There’s A Place

The Swedish Experience

Care e cari, l’ho fatto. Con due validi accompagnatori, V. e G. (detto Peppino – se scrivevo “detto P.” non aveva senso: mi espongo alla sua querula querela), sono andato all’Ikea. Partenza prevista ore 10 a.m. Partenza effettiva: ore 10.30. Impossibile utilizzare navetta, in quanto il servizio funziona solo nel pomeriggio. Adottiamo la soluzione autobus. Risultato: viaggio lunghissimo. Vorrei farla breve, ma forse anche no.

L’autobus ci scarica non esattamente vicini al luogo magico, ma abbastanza da vedere la scritta gialla e blu troneggiare. Io ho catalogo e appunti, esattamente come viene suggerito.

Preparati.
Fai una lista di tutto quello di cui hai bisogno per la tua casa. Sarai sorpreso dalla varietà dell’offerta dei negozi IKEA. Prendi le misure degli spazi che desideri arredare. C’è abbastanza spazio nella tua macchina? Lo utilizzerai tutto!

Non ho la macchina. Ma sono pronto per l’IkeaExperience. Un solo motto: comprare solo quello che mi serve. Guardo i miei accompagnatori: sappiamo che la missione è dura. Verso le 1145 entriamo.

Dopo quindici secondi V. e G. detto Peppino sono persi a guardare degli oggetti di gomma in una grande cesta: li palpano, mormorano “costa poco” e “che carino”. Li trascino via a forza. “Abbiamo una missione”, dico loro. Permetto loro di prendere la borsa gialla (il carrello no), dei metri di carta, dei blocchetti e delle matite e andiamo avanti verso il primo obiettivo: letto nuovo, modello divano-futon. Nome: Grankulla. Con la “k”. Ma lo sapevo. Vuol dire che ci dormikkierò sopra. Appena arrivato nella zona-divaniletto i miei due accompagnatori si svelano per essere uno pessimista (V.), l’altro più accondiscendente (G. detto Peppino). I due litigano tra di loro e non mi assistono nella difficile scelta e nell’iter di acquisto. Mi rivolgo allora ad una signorina Ikea che mi dice come fare. Sono ancora lì a litigare, quando passo al secondo obiettivo: la libreria.

Ora, la libreria del vero giovane è modulare: compri i pezzi e te l’aggiusti come ti pare. Però devi calcolare prima la composizione. Per questo i gentili svedesi mettono a disposizione dei banchetti con matitine e calcolatrice. Quest’ultima è avvitata al banchetto. Vabbè che sono svedesi, ma noi siamo italiani, no? Una calcolatrice a energia solare fa gola un po’ a tutti. Ma io non ne ho bisogno. Ho già fatto i conti a casa. Quindi controllo che ci siano tutti i pezzi e seguo la stessa procedura per l’acquisto del letto. I pezzi si ritirano alla fine. Nome della scaffalatura: Ivar. Segni particolari: semplice.

Andiamo avanti. Terzo ed ultimo obiettivo: varie ed eventuali. Grucce e biancheria da letto con cuscino. La scelta delle grucce solleva un dibattito politico tra i miei accompagnatori. V. sostiene che siccome io mi sono laureato e non sono più uno studente sono diventato un lussuoso capitalista spendaccione, un gaudente che non si accontenta più delle cose di plastica. La causa di tutto questo è l’acquisto del set di grucce Bumerang con la “u”. Roba da fare impazzire i sociologi e gli economisti di tutto il mondo.
Alla fine riesco anche a comprare le lenzuola che mi servono.

Io arrivo alle casse trionfante. Ho solo preso quello che mi serviva. G. detto Peppino mi ha detto che lo scopo per cui mi accompagnava era di prendere degli asciugamani. È arrivato alle casse con un portacd. Senza asciugamani, ovviamente. Do il bancomat alla cassiera, che me lo restituisce esanime. Il bancomat, non la cassiera.

