day Stage, Austin, 18 marzo
Bombino, Radio Day Stage, Austin, 18 marzo
Bob Moses, Bud Light Factory, Austin, 18 marzo
Wahid Allan Faqir, Russian House, Austin, 18 marzo
Xixa, Luck Lounge, Austin, 19 marzo
Birthh, The Townsend, Austin, 19 marzo
Cypress Hill, McGarrah Jessee Rooftop, 19 marzo
Godblesscomputers, Palazzo Pepoli, Bologna, 24 marzo
Iosonouncane, Trees of Mint, Locomotiv Club , Bologna, 2 aprile
Black Mountain, Motorhomes, Locomotiv Club, Bologna, 5 aprile
Claudio Simonetti’s Goblin, Locomotiv Club, Bologna, 7 aprile
I Cani, Felpa, Locomotiv Club, Bologna, 13 aprile
C+C=Maxigross, Miles Cooper Seaton, Palazzo Pepoli, Bologna, 14 aprile
Protomartyr, Heathens, Covo Club, Bologna, 15 aprile
Des Moines, Zoo, Bologna, 17 aprile
Cesare Basile, Palazzo Pepoli, Bologna, 21 aprile
Nonkeen, Andrea Belfi, Teatro Antoniano, Bologna, 27 aprile
Kairos, Palazzo Pepoli, Bologna, 28 aprile
Teho Teardo, Blixa Bargeld, Locomotiv Club, Bologna, 5 maggio
Sophia, Covo Club, Bologna, 6 maggio
Motta, Locomotiv Club, 7 maggio
Birthh, Krano, Mikasa, Bologna, 19 maggio
Goat, Primavera Sound, Barcellona, 1 giugno
Suede, Primavera Sound, Barcellona, 1 giugno
Alessandro Cortini, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Andy Shauf, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Car Seat Headrest, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
C+C=Maxigross, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Floating Points, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
John Carpenter, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
LCD Soundsystem, Primavera Sound, Barcellona, 2 giugno
Ben Watt, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Selda Bağcan & Boom Bap, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Radiohead, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Holly Herndon, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
The Avalanches, Primavera Sound, Barcellona, 3 giugno
Matilde Davoli, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Altre di B, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Sycamore Age, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Brian Wilson performing Pet Sounds, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
PJ Harvey, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Julia Holter, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Moderat, Primavera Sound, Barcellona, 4 giugno
Sorge, Parco del Cavaticcio, Bologna, 15 giugno
Flavio Giurato, Locomotiv Club, Bologna, 18 settembre
The Winstons, Locomotiv Club, Bologna, 23 settembre
Federico Albanese, Locomotiv Club, Bologna, 28 settembre
Kill the Vultures, FreakOut Club, Bologna, 7 ottobre
White Denim, Covo Club, Bologna, 19 ottobre
Parquet Courts, Pill, Covo Club, Bologna, 22 ottobre
Paolo Spaccamonti, Spazio Labò, Bologna, 23 ottobre
Peter Murphy, Locomotiv Club, Bologna, 26 ottobre
C’mon Tigre racconta Toccafondo, Teatro Antoniano, Bologna, 27 ottobre
The Cure, Unipol Arena, Casalecchio di Reno, 29 ottobre
Tom Brosseau, Nero Factory, Bologna, 6 novembre
Makaya McCraven, Locomotiv Club, Bologna, 8 novembre
Vapors of Morphine, Splatterpink, Locomotiv Club, 11 novembre
Francesco Serra, Spazio Labò, Bologna, 13 novembre
Trio Bobo, Bravo Caffè, Bologna, 17 novembre
Tinariwen, Locomotiv Club, Bologna, 18 novembre
Cabeki, Nero Factory, Bologna, 4 dicembre
Flavio Giurato, L’Altro Spazio, Bologna, 14 dicembre
Wrongonyou, Persian Pelican, Locomotiv Club, 16 dicembre

Toccare il pubblico nel profondo e farlo viaggiare: intervista con i Black Mountain

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Un punto d’unione tra Pink Floyd e Black Sabbath: una definizione un po’ grossolana, ma efficace, per i Black Mountain, una band canadese che amo molto. Nonostante il revival psichedelico, spesso con sfumature stoner, sia onnipresente, e il gruppo non si dissoci da queste sonorità (anzi), la caratteristica di Stephen McBean e compagni è che, sin dall’esordio self-titled del 2005, hanno definito una loro personalità in maniera precisa e convincente. Il loro nuovo disco, IV, esce il primo di aprile sempre per Jagjaguwar e, di lì a pochi giorni, la band arriva in Italia per due concerti, a Bologna e Torino.

