Things We Said Today

Narrare la tensione: intervista a Manuel Agnelli

Non sono mai stato un vero fan degli Afterhours, ma credo che gli album di Agnelli e soci siano tutti molto interessanti, che abbiano sempre qualcosa da dire, che siano mossi da un’urgenza che sempre meno si ritrova, in musica e non solo. Ho ascoltato Padania e ho pensato, ancora una volta, che era un disco degli Afterhours da riascoltare più volte, di cui era necessario leggere le parole e pensarci su, per poi, magari, parlarne con Manuel Agnelli. L’intervista su uno dei dischi più importanti dell’anno è andata in onda in Maps di venerdì e la trovate da ascoltare qua.

Qual è il momento in cui avete iniziato a raccogliere suoni, idee e parole di quello che sarebbe diventato il disco più recente degli Afterhours?
Un momento preciso forse no, ma un anno e mezzo fa mi è venuta in mente l’idea di fare un disco molto legato alla realtà sociale che ci circondava. Ci siamo interrogati molte volte sul ruolo che potevamo avere come adulti e come musicisti. Probabilmente abbiamo parlato di noi stessi molto a lungo e probabilmente continueremo a farlo, perché il punto di vista è sempre il nostro, ma forse adesso è arrivato anche il momento di parlare di quello che ci succede intorno. Non è stato un desiderio nato da un episodio o da qualcosa che avevamo visto in particolare: ma continuavamo a incontrare persone che ci raccontavano della loro realtà, che avevamo sotto gli occhi, come tutti in questo periodo. Il fatto di continuare a cantare di cose nostre, solo interiori, legate alla nostra interiorità cominciava a sembrarci un po’ meschino, lontano dalla realtà. C’è stato un periodo, a dire il vero abbastanza breve, in cui ci siamo sentiti dissociati da quello che ci capitava intorno ed è nato il desiderio di riallacciarsi alla realtà.

Raccontata così sembra che ci sia una continuazione della spinta, più musicale, che c’era dietro a Il Paese è reale
Sicuramente, anche se Il Paese è reale aveva una matrice più nettamente musicale, si stava parlando del nostro ambiente, della musica, di come venivano considerati certi gruppi e certi musicisti e un certo tipo di ambito. Qua, invece, si parla più in generale della nostra società, del sociale. Comunque si tratta di cose molto vicine: adulti e cittadini che prendono posizione per qualcosa in cui credono o che lo fanno perché non è solo un loro diritto, ma anche un loro dovere.

Hai detto che non c’è un momento esatto in cui è nato Padania, ma che ci sono state molte storie che vi hanno fatto pensare. Qual è un tratto di queste storie che ha fatto “traboccare il vaso”?
Il fatto che alcune storie erano così grandi e importanti da fare sembrare piccolissime le nostre storie, le nostre polemiche, o le piccole battaglie che combattevamo all’interno del nostro ambiente. Insomma, una volta che, da adulto, hai usato la musica e l’ambiente della musica per trovare la tua personalità, se non completamente te stesso, per realizzarti dal punto di vista interiore, diventa davvero – e lo ripeto – meschino chiudersi in questa torre d’avorio creativa e non guardarsi intorno. Ci sembrava tutto molto piccolo rispetto ai problemi reali che la gente vive. Da qui a fare un album come Padania il percorso è stato molto lungo, perché non abbiamo subito deciso cosa fare. Alcuni prendono posizione in maniera talmente netta, chiara e (perdonami la parola) retorica, che alla fine sono più dannosi che utili: la retorica non fa bene a nessuno di questi tempi, il “chi non salta è” fa più male che bene. Per cui arrivare a definire un discorso a livello estetico che poi potesse avere una forza e nello stesso tempo mantenere una sua sincerità non è stato semplice.