Passiamo le casse… e cado anche io nel tranello. G. detto Peppino si allontana e torna con del cibo. Tre minuti più tardi addentavo un würstel e bevevo una nota bibita gassata. Ho guardato il würstel. C’era scritto che era stato fabbricato con materiale biodegradabile e che per produrlo non era stato abbattuto neanche un albero.

Ho capito, adesso, cos’è l’IkeaExperience.

Di |2003-09-17T18:44:00+02:0017 Settembre 2003|Categorie: I'm A Loser, There's A Place|Tag: , , , |23 Commenti

Mobilitiamoci

Sto diventando un ometto e ho le mie esigenze. Per esempio una è quella di cambiare l’arredamento della mia stanzetta, visto che pare che il futuro mi voglia a Bologna ancora per un po’. Niente di più facile. Per voi, forse. La mia stanza è piccola e piena di cose. E non so da dove iniziare, essendo negato per quasi tutte le cose pratiche. Mi addormento con questi pensieri e sogno. Sogno di quando ero piccolo ed esisteva una cosa chiamata Aiazzone e la sua canzoncina (da me modificata per motivi di copyright e per motivi neuronali che adesso non vi sto a spiegare).

..con la moto o in carrozzella, ma vai a Biella, ma vai a Biella, con la moto o col furgone e Aiazzone ti aiuterà.

C’era Guido Angeli che diceva “provare per credere”. Ma soprattutto c’erano gli architetti. Ricordate? Questi venivano a casa tua e ci pensavano loro. Metri, righelli, compassi. Roba che io non ho mai usato in vita mia, o quasi. Progettavano, disegnavano, pensavano, lì a casa tua. Architetti, ordinati, in giacca e cravatta. Magari gli offrivi un caffè, e, alla fine, tac, pronta la soluzione per te. Il catalogo a portata di mano. Fatto. Adesso, invece, non è più così.

Aiazzone esiste ancora, ma si va tutti all’Ikea. Ecco, io all’Ikea non ci sono mai stato. Ma dico: mai. Penso di essere uno dei pochissimi a non avere mai messo piede in quegli enormi posti gialli e blu, dove una sedia si chiama “Lothar” e un pensile “Gustaffson”. Ma del brandnaming (scusate: del nome dei prodotti) parliamo un’altra volta.

All’Ikea, mi dicono, c’è tutto. Dalla tazzina alla chaise longue, dal divano alla mensola, dal porta cd alla polpetta svedese. C’è lo spazio per fare divertire i bambini, c’è il ristorante (anche se credo che mangerò un panino prima, vedi foto…). Anche all’Ikea ci sono gli esperti di arredamento, ma li devi chiamare prima e poi non vengono a casa tua. E poi sono svedesi. Insomma, mica avremo lo stesso gusto nell’arredamento?

Tutti vanno all’Ikea. Mi chiedo perché. L’Ikea sostiene l’Unicef, usa il legno giusto, fa pagare le sue cose ma non tantissimo. E l’Ikea è perfettamente conscia del tremendo sforzo dell’acquisto che ogni consumatore affronta, quindi non solo ti viene a prendere direttamente con delle comode navette, ma ti coccola anche là.

Per quanto IKEA sia divertente, fare shopping è sempre una bella fatica. Quindi, se ti viene voglia di una bibita fresca e di un boccone sfizioso, al ristorante IKEA troverai un’intera gamma di piatti svedesi e italiani. Molti negozi hanno anche un bistrot vicino all’uscita, dove fare uno spuntino veloce.

Non vedo l’ora di divertirmi e fare shopping all’Ikea. E poi mi strafaccio di polpette svedesi. E non solo.

Ti senti affamato dopo la tua esperienza all’IKEA?

Quella di andare all’Ikea è un’esperienza. Qualcosa da raccontare agli amici, qualcosa che ti cambia la vita. “Da quando sono andato all’Ikea non sono più lo stesso”. E per concludere, la chicca finale.