Oggi pomeriggio a Maps manderò in onda l’intervista realizzata con Amber Webber, in cui abbiamo sviscerato la genesi di un album validissimo, che mette insieme con sicurezza e controllo chitarre e spazio, glam e arrangiamenti orchestrali. Salite a bordo.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta, voi vivevate e suonavate insieme. Ora che non passate più tutto questo tempo tutti insieme il vostro modo di scrivere è cambiato?
In linea di massima, questo non ha cambiato tutto quanto. Steve ora vive a Los Angeles, ma comunque scrivevamo spesso separatamente e poi facevamo le prove e ci scambiavamo delle idee tutti insieme. Cioè, io, Steve, Jeremy o chiunque della band scriveva una canzone, poi talvolta registravamo una specie di demo e ce lo spedivamo. Poi, quando eravamo nel posto dove suoniamo, arrivavamo a un’idea della canzone e la arrangiavamo insieme. Quindi il processo è molto simile a com’è sempre stato.

L’album è sostenuto in parti uguali da chitarre e sintetizzatori: come avete usato l’elettronica in IV?
Jeremy, il nostro tastierista, ha un sacco di roba analogica, quindi forse non è il caso di parlare di elettronica, intesa nel senso moderno. Ma d’altro canto i Black Mountain non hanno mai voluto essere considerati una band di chitarre e basta. Amiamo gli spazi aperti che i synth possono fornire, un po’ come li intendevano i Pink Floyd: sono spazi bellissimi. Le band che hanno un suono sempre e solo incentrato sulle chitarre non mi piacciono: cioè, amo la chitarra, ma di più lo spazio. E inoltre è molto divertente cantare con quel tipo di spazio, piuttosto che avere sempre le chitarre che si lamentano…

Il titolo del disco ha a che fare con l’omonimo album dei Led Zeppelin o dobbiamo considerarlo una specie di self titled?
(ride) Quello che vorremmo fare è chiamare i dischi semplicemente 1, 2, 3, eccetera. Specialmente Jeremy ha letteralmente pregato la band di chiamare il disco IV. È una specie di omaggio… Ci sono un sacco di album classici che si intitolano semplicemente “4” in cifre. Quindi anche noi abbiamo deciso di stare sul classico, sul rock classico e di intitolarlo IV.

La traccia di apertura, nonché primo singolo, “Mothers of the Sun” prepara un’atmosfera che viene completamente sconvolta dal pezzo più rock and roll di tutto il disco, “Florian Saucer Attack”. Mi racconti qualcosa di questi primi due brani?
A dire il vero “Mothers of the Sun” è un pezzo vecchio intorno al quale abbiamo girato per anni, perché non aveva mai il giusto arrangiamento… Jeremy ha iniziato a suonarlo dal vivo da solista, come Sinoia Caves; una sera l’abbiamo sentito e gli abbiamo detto: “Amico, devi rimetterci le mani sopra!” L’ha fatto e ha iniziato a suonare giusto: un bel risultato per noi, visto che era un brano che ci penzolava di fronte al naso da tempo. E su “Florian Saucer Attack”… amo quella canzone, è super divertente, va dritta al punto, è un pezzo rock da ballare.

C’è un’altra traccia, “(Over and Over) The Chain” che ha in comune con quella di apertura la lunghezza e i timbri, ed è a sua volta collegata con il brano che chiude il disco, “Space to Bakersfield”. Come avete pensato alla scaletta?
Di solito non lavoriamo a un disco canzone per canzone: registriamo un sacco di brani e non tutti finiscono nell’album. Quelli che scegliamo sono quelli che raccontano una storia e che stanno bene con gli altri. Non so se quelli che citi si assomiglino, ma di certo evocano sentimenti simili.