Riprendo ciò che hai detto sull’immediatezza perché il concetto ritorna in Padania, un album che “vuole essere disco” come e più di altri dischi degli Afterhours: insomma, mi sembra che Padania sia un disco da ascoltare “in ordine”…
Hai ragione: Padania ha un filo conduttore, che non è facilissimo da individuare, e che soprattutto magari non sarà lo stesso per tutti. Abbiamo cercato di fare un concept emotivo, emozionale, per cui questo filo conduttore è più emozionale che narrativo. Crediamo nel fatto che narrando degli eventi si possano suscitare delle emozioni molto profonde, ma il compito di un gruppo come il nostro è narrare la tensione. La tensione ha a che fare con il panico, con il disorientamento, l’odio e il rancore, ma anche con la gioia più ingiustificata: sono tutte cose che si possono raccontare, ma rischiando di perdersi l’emozione di queste cose. I pezzi invece più musicali, che non sono costruiti come una canzone, servono proprio a quello, nel percorso del disco. E poi c’è stata la convinzione di fare un disco, e non una serie di pezzi messi insieme su un album: perché noi crediamo ancora nella formula “album”, a dispetto di quello che si dice in giro sulla morte dell’album. Se ti guardi intorno, la musica che sta comunicando di più è contenuta in album che hanno una tematica forte e che sono piuttosto lunghi proprio in termini di durata. Rimanendo al nostro ambiente di posso parlare del disco dei Verdena o di quello del Teatro degli Orrori, che è un album lunghissimo che però alla fine ha un senso in quanto album: è una specie di libro, ti sta raccontando una situazione in maniera molto poco superficiale, proprio perché è analizzata in tante canzoni, quindi attraverso tanti aspetti.

Mi riallaccio a quest’ultima tua osservazione: hai parlato di un libro, che spesso è associato al romanzo e quindi a una densità, a una complessità, alle trame e alle sottotrame. Avete mai pensato a Padania come a una sceneggiatura, cioè come a una serie di storie che si dipanano tra le canzoni?
All’inizio sì, ma poi mi sono reso conto, come ti dicevo prima, che stavo razionalizzando troppo: stavo rischiando di fare un album molto cantautorale, di cantautorato rock, ma tant’è, e non era quello che mi interessava. Volevamo piuttosto spingere sul lato musicale, anche per amplificare il lato emotivo, che ci sembrava e ci sembra tuttora la cosa più importante. Questo non è un disco facile, ma allo stesso tempo vedo che sta arrivando nel modo giusto; non so se la gente lo capisca o meno, e non è importante: non so nemmeno se lo capisco io. Ma il contenuto emotivo, la tensione, arrivano: ed era esattamente quello che non volevamo perdere. Per cui siamo stati molto attenti a preservare la spontaneità delle cose che nascevano, quando erano molto forti: per questo ho scritto i testi in coda al lavoro. Non volevo condizionare la scrittura musicale con le parole e sulle parole, ma fare il contrario. Sono stato attento a metterci degli approdi, dei porti, dei ganci, chiamali come vuoi, più narrativi, che servissero a dare una chiave di lettura in forma canzone, come “Padania” stessa, come “Costruire per distruggere” o “La terra promessa si scioglie di colpo”, o “Nostro anche se ci fa male”. Sono pezzi più tradizionali per costruzione e un po’ più narrativi, perché se no l’album sarebbe diventato davvero troppo claustrofobico e schizofrenico. E il bianciamento tra le canzoni l’abbiamo trovato nel modo più vecchio che ricordavamo: facendoci delle scalette a orecchio. Abbiamo provato a seguire un ordine teorico, ma ci aveva frustrato: non riuscivamo a trovare una sequenza che funzionasse bene. Mettendole in fila, insieme, per gusto, paradossalmente abbiamo trovato una scaletta che funzionava molto bene, paradossalmente, anche razionalmente.