Gli Svedesi amano festeggiare, stare in compagnia, mangiare e bere (bene!) e cantare. La nostra Bottega svedese offre molti prodotti tipici svedesi, tra cui le aringhe, il pane croccante e le squisite marmellate di mirtilli.
Troverai anche molte delle prelibatezze svedesi che hai assaggiato al ristorante: puoi portartele a casa, e seguire i nostri suggerimenti originali su come servirle. I mobili non sono l’unico punto forte di IKEA.

I suggerimenti Ikea non si limitano ai mobili, ma anche all’alimentazione e al bon-ton. Accidenti. Swedish way of life?

Domani vado all’Ikea per la prima volta (nonostante qualcuno me l’abbia sconsigliato: perdono). Forse diventerò biondo e i miei occhi si schiariranno. O forse l’immaginetta di Guido Angeli che porto sempre con me mi salverà.

P.S. Mi chiedo come mai l’Ikea sia così buona (bambini, cibo, Unicef, ecologia). Io diffido sempre delle cose/persone/animali/fiumi/città troppo buoni. Un mio coinquilino mi ha poi detto che il capo dell’Ikea pare sia un nazista. Ah, ecco. Mi chiedo se questa cosa venga tradita da qualche parte. Magari qualcuno di voi è seduto su un divano che si chiama Adolfson. Mamma mia.

Bagni (da leggere a stomaco vuoto)

Piccola nota prima di andare a nanna, ché è tardi. Sono andato alla Festa dell’Unità. Ci capito ogni anno, compro delle cassette, ogni tanto vedo dei concerti, bevo qualche birra. Chiacchiero. Non mi entusiasma, ma tant’è. Sono andato nei bagni, ad un certo punto. E, ovviamente, c’era una melma acquitrinosa per terra. Ho iniziato, mentre provvedevo a fare pipì, a chiedermi come mai nei bagni ci sia sempre del liquido per terra. Dico nei bagni dei maschi. Nei bagni delle femmine non so. Non pensate male.
Ora. Noi maschietti siamo tacciati di fare regolarmente la pipì fuori dai bagni. Ma non tutta. Io tento sempre di essere regolare e di farla-dove-va-fatta. Ma quando vedi un bagno completamente allagato, anzi, quando quasi sempre i bagni pubblici che frequenti sono allagati, ti chiedi perché capiti una cosa del genere. Forse la tazza perde? Forse c’è qualche stronzo che decide di farla tutta fuori apposta?

Arrivò davanti alla tazza e si sbottonò la cerniera. Poi ci pensò e disse tra sè e sè: “Ma sai che ti dico?” e fece una mezza giravolta su se stesso.

Preso da questi pensieri sono tornato al tavolo dai miei amici. Le due sedie delle ragazze che erano con noi erano state occupate da due individui.
“Scusate”, dico, “queste sedie sono occupate”. Nessuna risposta. Solo uno sguardo rivolto nella mia direzione. Vitreo. Mi schiarisco la voce. “Ci sono due nostre amiche, qua, sono andate a comprare le sigarette, ma tornano”. Nulla. “Vabbè, quando tornano vi alzate, per favore”. Una reazione. Un sorriso e un cenno del capo. Subito dopo uno schianto. Qualcuno è salito su un tavolino facendolo crollare. Poi arriva un tipo, prende senza dire una parola un pacchetto di sigarette vuoto sul nostro tavolo e ne strappa un pezzettino, probabilmente per farsi un filtro. In un paio di minuti arriva un ragazzo trascinato dal suo cane. Sotto il nostro tavolo, non si sa come, c’erano dei croccantini per cani (o per gatti, non lo so, non me ne intendo e non avevo fame), che ovviamente avevano attirato la bestiola. Il padrone cerca di tirare via il cane, ma il quadrupede insiste. Allora il ragazzo si inginocchia per terra, mette la mano a conchetta e raccoglie i croccantini, mormorando uno “scusate”. Poi un altro schianto. Una ragazza per terra, i suoi amici applaudono e uno ha un pezzo di tavolo in mano e lo brandisce come la scimmia mulina l’osso all’inizio di 2001.

