Tomorrow Never Knows

Dagli archivi: La spettatrice (Paolo Franchi, 2003)

La spettatrice

Di Paolo Franchi
Con Barbora Bobulova, Andrea Renzi, Brigitte Catillon
Durata 100’
Distribuzione Istituto Luce

La storia: Valeria è una giovane traduttrice, e condivide un appartamento con una coetanea a Torino. Rimane spesso a guardare, non vista, l’appartamento di fronte al suo, abitato da un uomo di cui non sa assolutamente nulla. Quando scopre che l’uomo si è trasferito a Roma, anche Valeria raggiunge la capitale e scopre che Massimo (questo il suo nome) ha una compagna, Flavia, più vecchia di qualche anno. La ragazza si introduce nella vita della coppia e diventa amica di Flavia, aiutandola nella scrittura di un libro sul suo ex-marito.

È difficile fissare con le parole lo stato di leggerezza che pervade questo film intenso e denso; Un film dominato dalla sottrazione, dall’ellissi, dalla passività dello sguardo e dell’azione, da una sorta di onnipresenza mai svelata, se non nel finale, di elementi trasparenti come aria e acqua.

L’esordiente Paolo Franchi punta molto sulle capacità interpretative della protagonista, tenendola quasi sempre in scena, e filtrando tutto il film attraverso il suo sguardo e, più in generale, attraverso il suo modo di sentire. In fondo, la stessa Valeria è un filtro: fa la traduttrice simultanea, esiste solo in quanto tramite istantaneo tra due lingue. Anche Flavia conduce un’esistenza particolare.

Nonostante abbia un compagno e una professione soddisfacente, vive proiettata verso un’altra dimensione, quella del marito morto, che mitizza e cerca di fare rivivere attraverso un libro su di lui, più volte iniziato, ma mai completato. Sia Flavia che Valeria, nonostante la loro diversità, più che vivere galleggiano e fluttuano.

Entrambe le donne trovano talvolta nel sesso dei momenti di concretezza: il sesso esplicitamente e saltuariamente richiesto da Flavia a Massimo, e quello concesso da Valeria a occasionali partner senza bisogno di parole o di scontate pratiche seduttive.

Prima di tornare a Torino la protagonista manda una lettera a Flavia, in cui svela i motivi della sua momentanea presenza nella vita di lei e Massimo. Ammette che non ha il coraggio di agire, nella vita; che rimane a galla, non pensando assolutamente ad affondare, ma senza muoversi. Io ho in mente l’immagine di un gerride lacustre, un piccolissimo ed esile insetto che si muove velocissimo e a scatti a pelo d’acqua, rimanendo per molto tempo immobile.

Valeria fa come il gerride, segue il suo istinto: cambia città, fa domande indiscrete, piange, entra nella vita di altre persone, ne ruba pezzetti, come nella bellissima scena del caffè, in cui la protagonista capta al volo dei brani di discorso che una coppia inglese fa alle sue spalle per dare un finto ritratto della sua vita a Flavia.

Tuttavia Valeria sta per lo più ferma a guardare le vite degli altri, in un silenzio che, una volta tanto, è veramente pieno e ricco, e viene interrotto solo da qualche spostamento repentino, da qualche parola. E noi spettatori rimaniamo incantati a guardare la grazia della stasi, tra uno scatto e l’altro.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, luglio 2004

Dagli archivi: La perfezione degli oggetti – Osservazioni a latere di Terra di confine

Open Range - Terra di confine

La visione dell’ultimo bellissimo film di Kevin Costner porta con sé alcune riflessioni. Si può partire, volendo, dalle considerazioni sul genere, ovverosia su come Costner si rapporti al western. Terra di confine è un film classico, prima che un western classico. Nessuna rivisitazione postmodern(ist)a: cavalli, campi lunghi, pistole. Ma il film, allo stesso tempo, ci dà una visione quotidiana della vita che manca nella gran parte dei film del genere. Tutta la prima parte, giustamente lenta, non è altro che un diario minuzioso di ciò che veramente è e fa un cowboy: portare le mandrie al pascolo, pulire i piatti dopo aver mangiato, ripararsi dalla pioggia aspettando che passi, rintracciare la mandria dispersa dopo il temporale. Una routine che i protagonisti Boss e Charley conoscono bene, e che per gli altri due del gruppo è ancora, tutto sommato, qualcosa di nuovo ed eccitante, fonte di scherzi e allegria.

Ma il film di Costner si distanzia da altri western anche per la concezione dello spazio, non dal punto di vista filmico, ma storico. Partiamo dal titolo: Open Range vuol dire letteralmente “campo aperto”. E si usa in inglese l’espressione “range cattle” per indicare il bestiame che pascola liberamente, quello degli allevatori nomadi, come vengono chiamati nel film.

Il punto è che i campi non sono più liberi, ormai gli Stati Uniti iniziano a pensare alla proprietà privata; il problema non sono più i nativi ai quali rubare le terre, ma il possesso delle terre stesse e la loro spartizione. Due inquadrature sono fondamentali a questo proposito.

La prima ci mostra un campo lungo con in primo piano un filo spinato, a fuoco. La seconda ci dà l’unica indicazione temporale del film: è il 1882 inciso sulla “lapide” di Mose. Questi elementi non sono affatto marginali. Il campo inizia a non essere più aperto, ma recintato: per questo motivo ci saranno molti problemi tra gli allevatori nomadi e i primi “rancheros”.

E poi l’anno di ambientazione del film: il ‘900 è ormai vicino, l’anno dopo verrà inaugurato il ponte di Brooklyn e il prezzo di un francobollo verrà ridotto a due centesimi di dollaro. Sono le comunicazioni interne che interessano agli Stati Uniti, tant’è che nell’anno successivo ci sarà un’importante accordo con il Canada per la standardizzazione degli orari ferroviari. La frontiera non ha più alcun senso come limite da superare, ma inizia ad essere considerata come limite da non far valicare: non è rimasto nulla da scoprire.