Sono allora curioso di sapere come questo “metodo” sia stato applicato ai pezzi probabilmente più curiosi e inaspettati del disco: i due “messaggi promozionali”. Considerando quello che dicevi prima, sono una sorta di “satira dell’immediatezza”? Sembra che la ruvidezza acida che si sente in tutto il disco esploda in questi momenti…
Sì, è così. Non è facile da spiegare, ma intanto siamo comunque nell’epoca del messaggio promozionale. Qualunque cosa succeda, un bombardamento su una città del Libano, dei bambini rapiti o un’altra tragedia, alla fine ti arriva comunque il messaggio promozionale che spesso è anche in tema con quello che è successo: rapiscono un bambino e lo spot è sui pannolini. Si tratta di una satira, forse non pesante, ma Padania, comeconcept, vuole rappresentare anche questo tipo di situazione. Nelle foto promozionali abbiamo questi visi di cera, quasi inespressivi, come persone che non hanno né anima né sentimento. E nel disco, nel momento emotivo più alto, arrivano degli spot a rompere l’atmosfera, ma sono più simbolici che altro, funzionano in quanto tali più che per il loro contenuto. Tuttavia, il secondo, che parla della vendita di spazi promozionali su cd, il più cinico dei due, alla fine non era una brutta idea!(ride). Eravamo in dubbio se brevettare la cosa e alimentare ancora di più la provocazione: volevamo aprire un numero verde, con una segreteria telefonica, e vedere – facendo lo spot in maniera più seria di come è finito sul disco – quanta gente avrebbe creduto che gli Afterhours erano davvero disposti a vendere degli spazi pubblicitari sui dischi. Però poi abbiamo avuto un po’ paura… Paura della gente…

Paura dell’eventuale reazione o di come gestire le chiamate?
Di come gestire le chiamate… Insomma, parliamoci chiaro: la gente non sempre dimostra un grande umorismo. Anche nei nostri confronti, e la cosa talvolta mi fa un po’ male, non sempre c’è stata fiducia in quello che avevamo fatto. Quindi questa cosa poteva diventare davvero difficile da spiegare, alla fine, nel suo essere provocatoria. Ma la cosa che ci ha fatto più paura è che rischiava di fare passare in secondo piano cose molto più importanti del disco e quindi abbiamo deciso di ridimensionarla. Comunque le questioni della sintesi, della velocità è uno dei temi del disco, perché sono cose che stiamo soffrendo. Di certo la cosa è generazionale: il progresso avanza e la vecchia generazione soffre la velocità della nuova generazione. Certo è vero che la velocità delle comunicazioni di oggi, con la rete e altri dispositivi, ha abbassato le capacità di analisi delle persone, la pazienza che si deve avere per giungere a un concetto, e quindi la disponibilità delle persone ad ascoltare la musica. Ed è veramente un peccato: non tutta la musica deve arrivarti come un pugno in faccia, ma se non lo fa è perché magari ci sono delle cose da scoprire, ed è molto bello farlo, io sono abituato così. Per questo abbiamo fatto un disco del genere, che credo non sia molto immediato: ci piacerebbe che la gente andasse a scoprirlo, questo disco, magari con il tempo.

Faticare per ascoltare può portare a un ascolto più pieno e, eventualmente, a una critica più fondata: ma Padania arriva come una manata in faccia, anche solo dal punto di vista musicale. C’è un lavoro stratificato, sui feedback, sullo spessore del suono: è qualcosa nata in studio o già i musicisti hanno portato un’idea sonora di questo tipo?
No, è qualcosa che è nato in studio. All’inizio volevamo organizzare il lavoro come abbiamo fatto ultimamente, cioè suonando tutti insieme nella stessa stanza: così avevamo l’illusione di mantenere una certa naturalezza. Ma è una modalità che non sempre è funzionale: magari una soluzione che viene al momento è mediamente buona per quel pezzo, ma non è detto che perché l’hai trovata lì in studio sia la migliore. Spesso le cose migliori vengono fuori ragionando, riflettendo, cambiando, eccetera. Dopo un po’ ci siamo resi conto che le cose migliori venivano dagli spunti su cui ognuno lavorava a casa propria e poi portava in sala prove, per cui abbiamo deciso di continuare a lavorare così. Ognuno ha lavorato ai propri spunti da solo, per poi portarli in sala prove affinché gli altri potessero lavorarci a loro volta da soli. Per farti un esempio: se Giorgio Ciccarelli faceva un riff di chitarra particolarmente interessante, io poi a casa facevo un cantato sopra, lo strutturavo e lo passavo a Giorgio Prette, che a casa ci faceva una parte di batteria, eccetera. Il tutto senza essere nella stessa stanza. Secondo me questa cosa ha giovato tanto, perché noi tutti abbiamo provato a fare delle cose che forse non avremmo fatto davanti agli altri. Io stesso mi sono fatto tutte le voci in sala prove da solo, cosa che non credo avrei fatto di fronte agli altri, non sempre con grandi risultati (ride). Il settanta per cento delle cose che ho fatto, per fortuna, non sono finite nel disco, ma quel poco che hofatto mi soddisfa molto, perché è un po’ diverso da quello che avevo fatto nel passato. E così credo che sia per tutti gli altri.