Di colpo ho capito. Quasi tutto.

P.S. I visitatori di questo diario urbano aumentano, e li ringrazio. Mi si cita anche, qua e là. In particolare vorrei ringraziare Il blog della domenica, che però qui dice che io mi credo vittima di una congiura tecnologica. Ma no. E’ solo il caso. Anche se, ogni volta che torno a casa, il mio stereo o il mio videoregistratore si mettono a fischiettare sospetti e si fanno l’occhiolino. E poi dice che non ho i permalink. Con lo stesso tono con cui si potrebbe commentare una cacca in vetrina da Tiffany’s. Gentilmente chiedo aiuto. Voglio anche io i permalink. Attendo spiegazioni.

Di |2003-09-08T03:36:59+02:008 Settembre 2003|Categorie: There's A Place|Tag: , , , , , |0 Commenti

Domenica

Chi mi conosce lo sa (per citare illustri concittadini): io odio le domeniche. Non so perché non le sopporto.
Bologna, di domenica, si trasforma ulteriormente. Famiglie che si tengono per mano (una a una: nessuna catena umana) e vanno a prendere il gelato in centro. Oppure si prende l’autobus e si va dalla periferia verso il centro. E allora si vedono coppie che vanno a pranzo dai genitori o, molto più spesso, signori anziani che vanno a pranzo dai figli. Con, ovviamente, il padre che ha in mano una bottiglia di vino e la moglie un vassoio di paste. Vestiti bene, si chiedono per quanto ancora andranno a trovare i figli. E magari pensano che la nuora, o il genero, proprio non gli è mai piaciuto. Ma non lo dicono, lo pensano.
Bologna, di domenica, è la città dei Giardini Margherita con gente che pattina, gioca a calcio, suona, fuma o va semplicemente a leggere il giornale. E nei prati si trovano le comunità di stranieri: i russi, per esempio. Si siedono per terra, o su qualche panchina e chiacchierano chiacchierano chiacchierano.
A Bologna, di domenica, è quasi tutto chiuso. Rimangono aperti soltanto i negozi dei pakistani, in centro. I clienti sono pochissimi. E finalmente i pakistani possono parlare tra di loro nella loro lingua, e magari smetterla di sorridere (sono sempre sempre gentili e sorridenti: cosa rara negli esercizi commerciali del centro, a parte rari casi) e condividere preoccupazioni, nostalgie, cose buffe successe nei giorni passati.
Fuori dalla stazione, nel piazzale centrale, le cose non cambiano quasi mai. Ma di domenica si ritrovano spesso immigrati dell’est. Stanno lì e chiacchierano. Mi sono sempre chiesto perché si ritrovino davanti alla stazione, con tutti i posti che ci sono a Bologna. A volte penso, in maniera ingenuo-romantica, che queste persone hanno lo spostamento nel sangue. E quindi non c’è luogo più familiare del non-luogo per eccellenza, la stazione.
Non mi piacciono le domeniche. Ma oggi sento che mi fanno tenerezza. Uscirò, forse, per guardarmi in giro. Oppure no, terrò queste mie parole e farò finta che siano quello che c’è fuori.  Buona domenica a tutti voi che mi leggete. Posso ringraziarvi, ancora una volta, per le cose carine che mi scrivete? Grazie.