C’è un ultimo punto da considerare: l’importanza degli oggetti, non tanto quelli dei cowboy (c’è solo un brevissimo scambio di battute sul tipo di pistola che i protagonisti usano), ma quelli domestici, dell’ambiente che funge da sogno (proibito) dei personaggi principali.

La casa del dottore e di sua sorella, non per niente, rimane un luogo estraneo a tutto il resto, una specie di bolla spazio temporale o di parentesi, invasa e corrotta da ciò che vi sta fuori solo alla fine del film. Quando i cowboy si informano sullo stato di salute del loro giovane amico “ricoverato” nella casa, non entrano per non sporcare per terra.

E poi: Charley rimane affascinato dal servizio da the di Sue, e l’unico pensiero prima di affrontare la sparatoria finale è quello di fargliene avere uno uguale, dopo avere distrutto per sbaglio il suo. E cosa fa il personaggio interpretato da Costner? Sceglie il modello su un catalogo: il commercio per corrispondenza (in senso lato) inizia adesso, e le inquadrature insistite sugli oggetti che vengono messi in vendita sono importanti, testimoniano un’altra forza modernizzatrice degli USA, uno dei vettori portanti del “progresso”.

Le importazioni di prodotti sono segnale della stessa cosa: i dolci migliori e i sigari migliori, ultimi desideri che si concedono Charley e Boss, vengono dalla Svizzera e da Cuba. Gli oggetti in genere, quindi, potremmo dire le merci, sono uno dei fulcri intorno ai quali ruota Terra di confine che, non per niente, si chiude su un lento dolly che va a finire proprio sul servizio nuovo di Sue.

Perfetta nella sua immobilità, la porcellana è un perfetto contraltare a una delle sparatorie più belle viste in un film di recente: una sparatoria, come si diceva giustamente sul penultimo numero di duellanti, in cui i corpi cadono pesantemente per terra, si sbaglia la mira, la mano trema. Una sparatoria vera, insomma, per un film che vuole essere legato alla realtà, al quotidiano e quindi agli oggetti, che rappresenta il momento delicatissimo di passaggio dall’America di frontiera all’America del consumo.

Articolo originariamente apparso su duellanti, aprile 2004

Dagli archivi: Terminator 3 – Le macchine ribelli (Jonathan Mostow, 2003)

Terminator 3 – The Rise of the Machines

Di Jonathan Mostow
Con Arnold Schwarzenegger, Nick Stahl, Claire Danes, Kristianna Loken, David Andrews
Durata 109’
Distribuzione Medusa

La storia: Dieci anni dopo avere rischiato la pelle a causa del T-1000 inviato dal futuro per ucciderlo, John Connor deve fronteggiare la temibile Terminatrix, o TX, e anche il sistema Skynet, che ha creato un virus per bloccare l’intero sistema telematico mondiale. Ma, ancora una volta, dal futuro verrà inviato un Terminator per proteggere lui e quella che sarà la sua futura compagna nella vita e nella resistenza degli uomini contro le macchine, quando il giorno del giudizio è ormai imminente.

All’inizio di T3 John Connor ricorda le parole della madre Sarah: il futuro non è scritto, dipende da noi. E ammette di non esserne proprio convinto. Pur non essendo all’altezza del primo episodio, quest’ultimo film della serie Terminator condivide con esso un certo pessimismo di fondo, che fa sicuramente bene, e lo distanzia quindi (per alcuni versi) da Il giorno del giudizio.

John è uno sbandato, non ha una casa, non ha un lavoro fisso, non si sente assolutamente l’eletto, il futuro capo della resistenza. L’eletto. Cosa vi ricorda questa parola? Matrix, ovviamente. Niente di più lontano. Se, infatti, soprattutto nel secondo capitolo della trilogia dei Wachowski la filosofia spicciola, e soprattutto il tema del libero arbitrio, viene continuamente tirata fuori in un insostenibile (a mio avviso) e poco comprensibile eccesso didattico e didascalico, in questo film tutto rimane sullo sfondo, pur essendo presente, per fare spazio all’azione sfrenata. E per fortuna.

Il ritmo di T3 è magistrale, il film non lascia un attimo di tregua allo spettatore ed è divertente, pur non avendo eccessive pretese. I rari momenti di pausa sono stemperati da una buona dose di ironia, cosa a cui già T2 ci aveva abituato, ma senza esagerare, evitando di usarla come ultimo mezzo per mostrare di avere ancora qualcosa da dire. Spesso alcuni luoghi tipici riscontrabili nei due film precedenti sono rivisitati e capovolti.

Per esempio, Terminator appena arrivato nel presente è come sempre nudo e in cerca di vestirsi. Come nel secondo episodio, entra in un bar country&western, dove però, proprio quella sera, c’è una Ladies’ Night: a nessuna, quindi, fa paura l’enorme figura di Schwarzy, anzi, le avventrici guardano ammirate il suo corpaccione ignudo. Esattamente come il poliziotto che la ferma per eccesso di velocità guarda ammirato il seno della Terminatrix seduta in macchina, seno da lei rimodellato aggiungendo qualche taglia per l’occasione dopo avere visto una pubblicità di Victoria’s Secrets. A questo punto si potrebbe iniziare un bel discorso analitico sul corpo, corpo umano, corpo robotico… Ma no, non c’è tempo. E per fortuna.

Perché dopo dieci minuti di film è tutto un turbinio di inseguimenti, sparatorie e di esplosioni, cose a cui anche i due episodi precedenti ci avevano abituato. Cosa poteva rimanere da fare, allora, al valido Jonathan Mostow, per non sfigurare? Nel secondo Terminator l’inseguimento avviene con un camion? Qui c’è un’autogru, con braccio posto orizzontalmente, in modo da sfasciare più cose possibili ai due lati della strada. In una scena un elicottero entra a tutta velocità in una specie di hangar. Basta? No, perché, qualche secondo dopo, ecco irrompere un altro elicottero, secondo una logica dell’accumulo che risulta incredibilmente efficace.