Si può dire che ci sia un tema “spaziale” che affiora qua e là in tutto il disco, dal punto di vista musicale e testuale?
C’è sempre qualcosa di spaziale nei Black Mountain (ride). Noi stessi a volte fluttuiamo nello spazio… Comunque sì, certo, c’è… Mi piace pensare che i Black Mountain facciano musica attraverso la quale si può nuotare come se si fosse nello spazio, che diano la sensazione di essere legato a ogni tipo di pianeti, vita, eccetera. Se la nostra musica ti fa sentire così, è fantastico.

Uno dei tuoi grandi momenti in IV è in “Line Them Up”, dove brilli davvero. Raccontaci qualcosa del brano, che è – dal punto di vista musicale – il più tranquillo e dolce di tutto il disco.
“Line Them Up” è l’unica traccia del disco che ho scritto completamente da sola: è una canzoncina di cui ho continuato ad ascoltare il demo, pensando che avrei dovuta usarla in qualche modo. Così l’ho data ai ragazzi della band, a cui è piaciuta: l’abbiamo arrangiata inserendo un bridge, una sezione centrale strumentale, e così penso sia diventata una canzone dei Black Mountain, con la stessa sensibilità di ballate che abbiamo scritto in passato, e quindi ho pensato potesse andare bene per la band. È l’unico pezzo che ha un’orchestra, un arrangiamento d’archi nella parte centrale. E ci sono i corni, bellissimi. Sono felice del risultato: di quella canzone sono proprio orgogliosa.

“Cemetery Breeding” è una specie di versione adulta di un pezzo dark pop strappacuore per teenager: pur mantenendo la sua maturità, mi sembra che sia teneramente indulgente su ciò che accadde nel cimitero del titolo.
Ah, quella canzone! (ride) Ha una specie… Insomma, ti immagini questi due adolescenti che corrono in un cimitero e si amano, o qualcosa del genere. Magari c’è un elemento drammatico… Mi piace molto: è una delle canzoni più pop dell’album, divertente, ma allo stesso tempo triste e drammatica. Un gran pezzo. L’ha scritto Steve e non so esattamente cosa intendesse con i versi, ma è nato come un brano sobrio e in acustico e alla fine si è trasformato in qualcosa di pop.

Senti anche tu un pizzico di West Coast o un sapore californiano in “Crucify Me”?
Ah, davvero hai pensato a questa cosa? Non ci ho mai riflettuto ma in fondo Steve vive a Los Angeles, quindi magari c’è un po’ del sole della California, e il deserto si è fatto strada tra le canzoni qua e là.

Parliamo dell’aspetto visivo del vostro ultimo lavoro, il video di “Mothers of the Sun” e la copertina del disco.
La copertina è tutta opera di Jeremy, che si è sempre occupato di tutto l’aspetto visivo della band: c’è la sua mente bizzarra al lavoro in quel campo! Amo la sua arte e non mi pongo troppe domande su quello che fa: è molto astratto, usa il collage… Per qualche motivo noi Black Mountain parliamo un sacco del Concorde, l’aeroplano: in testa avevamo l’idea di metterlo sulla copertina del disco. E Jeremy ha messo un Concorde in copertina: fantastico! E poi ha aggiunto elementi mistici, altre cose che non sai bene cosa siano… Non si capisce che stia succedendo: c’è una sensazione di mistero, è figo. Il video per “Mothers of the Sun” è stato realizzato da due ragazzi di Vancouver: li abbiamo lasciati fare e se ne sono venuti fuori con questa specie di ragazzini psichedelici… Hanno elaborato un’idea complessa: neanche io sono sicura davvero del reale significato del video. Ti dovrebbe dare l’idea di portarti in un’altra dimensione, che è sempre una figata… Insomma, un video bizzarro che è anche un trip: funziona bene con la canzone.

Qual è il tuo più grande desiderio in campo musicale?
Quello che davvero voglio è realizzare bei dischi, suonare dal vivo ed essere fonte d’ispirazione per il pubblico… o almeno fare viaggiare la gente mentre suoniamo. Non si vedono spesso concerti in cui sei toccato nel profondo, o nei quali la band dimostri un certo grado di innovazione. Ecco, questo è ciò che vorrei essere in grado di dare al pubblico: qualcosa che li tocchi e li faccia stare bene.

Di |2024-05-12T16:08:46+02:0025 Marzo 2016|Categorie: I'm Happy Just To Dance With You|Tag: , , , |0 Commenti
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