Di |2003-09-07T14:58:04+02:007 Settembre 2003|Categorie: I Me Mine, There's A Place|Tag: , , , , , , , |1 Commento

Leggende metropolitane, acciughe e altri strani fenomeni

Incredibile, insomma. Ieri ha piovuto e mi sono emozionato. E non sono stato il solo. Una giornata di inizi. Quindi ho spedito la solita ventina di e-mail per mantenere la rete di contatti (che dicono sia importantissima: staremo a vedere) e per propormi qua e là. Ho detto propormi, anche se si tratta di una sorta di casting in vista delle solite care vecchie prostituzioni (credo) in senso lato, ovviamente.

Ho anche fatto la spesa. Placido e tranquillo. Mi diverte sempre molto andare nei supermercati. Forse perché, alla fine, mi diverte guardare le persone, sono curioso. E vederle tutte lì, intente a fare la stessa cosa, è bellissimo. Inoltre, un paio di anni fa, girava una strana voce. Si diceva che un supermercato nel centro di Bologna, in un certo giorno della settimana, verso l’ora di chiusura, fosse un ritrovo per single. Che poi avevo letto in qualche stupido giornale che il supermercato è uno dei luoghi dove i single tendono ad incontrarsi di più. Da tempo ho in mente di scrivere qualcosa su questo. Ma andiamo avanti.

Ovviamente io e i miei coinquilini siamo andati più volte al posto giusto e nel momento giusto. E effettivamente abbiamo visto un gran numero di donne tiratissime. Ora, dico: ci sono le vie di mezzo. Puoi andare al supermercato vestito/a in maniera decente, ma senza essere tirato a lucido. E invece no. Tacchi alti, trucco perfetto, eccetera eccetera. Inutile dire che non ci siamo fidanzati. Il punto è: casualità o verità? Non credo ci sia una risposta. Basta che la voce abbia girato un po’, infatti, per fare sì che la leggenda si trasformasse in realtà.

“Ma Samantha, che stai facendo? È due ore che sei chiusa in bagno”
“Eh sì, mamma. Devo andare a fare la spesa… Anzi, mi stiri la gonna viola, ché sono in ritardo?”

Invece ieri sono andato in un supermercato meno à la page, ma più vicino a casa. Faccio la mia spesa e aspetto l’autobus per tornare a casa. L’autobus arriva, io salgo, quando una signora esce dal supermercato, mi vede, corre verso di me e mi dice: “Ti sei dimenticato le azzugheeee!” con spiccato accento bolognese. Io faccio spallucce, le porte si stanno chiudendo. Il pubblico dell’autobus mi guarda. Mi sento un po’ imbarazzato. Penso a chi si mangerà le mie acciughe.

Tornando verso casa, ad un incrocio, vedo una Smart. Dentro due ragazzini che secondo me non hanno più di diciott’anni e un paio d’ore. Ma hanno la Smart. Sono annoiatissimi e ascoltano della musica. Uno dei due è in ciabatte, con un piede mollemente appoggiato davanti al sedile. Passo e attraggo la loro attenzione. Uno dei due dice: “Bella maglietta, vecchio!” (per chi non fosse di Bologna, o non conoscesse il gergo, “vecchio” equivale a “tizio”, “amico” e cose così). Mi guardo la maglietta. È la cara, vecchia, banalissima Parole di Cotone con su scritto “Sono Wolf. Risolvo problemi”. Ho cercato la foto della maglietta sul sito, ma non la fanno più. Mi sono sentito irrimediabilmente vintage.
E in più senza acciughe.

