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Nel suo giardino – Cristina Donà @ Estragon 15.12.07

La legge di Murphy colpisce sempre, in tutte le sue varianti, compresa quella dei concerti: “Se per una volta andrai in ritardo ad un concerto, sarà all’unico concerto dell’anno che inizia in orario.”
E infatti così è stato per quello di Cristina Donà all’Estragon, dove, giusto un mese fa, ho aspettato per un’ora e mezzo l’inizio del concerto degli Okkervil River.

Comunque. Era la prima volta che vedevo la Donà dal vivo, e avevo nelle orecchie solo voci di gente che mi diceva delle gag che faceva dal vivo. Ora, mi era stata molto simpatica quando era venuta in radio (qui trovate, oltre ad un’intervista, anche una bellissima versione di “Universo” per voce e chitarra), ma non pensavo che fosse così divertente come in effetti è stata all’Estragon.
La Donà ha cambiato registro tutto il tempo: si è presa in giro per un suo profilo molto new age apparso su una rivista femminile, ha fatto le vocine, ha introdotto con aneddoti surreali le sue canzoni, e ha interagito meravigliosamente col pubblico.
Ad un certo punto del concerto lei era da sola con la chitarra sul palco, e due ragazze hanno iniziato a vociare dalle prime file. Il punto era che dovevano prendere la macchina per tornare a casa, perché lavoravano il giorno dopo. E ancora non avevano sentito “Invisibile”. “Ma io faccio quella canzone alla fine della scaletta, con tutta la band”, ha finto di protestare la Donà. Il resto scopritelo in questo video.
Ed è andata così fino alla fine. Ecco, quando un’artista riesce a parlare in maniera intima e scanzonata allo stesso tempo, per me raggiunge qualcosa che molti altri musicisti che ho visto su quel palco e in tanti altri posti non sfiorano neanche. La consapevolezza di sè, della propria bravura e dei propri limiti, ti porta davvero dentro la musica che sta suonando. E si svolazza tutti insieme, ben sapendo che, anche se si dovesse atterrare di culo, ci sarebbe una risata a separarci dal prossimo decollo.

Foto
Cristina Donà – Invisibile – live acustica (video)
Cristina Donà – Mangialuomo – live acustica (video)
Cristina Donà – Goccia – live (video)

E chi l'avrebbe mai detto…

…di vedere Tool e Nine Inch Nails sullo stesso palco? E di vederli per la seconda volta nel giro di una manciata di mesi? Eppure.

L’Independent Days Festival di quest’anno si è ridotto, per me, ai concerti degli headliner di cui sopra. Delle altre band, lo confesso, non me ne poteva fregare di meno. Sono arrivato all’Arena Parco Nord alle sette e mezzo, ho visto i Maximo Park salutare il pubblico, pubblico che indossava solo magliette dei Tool e dei NIN, peraltro, e mi sono sistemato sulla collinetta davanti al palco. Una posizione da anziani, lo ammetto, ma il mio corpo aveva dato abbastanza a stare nelle prime file qualche mese fa.

Il set dei Tool è stato meraviglioso. La band di Maynard Keenan, si sa, è una macchina perfetta e si è presentata a Bologna in forma smagliante. Addirittura Maynard ha detto una decina di parole, introducendo i Nine Inch Nails e prendendo in giro il cappello nuovo di Jeordie White, che il bassista dei NIN ha avuto la decenza di non mostrare, però. Il concerto è stato potente, compatto, senza mezza sbavatura, decorato da scenografie stupende e da giochi di luce meravigliosi, con tanto di laser verdi sul pubblico. E su “Lateralus” un jam stupenda che valeva da sola tutto il concerto.

I NIN hanno seguito più o meno le scalette dei concerti del tour di Year Zero. La scaletta di Milano è stata più ricca di classici (ricordo ancora, allora, una “Reptile” da brividi), ma si sono superati in quanto ad allestimento del palco. Il vero motivo, a parte l’età che avanza, per cui mi sono messo a una certa distanza dal palco è stato proprio quello di vedere le luci e gli effetti sul palco dei Nine Inch Nails. Nel loro ultimo dvd, Beside You In Time, è possibile rendersi conto dell’apparato scenico che accompagna alcuni pezzi: è sbalorditivo il lavoro che viene fatto e la precisione con cui lo staff di Reznor e soci agisce sul palco, in perfetta coordinazione con dei musicisti pazzeschi. Ho letto di sospetti di playback, ma sinceramente non credo siano fondati. Reznor è un perfezionista e difficilmente si accontenta di performance mediocri da parte di musicisti e tecnici. Ecco spiegata l’enorme livello della performance dei NIN. E poi hanno fatto “Dead Souls”!
Unica nota negativa, il pistolotto pro-file sharing, diligentemente tradotto per il gentile pubblico dall’italico tastierista Alessandro Cortini: citando Valido, allora regalaceli in allegato con un giornale, i dischi.