Per concludere, torniamo da dove abbiamo incominciato. Ascoltando ciò che mi hai detto ho ripensato al concetto di impotenza dell’uomo protagonista della canzone “Il Paese è reale”, e il tuo menzionare lo smarrimento e il disorientamento hanno come relativo fisico la pianura, che spesso provoca queste sensazioni. Quanto spesso e come vieni preso anche tu da questo senso di smarrimento, impotenza e frustrazione che credo siano elementi di spicco dello spirito del Paese, non solo adesso?
Sì, hai detto bene: sono caratteristiche del Paese da tanto tempo a questa parte, e anche io ci casco molto spesso, devo dire. Nel nostro ambiente, poi, è molto facile essere presi dallo smarrimento e dalla frustrazione, non solo perché le cose fanno fatica a funzionare per tutti, ma anche perché c’è una mentalità veramente meschina: c’è tantissima invidia, c’è rancore, ma soprattutto c’è tantissimo immobilismo. E internet, che pure ha tanti vantaggi nell’ambito della comunicazione e che anche io uso tantissimo magari per riascoltarmi delle cose di catalogo, ha peggiorato questa situazione: tiene a casa le persone, non le fa essere presenti e sicuramente le rende più innocue, da un certo punto di vista. E invece di sfogare la rabbia e il rancore con le invettive che si leggono in rete tutti i giorni, non fa altro che alimentarle, perché nutre l’immobilismo e non provoca alcun tipo di reazione. Non sono l’unico, purtroppo, a provare queste sensazioni, adesso come adesso. Però sto anche vedendo delle reazioni molto importanti (e parlo sempre del mio mondo, quello della musica e dell’arte, perché non voglio fare il tuttologo): il Teatro Valle occupato a Roma, ma soprattutto il Teatro Coppola a Catania, un vero gesto di responsabilità civile. La gente è andata a ristrutturare gratuitamente un teatro per ridarlo ai cittadini, non per tenerselo e occuparlo per scopi personali. Io credo che la gente abbia ricominciato a capire che la partecipazione reale, quella fisica, è il futuro, per quanto possa sembrare una cosa preistorica. Quando ci sono state le amministrative a Milano, a detta dell’amministrazione stessa il momento della svolta è stato il concerto di piazza Duca d’Aosta, dove 25000 persone si sono trovate fisicamente insieme nello stesso posto e si sono rese conto che eravamo in tanti e valeva la pena comunque di provarci: da lì è stata una spirale positiva. Quindi credo che queste cose stiano tornando, che soprattutto la giovanissima generazione si sia resa conto che la partecipazione può essere una via di fuga dall’immobilismo e dalla rabbia e dal rancore che ne derivano.

Novità

È un periodo denso, stancante e stimolante, questo che sto vivendo. La radio ha completato finalmente il suo trasloco e oggi, mentre risistemavo i ferri del mestiere, mi sentivo quasi euforico: la nostalgia, come talvolta mi accade, è stata fulmineamente affiancata e superata dall’entusiasmo per il nuovo.

Ieri è stata pubblicata l’intervista che mi ha fatto Tommaso Colliva (il “quinto uomo” dei Calibro 35, tanto per dire una delle mille cose che fa) sul suo blog Sopravvivenza Musicale: considerando che per mestiere le domande le pongo, rispondere a qualcuna è stata una novità davvero divertente e, permettetemelo, soddisfacente.