I personaggi, poi, sono come devono essere: la TX è bellissima e spietata (e riconosce le persone leccando il loro sangue e acquisendo notizie sul loro codice genetico). Terminator ha ormai una sua ironia (involontaria per il personaggio, ma assai calcolata e modellata su quella che emerge dal secondo capitolo) e ha in dotazione un programma di lineamenti di psicologia integrato nella memoria (questo gli permette di dire battute che agghiacciano i due protagonisti, del tipo: “La vostra serenità è positiva, allontana l’ansia e la paura di morire”).

Forse è un po’ debole il personaggio interpretato da Clare Denis, Kate Brewster, ma in questo contesto funziona. E infine John Connor, che rimane lo stesso adorabile cazzone de Il giorno del giudizio, ma con in più, come dicevo, la consapevolezza che il suo ruolo è troppo grande per lui. Il confronto tra lui e Terminator, che potrebbe raggiungere pesantezze “filosofiche” inaudite, si limita a qualche momento efficace, in cui, appunto, emerge il tema del libero arbitrio e delle responsabilità del singolo rispetto alla collettività (ricordando vagamente, in qualche modo, alcuni punti di Spider Man).

Ma questo, lo ripeto, non è fondante. Viene accennato solamente, e tanto meglio per chi lo coglie (non ci vuole molto), ma chi non lo dovesse fare si può godere tutto comunque. John Connor rimane una persona spaesata, che guarda al futuro tra lui e Kate in maniera umana (della serie: ma pensa un po’, avrò dei figli con questa ragazza carina), e che rimane pieno di paure e di incertezze.

La scena finale del film è emblematica: i due rimangono al sicuro in una sorta di bunker e ricevono le prime chiamate via radio da parte dei sopravvissuti all’inevitabile giorno del giudizio: inizia la resistenza, di cui Connor, quindi, sarà il capo. Quando gli chiedono chi è che comanda laggiù, John esita molto, prima di dire il suo nome, e parla quasi mormorando. I due protagonisti si stringono la mano, per cercare un appoggio in un altro essere umano più che per altri motivi. John e Kate non si baciano mica, del resto è appena iniziata una guerra nucleare, a chi verrebbe in mente di farlo? Bravi.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, ottobre 2003

Dagli archivi: Goodbye, Lenin! (Wolfgang Becker, 2002)

Goodbye, Lenin!Goodbye Lenin locandina

Di Wolfgang Becker
Con Daniel Brühl, Katrin Sass, Chulpan Kamatova, Florian Lukas, Maria Simon
Durata 118’
Distribuzione Lady Film

La storia: Christiane, attivista del partito comunista della Repubblica democratica tedesca, cade in coma durante i disordini precedenti alla caduta del muro di Berlino. Si sveglierà solo otto mesi dopo, con un cuore ancora molto debole. La Germania e l’Europa, intanto, sono cambiate radicalmente, ma il figlio Alexander, con la complicità di amici e parenti, cercherà di creare un mondo in cui tutto è come prima, se non meglio.

Come spettatore italiano, mi ritrovo nella stessa situazione di qualche settimana fa, quando ho visto City of God. Esattamente come per il film di Mereilles il mio essere non brasiliano mi faceva percepire alcune cose come se fossero adornate da una sorta di epicità aggiunta, anche nel film di Becker mi sono trovato a non capire del tutto. Con la differenza che mentre in City of God ci muoviamo efficacemente, soprattutto nella prima parte, nei territori della vita e storia come mito, in Goodbye, Lenin! le cose sono confuse e spesso in equilibrio instabile.

Nel film ci vuole essere un po’ di tutto: la Storia, innanzitutto, ma quella recente e vicina a noi, che conosciamo bene (sebbene da non tedeschi, appunto). Una sorta di abbozzo di romanzo di formazione, vedi gli accenni all’infanzia del protagonista e ai suoi eroi, la storia del suo primo amore, il rapporto con i genitori che cambia, la vita adulta. Inoltre il regista spinge sia sul registro del grottesco e del comico, con un uso frequente di accelerati e del commento fuori campo del protagonista, sia sul dramma familiare. E tutto ciò è imbevuto in un tentativo di commedia.

Così alcune realtà che presumo possano essere state all’ordine del giorno nell’ex Germania est, come la disoccupazione, lo spaesamento politico, culturale e umano di vecchi militanti del partito e dei giovani ai quali venivano offerte possibilità tanto nuove quanto effimere, vengono spesso ridotte a macchiette, a stereotipi.

Il vecchio collega di Christiane, insegnante del politecnico Karl Marx, si è dato all’alcolismo, la prima cosa che si fa quando si attraversa il confine tra Berlino est e ovest è andare in un sexy shop, la Germania si riunifica veramente con la vittoria della nazionale tedesca ai mondiali di calcio italiani. Va bene, immagino possa essere stato così, ma è questo l’unico modo di rappresentarlo?

Tuttavia altrove il regista rivela un tocco delicato e molto personale. Un esempio su tutti è la creazione di quella bolla temporale che diventa la stanza di Christiane, una volta che la donna viene portata a casa dopo il lungo ricovero. In un primo momento la stanza diventa una specie di parentesi ferma all’ottobre 1989, una specie di teca, in cui tutto viene dal passato.

Divertenti, quindi, le sequenze in cui Alexander e l’amico Denis creano finti telegiornali. Godibile la ricerca affannosa del figlio dei cetriolini “socialisti” per la madre, ormai introvabili e sostituiti da prodotti di importazione olandese, ma la cosa si ripete troppe volte. Poi la stanza diventa un vero e proprio laboratorio, dove il tempo si muove in una sorta di realtà parallela. Quindi viene fatto credere a Christiane che sono i cittadini dell’ovest ad arrivare nella DDR, attratti da uno stile di vita alternativo al capitalismo, con scene decisamente divertenti. D’altro canto, quando viene reclutato il cosmonauta idolo di Alex per interpretare un improbabile successore di Honecker alla guida del paese, si cade un po’ nel patetico.