Riassunto delle puntate precedenti

Ah, però. È qualche giorno che non scrivo più, ma lo stesso i contatti aumentano. E la cosa non può che farmi piacere.
Anche se non avevo un collegamento internet, però, ho scritto lo stesso, e tanto. Adesso sono a Bologna di nuovo. Non so ancora nulla. Per il momento mi guardo intorno. E mi accorgo che la città si sta risvegliando. Qui sotto, qualche altra mia parola dei giorni passati.
La sua famiglia e i suoi animali (24 agosto 2003)
Va bene, A Day in the Life è un diario urbano, c’è anche scritto lassù in alto. Ma insomma, mi trovo in campagna adesso. Nella casa del padre della mia cara amica, e di sua moglie (del padre, non della cara amica). Una casa immersa nel verde in Toscana (ma non quella Toscana alla quale voi forse state pensando, quella dove abita Sting e altri personaggi più o meno famosi e dove ci sono solo “ibeicasalidellacampagnatoscana”) con un giardino grande grande e le stanze belle e luminose. Animali presenti: tre cani, di cui uno enorme, ma non se ne rende conto. Quando ottanta chili di cane si comportano come un cucciolo, beh, non è facile. Per ora uso il metodo Montessori, poi vediamo. Un pappagallo. Ecco. Stamattina scendo a fare colazione e vedo a tavola il ragazzo della mia amica, il padre della mia amica e sua moglie. Appoggiato sulla sedia di quest’ultima, il pappagallo, che fa colazione con noi. Lei inzuppa dei biscotti nel latte e glieli passa. Lui li prende con la zampa e li sgranocchia guardandosi intorno. Parteciperebbe alla conversazione, ma forse non gli interessa più di tanto. Andiamo avanti. Tre gatti. Uno di questi è un persiano. Che oggi mi si è messo in grembo. Automaticamente ho iniziato a carezzarlo, e sia io che lui non ci siamo curati della mia allergia al pelo felino. Poi ho smesso. E lui mi ha iniziato a battere sulla pancia con la zampa, affinché ricominciassi. Ogni volta che smettevo, lui mi chiedeva di ricominciare. Ad un certo punto io non l’ho più carezzato e lui, dopo un po’, se n’è andato, con l’aria scocciata. Ci sono anche tre conigli, che ancora non ho visto, una gazza e un altro uccellino.
Anche se è la prima volta che vengo qua mi sento a casa. Non so come spiegarlo, non è solo dovuto all’affetto dei miei ospiti. Si tratta di qualcosa di più profondo, che si manifesta e si palesa soltanto poche volte, in maniera strana. In questo caso è stato anche l’odore delle lenzuola, familiare, a farmi stare bene.
Pioggia (25 agosto 2003)
Il pappagallo sembra vagamente depresso, oggi. Lo vedo oltre la finestra, nella sua gabbia. Si guarda intorno annoiato. Mi sono chiesto spesso cosa pensano i cani, in generale, quando non corrono, saltano, abbaiano, mangiano, dormono. In questa casa, dove di animali ce ne sono tanti, il pensiero si è esteso, ovviamente, ad altre specie. Quindi mi chiedo a cosa pensi il pappagallo in questo momento. La mia amica mi ha confermato che i pappagalli sono molto intelligenti. E che questo pappagallo, ora dedito alla pulizia personale, parla.
Strana quest’estate, quasi stereotipica. Ho visto i delfini saltare nel mare. E a un metro da me, c’è un pappagallo che parla, o meglio che potrebbe parlare, ma non ha niente da dire. Immaginatelo, questo pappagallo, non posso mostrarvelo. Immaginatevelo, e, per una volta, lasciatevi andare allo stereotipo. Parla, è verde e sta appollaiato sulla spalla della sua padrona.
I delfini saltano nell’acqua, i pappagalli parlano.
Ma i cani a cosa pensano? In questo momento credo che le specie viventi intorno a me siano semplicemente accomunate da un desiderio di pioggia. O quanto meno mi piace crederlo.

Di |2003-08-27T14:48:00+02:0027 Agosto 2003|Categorie: I Am The Walrus, There's A Place|Tag: , , , , , , , , , |2 Commenti

A L'Aquila si stava al fresco. Mica poco.

Dopo essere stato all’Aquila, eccomi di ritorno a Roma. Ovviamente all’Aquila si respirava: mano a mano che ci si avvicinava a Roma, la temperatura esterna saliva. C’è stato un momento in cui ogni volta che guardavo il termometro dell’automobile, la temperatura aumentava di un grado. Ho quindi deciso di smettere di guardarlo.