C’è anche una terza novità, che però mi destabilizza: avendo cambiato luogo di lavoro, devono mutare le mie abitudini di spesa alimentare. Devo, insomma, trovare un altro supermercato: tutti pensano che trovarne uno di buona qualità e prezzi decenti nel centro di Bologna sia impossibile. Mica vero: ne esiste uno. L’indirizzo esatto è inciso alla base del Sacro Graal. Mi metto alla ricerca.

So long, Berretta Rossa

Some Rights Reserved to Alessio Bragadini (http://www.flickr.com/photos/abragad)Mi piacerebbe ricordarmi quando ho messo piede per la prima volta negli studi che la radio abbandona in questi giorni: avrei potuto farlo, se tenessi un diario. Non avrei mai potuto, invece, sapere quante ore ho passato in quegli studi e uffici, dal 2001 a oggi, nello studio di regia, davanti a un computer, sui gradini dell’entrata, nelle altre stanze della sede di Radio Città del Capo. Ma se dovessi calcolare quanto tempo abbia passato in quella “casa” rispetto alle case che ho vissuto in trentatrè anni (e passa) di vita, sono certo che “Berretta Rossa” si posizionerebbe ai primi posti di quest’inutile e immaginaria classifica.

Mi ricordo di quando hanno sbagliato grossolanamente il nome della via, delle notti passate a trasmettere Monolocane e delle maratone dei “morti viventi”, quando stare là era davvero come stare a casa. Mi ricordo di avere pianto, brevemente e violentemente, in un giorno tremendo di agosto e di avere riso a crepapelle (talvolta anche a microfoni accesi) innumerevoli volte. In via Berretta Rossa, quella che è quasi a forma di H, quella che è erronamente segnalata su alcune mappe e navigatori da far perdere nella periferia bolognese più di una band attesa per un live a Maps, ho litigato un paio di volte e mi sono formato dal punto di vista lavorativo. Ho conosciuto amori e amici, là, e ho bevuto centinaia di caffè della macchinetta.

Oggi pomeriggio trasmetto per l’ultima volta dagli studi di via Berretta Rossa: Radio Città del Capo si trasferisce altrove, in un posto che è in tutto e per tutto assai migliore di quello dov’è stata finora; ma, per oggi e oggi solamente, mi permetterò un briciolo di malinconia. Non preoccupatevi, non trasparirà dall’onda, sarebbe poco professionale: quelle mura che, in fin dei conti, mi hanno visto crescere, si meritano per l’ultima volta il meglio di me.

L’elettricità

Quando ho avuto la conferma che Nada sarebbe passata da Maps non solo per un’intervista, ma anche per un minilive in studio, mi sono davvero emozionato: non mi aspettavo che una musicista con una carriera tale sarebbe venuta a suonare nel mio programma. Preparandomi, però, per l’intervista, ho riguardato e riascoltato molto della lunga carriera della musicista.

E in effetti ciò che l’ha sempre animata è stato uno spirito di indipendenza e di purezza sinceramente lontano dalle famigerate “scelte commerciali”, tant’è che mica le è andata sempre bene. Questo spirito, in scala minore, è un po’ quello che vorrebbe avere la trasmissione e a cui tende la programmazione della radio tutta. La sua presenza in onda, quindi, poteva avere ragione di esserci, così, fantasticandoci su.

Quest’introduzione per dirvi che quel pomeriggio di più di un mese fa alla fine è stato davvero bellissimo, e mi è rimasto dentro al punto tale da pervadere anche le sensazioni della serata, quando Nada e i Criminal Jokers hanno suonato in un Locomotiv sold out.