Il film continua in questa incertezza, caricando troppo delle situazioni, disegnandone alcune molto bene (soprattutto quando si tratta di nascondere alla madre l’enorme pubblicità della Coca Cola e il passaggio del dirigibile West), ma rimanendo insicuro sulla strada da prendere.

Così, nel pout-pourri generale, anche la storia del padre perduto e poi ritrovato (ovviamente ricco, con altri due figli, che vive in una bella villa con giardino) rimane appena abbozzata, sullo sfondo, quasi indistinta. Peccato, perché, ripeto, Becker non è affatto banale sia nelle scelte registiche che nella direzione degli attori, che, la Sass sopra tutti, sono bravi e nella parte.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, giugno 2003

Dagli archivi: BlackStarman: addio a David Bowie

Look up here, I’m in heaven
I’ve got scars that can’t be seen
I’ve got drama, can’t be stolen
Everybody knows me now

(da “Lazarus”)

Quando questa mattina la notizia è rimbalzata sui profili di amici (veri o fittizi) su Facebook, ho pensato: è una bufala. Poi ho sentito “Heroes” alla radio e la conferma della notizia: David Bowie è morto ieri, dopo diciotto mesi di battaglia con un cancro che l’ha avuta vinta su una delle figure che ritenevamo immortali. Bowie è morto davvero, pochi giorni dopo avere dato alle stampe Blackstar, l’ultimo di una lunga serie di album che hanno definito non solo la musica, ma – nell’accezione più ampia del termine – il mondo degli ultimi cinquant’anni. Mezzo secolo in cui Bowie ha scritto, composto, recitato, inciso, suonato dal vivo, è caduto e si è rialzato, ha dato vita e ucciso alter ego (da Ziggy al Thin White Duke), ma anche mezzo secolo in cui uno dei più grandi artisti che il pianeta abbia conosciuto ha ascoltato, nel senso più ampio, le pulsioni del mondo intorno a lui per ridarne una sua lettura e, spesso, anticipandone gli sviluppi.

Il beat e il pop dei primordi, l’ariosità degli anni ’60 e l’amarezza con cui quel sogno è finito, il senso di cupezza e speranza, fine e progresso insieme degli anni ’70, la (ri)scoperta e la visione algida e plastica della disco e del soul, le oscurità elettroniche e la jungle, la consapevolezza degli anni Zero: queste rapide tappe sono quelle percepite da chiunque abbia vissuto gli ultimi decenni, ma sono anche delle linee di lettura possibili del percorso artistico di Bowie e, allo stesso modo, una traiettoria nella cultura pop moderna e post-moderna. Questo perché il musicista è stato al nostro fianco per tutto questo tempo, ha commentato con le sue canzoni, i suoi film, i suoi concerti, i suoi vestiti il nostro mondo, per poi tornare a se stesso negli ultimi due splendidi dischi.

Sono proprio The Next Day e Blackstar a darci tante importanti “lezioni” riguardo a questi tempi, in cui ognuno di noi è star e impresario di se stesso.

La prima è la discrezione: quando uscì la prima canzone dopo anni di silenzio, “Where Are We Now?”, uscì di sorpresa. Niente teaser, trailer, gif, nulla. Solo un brano e un video: le sorprese sono belle proprio perché in quanto tali arrivano dal nulla. La stessa che (non) ha circondato l’uscita di Blackstar e la malattia di Bowie. La stessa discrezione che pare sia impossibile da mantenere in questi giorni, in più di un contesto in cui sarebbe da ambire.

La seconda ha a che fare con il rapporto con la nostalgia e la memoria: tornando a The Next Day, è chiaro come Bowie, in quello che si rivelerà il suo penultimo disco, rilegga se stesso, riguardi la sua carriera, dalla copertina al testo del primo singolo: tutto lo indica. Ma lo fa creando qualcosa di nuovo, come ha fatto quasi sempre, non limitandosi – come si fa spesso in questi giorni di retromanie – a copiare-e-incollare il passato (e lui è uno dei pochi che se lo poteva permettere, di nuovo quasi sempre).

L’ultima riguarda il rapporto con il presente e il futuro: Blackstar è un disco che ha tanti riferimenti ai lati più difficili dell’oggi, senza avere la pretesa di raccontarli direttamente, ma usando parole e musica per evocare e suggerire, lasciando molto lavoro all’ascoltatore. Rivoluzionario, in un’epoca di pappe precotte di ogni gusto e per ogni occasione. E inoltre Bowie ha voluto realizzare il suo ultimo disco con dei giovani jazzisti: avrebbe potuto suonarlo con chiunque, ma davvero chiunque sulla faccia della Terra, e invece no.

Le sette canzoni che compongono il testamento di Bowie sono lanciate verso il futuro: un futuro che ora, nell’immediato, vedrà miliardi di parole, incluse queste, spese per ricordare la stella, ma che poi sarà composto da tanti attimi in cui godremo della sua luce, perdendoci ancora una volta nelle meravigliose musiche che ci ha lasciato.

Originariamente pubblicato sul sito di Radio Città del Capo, gennaio 2016

Dagli archivi: Aprimi il cuore (Giada Colagrande, 2002)

Locandina Aprimi il cuore

Aprimi il cuore

Di Giada Colagrande
Con Giada Colagrande, Natalie Cristiani, Claudio Botosso
Durata 93’
Distribuzione Lucky Red

La storia: Caterina vive e studia con Maria, sua sorella, che per mantenersi si prostituisce in casa. Le due ragazze sono unite da un rapporto d’amore assoluto e totale, che verrà messo in crisi con l’entrata nel loro mondo di Giovanni, custode della scuola di danza che frequenta Caterina. L’equilibrio si rompe portando a tragiche ed estreme conseguenze.

Per il suo primo lungometraggio, Giada Colagrande sceglie una storia difficile, facilmente etichettabile. Se si provano a filtrarne i contenuti, emergono tematiche come incesto, prostituzione, cattività, omicidio. Roba da fare gioire molti giovani registi italiani, magari quasi esordienti che, con ogni probabilità, trarrebbero da tutto ciò qualcosa di già visto in tutto e per tutto.