Sono a casa, adesso, e non oso mettere il naso fuori fino a che il sole non sarà tramontato. Non che questo dia garanzie di freschezza, ma insomma.
Non ero mai stato all’Aquila. È molto carina. Mi sono sentito come Nanni Moretti in Caro diario, quando dice: “Pensavo peggio, Spinaceto”. L’Aquila è un borgo medioevale, abbastanza in alto (circa settecento metri), vicino al Gran Sasso (che, se non mi sbaglio, è la vetta più alta degli Appennini. Speriamo che la mia maestra delle elementari non legga questo blog. Non credo che lo faccia, però. Andiamo avanti). Ho visto un sacco di gente per strada e la cosa mi ha piacevolmente impressionato. E soprattutto faceva fresco. Che sensazione meravigliosa essere invasi dal fresco. Me l’ero dimenticato.

Cose notevoli da vedere all’Aquila: il forte spagnolo, innanzitutto. È una massiccia fortezza con quattro bastioni, di forma quadrata, credo del 1500. L’amica che mi ha ospitato all’Aquila mi ha raccontato una storia buffa. Pare che ad un certo punto gli spagnoli volessero costruire due fortezze uguali, una più piccola all’Aquila e una più grande in Spagna. Solo che si sono sbagliati e hanno scambiato i progetti. Infatti, sebbene io non conosca con esattezza l’importanza strategica che poteva avere la zona nel sedicesimo secolo, mi sembra comunque sproporzionata una fortezza del genere per l’Aquila. Rendetevi conto quanto ci devono essere rimasti male gli spagnoli. Se qualcuno ha notizie su questa vicenda, me lo dica, ché mi è venuta la curiosità.
Altre cose notevoli: passeggiare qua e là per i vicoli, carini e illuminati con gusto (che ci sia lo zampino di Vittorio Storaro, che ha fondato proprio all’Aquila la sua Accademia dell’Immagine?).
Altre cose da fare: mangiare gli arrosticini. Assolutamente. Magari accompagnati da un Montepulciano d’Abruzzo. Credo. Sì.
Purtroppo tutto questo non è valutato e promosso in maniera decente. Pochi conoscono questa città. Insomma, se vi capita di passare, andateci. È carina.

E soprattutto è fresca.

Speriamo che stasera si stia meglio. Ho in programma una serata quasi bohèmienne: una birra con una mia amica attrice a San Lorenzo, che può essere quasi definito il quartiere universitario di Roma (romani che leggete, su, abbiate pazienza e non prendetevela per le mie imprecisioni). Parleremo di quanto è difficile tentare alcune vie in Italia. Mal comune…

Evitate i grassi

E non solo, anche le bevande alcoliche, bevete molta frutta e mangiate molta verdura. Questo è quello che dicono sempre i dietologi, o meglio, coloro i quali hanno una cattedra in Scienze dell’Alimentazione, qua e là, in qualche università del nostro bel paese. Lo dicono quando vengono intervistati, almeno una volta alla settimana durante l’estate, da quel supplemento geniale e utilissimo che è “TG2 Costume e Società”. E io prendevo sempre in giro queste persone dicendo “Ma chi vuoi che si mangi la trippa al sugo a Ferragosto?”. E invece…
5 agosto 2003, Corsica orientale. Ristorante “Chez Felix”. Siamo in quattro e prendiamo da mangiare due menù. A coppie.

  • Antipasti: salumi tipici corsi/patè
  • Piatto principale: spezzatino con polenta/arrosto di maiale con salsicce e fagioli
  • Formaggi (una specie di piatto/totem grande quanto una pista delle macchinine)
  • Dolce (i miei amici ci hanno dato dentro, io, lo ammetto, ho preso una macedonia. Avevo paura di morire)
  • Vino rosso della casa: incazzatissimo
  • Liquore alle castagne: quando l’abbiamo odorato abbiamo pensato di fare testamento. Poi, invece, si è rivelato meno violento di quello che si pensava.