Quassù trovate il resoconto della serata, pubblicato nell’ultimo numero di Jam: un breve pezzo in cui non si accenna alle canzoni che vedrete e sentirete presto sul sito di Maps, ma di cui mi è rimasta una sorta di elettricità nell’animo. E capirete che quando è un set acustico a provocare queste sensazioni…

Qui non si sa
se restare nell’oscurità
o andare verso il futuro
in un mondo diverso
spinti da un vento leggero
come un fucile alla nuca
(Nada, “L’elettricità”)

L’undicesima stagione

Era l’ottobre del 2001 quando andava in onda la prima puntata di Seconda Visione: volevamo portare in radio un nuovo modo di parlare di cinema, con competenza sì, ma senza prenderci sul serio. In questi anni si sono avvicendati ai microfoni della trasmissione sei conduttori (che sono poi gli autori del blog), ma mi fa un certo effetto pensare che io sono quello che è rimasto, dalla prima puntata della prima stagione alla prima dell’undicesima, che va in onda questa sera alle 2230.
Sono là da tutto questo tempo, accidenti.
Poi uno dice che in Italia vige la gerontocrazia…

Comunque: qui sotto lo spot, che vi farà capire che occuparsi di cinema non è poi sempre tutto rosa e fiori. A questa sera!

Maps V

Come passa il tempo, signora mia: oggi alle 1535 inizia la quinta stagione di Maps, il programma che ho il piacere di co-condurre e co-curare, in onda su Città del Capo – Radio metropolitana di Bologna.
Quest’anno la squadra è stabile: insieme a me Federico (il lunedì), Laura (martedì e giovedì) e Titti (mercoledì e venerdì).

E abbiamo già una prima settimana stracolma, in cui parleremo del roBOt Festival, degli Who e di mille altre cose. E già da oggi pomeriggio partiamo con un live in studio, quello di My bubba and Mi, che andrà a rimpolpare la schiera di session acustiche fatte e registrate in questi anni. Vedo ora che sono duecento giuste (e le potete trovare sul sito, scaricabili nelle raccolte Live@Maps): un buon numero per ricominciare.

Che bellezza.

Il vero ultimo giorno di lavoro

Lo so, lo so: mettere i dischi è qualcosa di talmente divertente che chiamarlo lavoro è esagerato. Però rientra in quelle categorie di attività legate a orari, obblighi e comportamenti che è assimilabile a un lavoro.
Quindi, dopo l’ultima giornata di lavoro-della-mattina il 28, l’ultima puntata di Maps del 29, l’ultima puntata di Pigiama Party del 31, eccoci all’ultimo dj-set della stagione. Insieme al prode Michele Restuccia, sempre nel quadriportico felsineo di Vicolo Bolognetti, stasera avrò l’onore e il piacere di muovere gli astanti restanti dopo il concerto di The Thermals e Polvo. I Polvo. E chi se li ricordava più?
Danze dionisiache per dire “benvenute” alle vacanze. Aspettovi.

Circondato dai Massimo Volume

Il caso ha voluto che due dei quattro Massimo Volume (che suonano domani all’HanaBi a Marina di Ravenna) saranno intorno a me oggi.

Questo pomeriggio dalle 1530, nell’ambito delle “Prestigiose co-conduzioni femminili dell’ultima settimana della quarta stagione di Maps”, sarà con me ai microfoni Vittoria Burattini, la batterista della band.

Questa sera, invece, metto i dischi (insieme a Enzo “aggiusta i medi” Polaroid) al Bolognetti on the Rocks dopo il concerto di Egle Sommacal, uno dei due chitarristi dei Massimo Volume.

Ascoltate, venite, ballate.

L’ultima settimana di Maps!

live at maps vol. 4Vedo avvicinarsi le vacanze, ma con gioia mi accingo, questo pomeriggio, all’ultima settimana di conduzione del programmino. Una settimana particolare perché ogni giorno avrò accanto a me una VIP in co-conduzione (i primi nomi? Grazia Verasani, Beatrice Antolini e Angela Baraldi), ma anche perché oggi esce Live@Maps – vol. 4, la raccolta dei live che si sono svolti da settembre all’altro giorno nei nostri studi.
Trovate tutte le informazioni qua.

Scaricate le quarantotto canzoni, è tutto gratis!

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