Non è il caso di questo film, scritto dalla stessa regista insieme a Francesco Di Pace, in cui questa (pericolosa) ricchezza di contenuti viene resa con forma asciutta e una messa in scena statica e ferma. Quando parlo di messa in scena, intendo tutto: la scenografia, per esempio. La maggior parte del film è ambientata nell’appartamento delle sorelle (il vero appartamento delle protagoniste), cinquanta metri quadri da cui la sorella minore non esce quasi mai, perché non vuole farlo. Il cielo spunta ogni tanto, ma spesso visto dalla finestra di casa, inquadrato come qualcosa di lontano e irraggiungibile. La luce del sole entra nelle stanze, ma in maniera riflessa. La luna, crescente, marca il tempo che passa, un tempo ipnotico, ritualizzato.

La vita delle sorelle, soprattutto quella di Caterina, è scandita in maniera ossessiva. La ragazzina studia in casa, mangia in casa, fa l’amore con la sorella in casa. Sente i gemiti dei clienti della sorella e il rumore ritmato della rete del letto che cigola, un suono acuto, opprimente, invadente e pieno che, insieme ai pesanti e cupi silenzi, fa letteralmente da colonna sonora.

Dopo ogni amplesso, un altro rituale, antico e (fin troppo) simbolico: il lavaggio. Caterina aiuta Maria a fare il bagno, e, quando sarà la sorella minore a prostituirsi, i ruoli ovviamente si invertiranno. Caterina è un animale in gabbia, che non ha la minima voglia di uscire, a parte per andare a scuola di danza. Talvolta la vediamo appoggiata alla finestra mentre getta un’occhiata sul mondo esterno, ma con indolenza, senza curiosità.

L’entrata del mondo esterno, l’irrompere di elementi estranei nel mondo emotivo ed emozionale delle due sorelle segna le svolte della storia. Prima Giovanni, che non può non esclamare “Che cazzo di situazione!” quando viene a sapere dello stato di cattività in cui vive Caterina. Poi, alla fine del film, è l’entrata nell’appartamento della moglie di uno dei clienti di Maria, disperata perché il marito è scomparso da una settimana senza lasciare tracce (“Siamo così innamorati”, dice la donna in lacrime a Caterina), a portare alla conclusione della vicenda.

Tutto, come ho detto, è ripreso in maniera sobria, distaccata, con la macchina da presa spesso distante dai corpi, immobile o quasi. Anche quando i corpi sono impegnati in amplessi freddi e squallidi, la camera si tiene spesso a distanza, ma non per pudore, quanto per una forma di non-partecipazione consapevole.

L’abbondanza dei contenuti e dei simboli, quindi, viene ben bilanciata (come già detto) dalla messa in scena. Nonostante tutto, si sente a volte una sensazione di eccesso. Prima di tutto nell’intermissione di rappresentazioni pittoriche della Madonna, dall’annunciazione fino alla morte. Una delle due sorelle si chiama Maria, il discorso è esplicito fin dall’inizio: non si tratta assolutamente di voler giocare sul filo del blasfemo, quanto di rappresentare un tipo di femminilità, che comprenda maternità, amore, sesso. In questo discorso, coerente e chiaro, l’introduzione dei quadri risulta quindi a volte sovrabbondante.

Inoltre il film è spesso segnato da innumerevoli e coltissime citazioni: Caterina studia da sola, non va a scuola, e quindi ripete alla sorella, e a noi, passi di Dante, poesie di Donne, interpretazioni leonardesche e michelangiolesche del dualismo corpo e anima, teorie cosmologiche di Tico e Keplero. Il tutto con un tono poco più che scolastico, che sicuramente alleggerisce i vari simbolismi. Un discorso a parte, infine, va fatto per la musica, praticamente sempre diegetica e, anche in questo caso, a volte fin troppo autoreferenziale: uno dei brani portanti del film è Chiarina di Schubert, dedicata dal compositore alla moglie Clara, molto più giovane di lui, e i titoli di coda sono accompagnati da un’Ave Maria fadista.

Sono questi, comunque, piccoli difetti, forse attribuibili alla normale paura di non essere capiti fino in fondo che molti registi esordienti hanno. Giada Colagrande dimostra di avere un occhio attento e una sensibilità non comune nel trattare quelli che sono temi universali e, quindi, molto difficili e pericolosi da rappresentare.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, maggio 2003

Dagli archivi: Sex is comedy (Catherine Breillat, 2002)

sex is comedy locandinaSex is comedy

Di Catherine Breillat
Con Anne Parillaud, Grégoire Colin, Roxanne Mesquida, Ashley Wanninger, Dominique Colladant
Durata 92’
Distribuzione Sharada

La storia: La regista Anne, alle prese con il suo nuovo film, sta cercando di girare una difficile scena d’amore, ma gli attori coinvolti faticano a darle quello che chiede.

Ogni film che parla di cinema è una potenziale arma a doppio taglio. Da un lato affascina e coinvolge, ma dall’altro rischia di voler risolvere in maniera metaforica, semplicemente mostrando la macchina-cinema, temi universali e difficili, arrivando talvolta a risultati quanto meno didascalici, se non addirittura banali.

La Breillat non sfugge a tutto questo. Sex is comedy è un film gradevole, ma discontinuo. È piacevole quando rimane sul set e narra delle vicissitudini delle giornate di riprese, delle lunghe attese, dei piccoli accorgimenti tecnici: in questo modo, ancora una volta, la finzione magica del cinema viene svelata, pur rimanendo intrigante. È assolutamente pretenzioso quando, attraverso alcune battute della regista, vengono veicolate massime e verità “assolute”, soprattutto sul cinema e sul mestiere della regia.

Nonostante le smentite della stessa Breillat, Anne non può non ricordare la regista stessa, e il film pare confermare questa tesi, con infiniti rimandi ai lavori precedenti dell’autrice. Non si tratta, infatti, di perseguire in maniera, appunto, autoriale le tematiche costanti della sua filmografia, sesso e verginità su tutte, ma di vere e proprie citazioni.