Ieri, 19 agosto 2003, un ristorante in corso Regina Margherita a Roma. Siamo in due. E abbiamo fame. E, evidentemente, è troppo tempo che non guardiamo “Costume e società”.

  • Antipasti: crostini vari/fritto misto
  • Pizza: due. La mia amica aveva ordinato una pizza di cui non ricordo il nome. Il cameriere l’ha guardata in maniera strana per dissuaderla. Lei ha cambiato ordinazione. Da quel momento (e nei momenti successivi) la scena di riferimento è quella del ristorante in Monty Python – Il senso della vita
  • Birra: due, medie. Io chiara, lei rossa. Così, tanto per essere precisi.

Sorpresa finale: il cameriere ci ha presi in simpatia e ha deciso di offrirci qualcosa dopo cena. E voi direte: il classico limoncello? Ma no, banali che siete! Vin santo e cantucci.
Secondo me hanno tentato di ucciderci. Ma non ce l’hanno fatta.
P.S. Ehm, non date molta importanza al fatto che ieri non ho postato niente. Ero… stanco. Fra un po’ me ne vado all’Aquila. A domani sera.

Della distribuzione della gente in Roma e di quanto valga (vedere) un Caravaggio

Ovviamente non ce l’ho fatta. Volevo rivedere la Cappella Sistina, stamattina, ma non ce l’ho fatta. Il letto mi ha trattenuto per qualche tempo in più del dovuto e così sono arrivato davanti ai Musei Vaticani dopo quello che pensavo potesse essere un orario decente. E infatti. Ho visto la coda per entrare e l’ho percorsa a ritroso. Per un bel pezzo. Insomma, alle undici di mattina la coda dei turisti in attesa di entrare ai Musei Vaticani cingeva un terzo di mura del Vaticano. Agghiacciante.
Mi sono messo quindi a leggere il giornale in piazza San Pietro. E quest’atteggiamento di fermarsi-in-posti-frequentati per leggere è stato il fil rouge della mia prima giornata a Roma.
Il punto è che pensavo che Roma fosse deserta. In effetti i romani non ci sono per niente, ma il loro posto è preso dai turisti. Me li immagino: trecentomila turisti che non trotterellano a Trento, ma che tamburellano (impazientemente le dita) aspettando che i romani se ne vadano in vacanza.

“Ragazzi, se n’è andato anche l’ultimo! Andiamo!”

E un’orda di turisti invase l’Urbe.
Che quindi è ovviamente popolatissima nelle zone strategiche e deserta nelle altre.
Sono stanchissimo a casa. Diciamo che ho camminato un bel po’, da stamattina, ma molto molto (il qui presente è uno che ama camminare nelle città). Ho visto due meravigliosi Caravaggio in Santa Maria del Popolo (mentre non so se andrò a rivedere per l’ennesima volta quelli di San Luigi dei Francesi). A proposito dei quadri nelle chiese. Ascoltate qua. I quadri in questione sono spesso in cappelle laterali, di solito poco illuminate naturalmente. Per vedere bene i quadri, insomma, ci vuole una luce artificiale. A San Luigi dei Francesi la luce dei Caravaggio si paga a tempo: c’è un congegno in cui si infila una moneta e più vale più dura la luce. A Santa Maria del Popolo, invece, c’è un congegno ancora più diabolico. Non è la moneta a fare scattare la luce, ma un pulsante. Sopra il quale c’è una semplice cassettina per le offerte. Ma quando uno mette una moneta, essa-la moneta produce un “clang” metallico incredibile.
Così si sente se uno paga. E si gode il suo bell’euro di Caravaggio.
E adesso metto il dvd di Frankenstein Junior, mi spezio l’anima e parto.

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