La scena centrale del film e, ovviamente (?), anche del film nel film (che si chiama Scenes intimes), in cui la protagonista si trova a fare sesso per la prima volta, è identica a una sequenza del precedente A mia sorella: stessa l’attrice (Roxanne Mesquida, brava come tutto il resto del cast), stessa la posizione della macchina da presa, stesse le battute pronunciate dagli attori.

Siamo ben oltre la strizzatina d’occhio, andiamo quasi verso un trattato autocelebrativo, tanto più che il film è narrativamente basato, o addirittura sbilanciato, sulla figura della regista, che sceglie gli attori “come gli uomini scelgono le donne, per poi consumarli”. Il rapporto tra attore e regista con sfumature erotico e sadomasochistiche? Già visto.

D’altro canto, però, la Breillat sa guardare con ironia al suo cinema. Esemplare, a questo proposito, la scena in cui l’attore si trova a dovere mettere un fallo di plastica, a mo’ di protesi. Non può non venire in mente il clamore suscitato da Romance, film in cui, sebbene soltanto a livello pubblicitario, aveva fatto scalpore la “comparsata” del pene di Rocco Siffredi.

Come molti registi, la Breillat è innamorata del cinema e di se stessa. Questo fa sì che non voglia quasi staccarsi da questo piccolo e, tutto sommato, gradevole film. Dopo alcuni cartelli di titoli di coda, ecco comparire di nuovo, sebbene solo per qualche secondo, la regista Anne.

La scena d’amore centrale (e onnicomprensiva, aggiungo) del film Scene intimes (ma anche di Sex is comedy e dei film della Breillat), è stata finalmente girata, con emozione, partecipazione e pathos da parte di tutta la troupe. Anna/Catherine si può finalmente rilassare, mangiando una banana e sorridendo. Ci sono altre “scene intime” da girare, nient’altro importa.

Recensione originariamente apparsa su duellanti, marzo 2003

Sick&Sicker: sono stato a vedere i Twins of Evil (ormai due mesi fa)

twinsevilsmall

Quello che non racconto per motivi di pudore sull’ultimo numero di Jam può essere riassunto in: stupida felicità adolescenziale, da un lato, e orrenda delusione adolescenziale, dall’altro. Se cliccate l’immagine quassù capirete chi mi ha reso felice e chi, invece, mi ha scocciato, due mesi or sono. Poco dopo quel concerto uno dei due “gemelli” si è pure sentito male sul palco. Non hanno (non abbiamo?) più l’età, ma quando le luci si abbassano amiamo farci spaventare come dieci, quindici, venti anni fa.

L’elettricità

Quando ho avuto la conferma che Nada sarebbe passata da Maps non solo per un’intervista, ma anche per un minilive in studio, mi sono davvero emozionato: non mi aspettavo che una musicista con una carriera tale sarebbe venuta a suonare nel mio programma. Preparandomi, però, per l’intervista, ho riguardato e riascoltato molto della lunga carriera della musicista.

E in effetti ciò che l’ha sempre animata è stato uno spirito di indipendenza e di purezza sinceramente lontano dalle famigerate “scelte commerciali”, tant’è che mica le è andata sempre bene. Questo spirito, in scala minore, è un po’ quello che vorrebbe avere la trasmissione e a cui tende la programmazione della radio tutta. La sua presenza in onda, quindi, poteva avere ragione di esserci, così, fantasticandoci su.

Quest’introduzione per dirvi che quel pomeriggio di più di un mese fa alla fine è stato davvero bellissimo, e mi è rimasto dentro al punto tale da pervadere anche le sensazioni della serata, quando Nada e i Criminal Jokers hanno suonato in un Locomotiv sold out.

Quassù trovate il resoconto della serata, pubblicato nell’ultimo numero di Jam: un breve pezzo in cui non si accenna alle canzoni che vedrete e sentirete presto sul sito di Maps, ma di cui mi è rimasta una sorta di elettricità nell’animo. E capirete che quando è un set acustico a provocare queste sensazioni…

Qui non si sa
se restare nell’oscurità
o andare verso il futuro
in un mondo diverso
spinti da un vento leggero
come un fucile alla nuca
(Nada, “L’elettricità”)

La logica delle predizioni

Da qualche giorno impazzano in rete i commenti (spesso aspramente critici) a un articolo scritto da Gino Castaldo su Repubblica nel giorno della Befana. Che cosa dice, in sintesi, il critico musicale? Che, essendo le classifiche 2011 dominate dal pop, il rock è morto e che, inoltre e quindi, la musica non ha più valore di protesta.

La tesi è alquanto pesante e dovrebbe essere ben argomentata: a mio avviso, tuttavia, non sempre ogni passaggio dell’articolo è chiaro. D’altro canto, ho letto ben poche critiche argomentate: spesso si è trattato di insulti gratuiti o di osservazioni negative mosse da un’identica mancanza di chiarezza.

Tentiamo quindi di capire cosa c’è che va e non va nell’argomentazione di Castaldo. Per farlo, ahivoi, bisogna essere analitici: credo che sia una qualità spesso mancante nel giornalismo di oggi e che è sicuramente rarefatta in questo piccolo “dibattito” recente.

Il primo errore che fa Castaldo è nell’identificare il rock come “genere” di un’ipotetica colonna sonora del “movimento”.

I giovani trovano luoghi e ragioni per nuove proteste, che si chiamino Indignados o Occupy Wall Street, ma curiosamente, forse per la prima volta nella storia moderna, non esiste una colonna sonora che racconti di queste nuove esperienze. Il rock? Latita, è assente, così come sta praticamente scomparendo dalle classifiche, lasciando il posto a un dominio pressoché assoluto del pop commerciale.

Seguiamo un ragionamento logico:

  • i giovani continuano a protestare ma
  • non c’è una musica che racconti questa protesta.

Subito dopo si introduce “il rock”, che quindi dovrebbe essere – a rigor di logica appunto – la musica che, secondo il giornalista, deve per forza accompagnare un movimento “politico” di qualche tipo. Primo dubbio: e perché il rock? Perché non il dub o il reggae delle rivolte inglesi a cavallo tra ’70 e ’80, perché non le posse della “Pantera” italiana, perché non certa disco che è rimasta legata ai giorni di lotta per l’affermazione dei primi diritti degli omosessuali? Non si sa.

Il problema, comunque, sta già nella questione dei generi: non leggevo “commerciale” in ambito musicale da anni. Cos’è il pop commerciale? Io, personalmente, non lo so. In fondo, se qualcosa è in classifica è per forza commerciale. Sarebbe, se no, come dire “un bestseller da poche copie”. Ossimoro. Ma la confusione di generi prevale poiché, dopo avere detto che c’è anche il rap in classifica, Castaldo conclude affermando che “in generale prevale l’imperativo della dance”.

Quindi il pop commerciale è la musica dance? E cos’è esattamente la musica dance, allora? Perché se è musica-da-discoteca in senso stretto (che ne so, la house), be’, non c’è neanche quella in classifica. Insomma, una gran confusione.

Dopo avere spiegato il fenomeno dei Coldplay (che sono “una bandiera rock” ma in classifica) affermando che il tutto si spiega con una pesante iniezione di pop all’interno della musica della band di Chris Martin (curioso però che nelle interviste il frontman definisca “pop” la sua musica), Castaldo abbandona le classifiche e passa ai Grammy Awards.

Lì, dice, ci sono voci femminili che spadroneggiano: niente da dire, è vero. Ma davvero Adele, Rihanna e Lady Gaga hanno tanto in comune, a parte il fatto di vendere ancora dei (tanti) dischi? Rimango dubbioso. Castaldo, però, allarga sempre di più il suo sguardo secondo una prospettiva temporale, e scrive:

I margini [del possibile successo del rock, Ndr] sembrano ridotti, come se il rock stesse diventando una riserva, da proteggere e magari conservare con cura, come un retaggio del passato. Ogni tanto arriva un acuto un segno forte (Springsteen, Radiohead, Arcade Fire tanto per fare esempi), ma i nomi in grado di contrastare la marea montante del disimpegno musicale sono sempre meno e più isolati.

Quanti concetti mischiati in poche righe: prima si parla di rock come retaggio del passato. Perché, il pop non lo è? Rinviamo, ancora una volta, quanto meno ai temi tirati fuori da Simon Reynolds in Retromania. E poi: perché pop equivale a disimpegno musicale? Che cosa vuol dire “impegno musicale”?

Sono concetti che davvero faticano a trovare un posto in un mondo in cui ha poco senso la cara vecchia distinzione tra musica classica e musica leggera: perché era in contrapposizioni come quella che si fronteggiavano la serietà e l’impegno da un lato e il “passatempo” dall’altro.

Radiohead e Arcade Fire si sono impegnati per Haiti, in modi diversi, ma a parte questo? E Springsteen? Dobbiamo ricordare la sua partecipazione a “We Are the World”? C’era anche Michael Jackson, in quel brano, anzi: l’ha scritto lui, ed è pop, il brano e l’autore. E i Poison? Per essere rock, lo sono, ma quando mai hanno preso posizione su qualcosa? E i Metallica? E gli Emerson, Lake and Palmer? Da rock progressivo a rock progressista?

La mia è ovviamente una provocazione, ma dare un senso ai termini che si usano è importante, così come lo è non perdere di vista ciò di cui si sta scrivendo. E invece Castaldo…

(…) il popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato, sembra tornato a un’era pre-rock in cui la musica era soprattutto intrattenimento, magari licenzioso, qualche volta trasgressivo, ma pur sempre solo e soprattutto divertimento. Di nuovi gruppi rock ce ne sono, a centinaia, ma preferiscono un profilo più basso e aristocratico, nessuno di loro sembra volersi fare carico di essere portavoce di alcunché, tantomeno di esprimere nelle canzoni un grande respiro generazionale.

A questo punto necessitiamo di una cronologia, di un riferimento che divida l’era rock da quella pre-rock, che separi la musica-solo-per-passare-il-tempo da quella impegnata. Da sempre la musica è stata intrattenimento e altro.

Questi discorsi si sentivano anche negli anni ’90 (me li ricordo, c’ero), e pure prima: rimando a due bei post scritti da Scott Ronson che ha fatto delle interessanti ricerche d’archivio su come la musica di largo consumo (quindi pop) è stata trattata dai quotidiani italiani.

Sulla questione, invece, di “farsi portavoce di una generazione” il discorso è invece diverso e, per me, pieno di interrogativi.

Innanzitutto: pare facile, diventare portavoce di una generazione. Perché questo accada come un tempo bisognerebbe (semplicemente) tornare indietro di qualche decina d’anni, quando le canzoni venivano ascoltate di più, ce n’erano di meno a disposizione e, soprattutto, la coesione sociale (in senso ampio) era più forte. È difficile, di questi tempi, radunare le folle nelle piazze nonostante ci siano tutti i motivi per farlo, figuriamoci “dare loro una canzone”.

Poi: una canzone “portavoce di una generazione” è automaticamente “politica” e “di protesta”? E i giovani del movimento “Occupy Wall Street”, chi sono rispetto al “popolo giovanile, incoraggiato da un sistema mediatico votato al consumismo più sfrenato”?
Gli esempi che Castaldo fa più sotto,

(…) come We shall overcome o Blowin in the wind, per rimanere alle vecchie posizioni anni Sessanta, ma neanche pezzi incendiari come London calling o come gli ultimi vagiti di rabbia espressi dal grunge (…)

sono per forza di cose appartenenti a un’altra epoca che non solo aveva suoni, modi, cultura diversi, ma che era completamente diversa. Sotto molti punti di vista (compreso quello che riguarda tutta la filiera produttiva della musica) i vent’anni trascorsi tra Dylan e i Clash sono molto meno pesanti di quelli trascorsi tra i Nirvana e il giorno d’oggi.

I cambiamenti (non il cambiamento) sono stati rapidi e tumultuosi: ma del resto buona parte dell’analisi di Castaldo è basata sulle classifiche di vendita, che ormai interessano sempre di meno anche i discografici più “mainstream”. Il punto focale sono i concerti, e in questo Castaldo ha ragione.

(…) Come se il calendario si fosse inceppato nella maglie del tempo, tra i tour più attesi dell’anno nuovo ci sono in programma molti eventi di riunione, con un ampio raggio che va dai Black Sabbath ai Beach Boys.
Parlando di rock si investe molto sui concerti, che ancora funzionano, soprattutto se si parla di nomi consolidati, meglio ancora se sono vecchie glorie capaci di risvegliare anche nel pubblico giovanile il sogno, ormai tramontato, di una musica capace di far fantasticare, di parlare una lingua nuova, di risvegliare il nostro orgoglio di cittadini del mondo, alle prese con le difficoltà del mondo reale.

Pur tralasciando la visione quasi taumaturgica della musica impegnata (tornando a una band citata che amo, gli Arcade Fire: giuro che quando li sento da solo o dal vivo mi sento “cittadino del mondo” – argh – quanto prima), è vero: concerti di tale portata richiedono soldi che gli investitori se la sentono di scommettere solo sui grossi nomi “sicuri”.

Ma questo accade comunque: è la mancanza di soldi dei pesci piccoli (tutti: dalle radio ai promoter ai gestori di locali) il problema, e non “la crisi della musica rock”. Un concerto di Springsteen, Bowie, McCartney, dei Coldplay, Rihanna o dei Muse sta da tutt’altra parte rispetto al resto, compresi i tour dei Ministri e del Teatro degli Orrori (che sono molto vicini all’essere dei rappresentanti generazionali), anche loro citati nell’articolo, ma che

(…) fanno una gran fatica a emergere dalla trama asfissiante del mercato, con le sue rigide regole di imposizione mercantile.

Tutta la cultura fa fatica a emergere. Soprattutto quella “nuova”. Il problema, ancora una volta, è generale: fa fatica a emergere il cinema medio/piccolo, in Italia, così come annaspano tutti i nomi non blasonati dell’arte e della fotografia, i piccoli festival (per quanto ce ne sono ormai troppi, soprattutto in ambito cinematografico), le compagnie di danza.

Chi è che non fatica? Chi fa soldi, chi va in classifica, appunto, perché ha avuto fortuna, perché rimastica ciò che è stato, perché vive di rendita. E questo accade da sempre: i casi in cui “reale valore” (o impegno?) e “consenso popolare” vanno d’accordo si contano sulle dita di una mano, soprattutto se il lasso di tempo considerato è breve.

I Beatles, tanto per tirarli sempre fuori, sono uno dei pochissimi esempi di innovazione e successo enorme di pubblico, sono stati cioè tra i pochi a innovare realmente (nel loro caso anche oltre l’ambito musicale) mentre scalavano le classifiche.

Eh già, perché una delle caratteristiche del “pop”, intenendolo come “roba da classifica”, è avere saputo attingere dalle aree nascoste (underground, off, come vogliamo chiamarle) e di ridigerire alcune cose (talvolta tradendole, ma mica sempre) per ridarle a un pubblico più vasto. In fondo è quello che ha fatto Bowie durante quasi tutto il corso della sua carriera, ma senza dubbio negli ultimi trent’anni. Allora Bowie è pop? O dance? O rock? Non sarà mica tutto?

Ma torniamo, prima di concludere, ai problemi concettuali. Castaldo afferma che il rock sia nato “sostanzialmente come moto di rivolta”. Ma quando? Come? Perché? Parliamo di rock’n’roll? Little Richard non mi è mai parso un “guerriero politico”: semmai è stata la diffusione come genere di intrattenimento del rock’n’roll che poi ha portato ad altro.

Oppure parliamo del “cambiamento” degli anni ’60? Ma le canzoni di protesta dell’epoca derivavano dal folk, a sua volta legato a tradizioni musicali ancora più antiche; e la musica psichedelica per lo più era poco “impegnata politicamente”. O ci riferiamo alle prime forti commistioni tra generi degli anni ’70 e ’80, come il rap? E proprio il rap e la cultura hip hop non sono stati “generi di rivolta” anche quelli? E il soul di Marvin Gaye, con il suo disperato e quasi cronachistico “What’s Going On”?

Proseguiamo. Con un azzardato passaggio logico, il giornalista sottolinea che alle manifestazioni suonano sempre i soliti vecchi: ma il problema non è del rock, è della generica distanza dei giovani dal pensiero politico. I musicisti citati (Patti Smith, Graham Nash, Lou Reed e anche Tom Morello) sono legati a un altro modo di pensare la politica, forse l’unico, che è quello della partecipazione, dello scendere in piazza, del mostrarsi, dello stare insieme. Ma siamo sicuri che davvero ci siano solo degli anziani a suonare alle manifestazioni?

Non proprio: direi che Merrill Garbus, più conosciuta con il nome d’arte di tUnE-yArDs, abbia meno di trent’anni, ed era in piazza insieme ad altri colleghi più vecchi e blasonati. Direbbe Castaldo che tUnE-yArDs non vende. È vero, così come è tutto sommato limitata (nel tempo per i suoi risultati e/o per numero di partecipanti) buona parte del movimento politico degli ultimi anni, dalla manifestazione in piazza all’occupazione, compresi i moti recenti citati nell’articolo.

Non è della fine del rock che dobbiamo preoccuparci, caro Castaldo, ma della sempre più decisa atomizzazione della società, dello scarso investimento culturale, della lontananza della politica (dei suoi rappresentanti, del suo linguaggio) dalle nuove generazioni. Il rock, qualunque cosa si intenda, non è morto: è vivo e lotterà insieme a noi, quando ci sveglieremo.

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