Ah, no, c’è un’altra nota negativa, ma riguarda l’organizzazione del festival in sè: una volta entrati nell’arena non si poteva uscire. Avete letto bene. Una specie di reclusione forzata, con le migliaia di persone presenti obbligate a fare la fila per un (1) bagno e due (2) punti ristorazione. Il tutto nel mezzo della Festa Nazionale dell’Unità, ricolma di cessi e crescentine. Mah.

Tool setlist: Jambi – Stinkfist* – Forty six and 2 – Schism – Rosetta stoned – FLOOD – Lateralus – Vicarious
NIN setlist: Hyperpower!* – The Beginning of the End* – Heresy* – Terrible Lie – March of the Pigs – Closer – Survivalism – Burn – Gave Up* – Me I’m Not – The Great Destroyer (Slave Screams interlude) – Eraser – Only – Wish – The Good Soldier – No You Don’t – Dead Souls* – The Hand That Feeds – Head like a Hole –
Hurt

Dei pezzi con l’asterisco trovate i video sulla mia pagina di YouTube, e qui ci sono diverse foto.
La posizione centrale-su-collinetta ha diversi vantaggi, oh yeah.

As a Rose

Qualche anno fa avevo scritto un post su Bologna di domenica, su come i non italiani che ci abitano vedessero davvero quel giorno come una giornata di riposo, durante la quale uscire e stare in giro.
L’estate, fondamentalmente, è un’enorme e lunghissima domenica (sarà per questo che non mi piace?), e in questo periodo mi rendo conto di come i non italiani occupino spazi e tempo, di come si trovino fuori, insieme, di come vivano la strada e la piazza. Dei modi che ormai sono diffusi solo tra gli italiani che vivono nei piccoli paesi.

Ma ultimanente una cosa mi ha colpito più delle altre. Quando vado al lavoro passo sempre vicino ad un enorme supermercato, circondato da un prato, che dà direttamente sulla via Emilia. Non esattamente un luogo ameno. Nonostante ciò, ho visto innumerevoli volte sostare sull’erba, sotto la scarsa ombra degli alberi giovani e piantati da poco, gruppi di pakistani, cingalesi, ucraini, russi, albanesi. Stanno là, si tolgono le scarpe, fanno pausa pranzo con un panino e una birra, chiacchierano o non si dicono nulla. Fanno quello che sempre meno fanno gli italiani in parchi, giardini, cortili, lo fanno in un posto che io non vivrei come un prato, ma come “il prato davanti al supermercato”. Per loro non è così. E in fondo, come contraddirli se mi dicessero Un prato è un prato è un prato è un prato?

Di |2007-08-08T16:46:00+02:008 Agosto 2007|Categorie: I've Just Seen A Face|Tag: , , , , |4 Commenti

Love (Hate Love) Street

In questi giorni di caldo torrido, quando le finestre sono aperte soprattutto di notte, mi accorgo di una peculiarità della strada dove abito. È una piccola traversa, molto vicina a grandi piazze e grandi vie del centro di Bologna, e questo suo essere defilata e allo stesso tempo centrale, la rende una specie di retroscena naturale di ciò che accade sul palcoscenico della città. In particolare per quanto riguarda drammi e commedie romantiche.

Sì, è una via in cui la gente si ama o si odia, senza mezze misure. Capita di vedere quelli che sembrano essere primi baci, altri che sembrano sancire unioni clandestine, altri ancora che preludono ad una serata-che-è-tutto-un-programma. In questo caso si sente poco, si vedono ombre abbracciate e appoggiate ad una colonna, sussurri tra un bacio e un altro. Ma nella mia strada le coppie si lasciano, litigano, urlano contro qualcuno dall’altra parte della cornetta o a pochi passi da loro. La strada è stretta, e anche se sono in casa, le voci rimbalzano e raggiungono tutte le finestre aperte, facendo penetrare in camere e salotti dolore, sarcasmo, spesso pianti e grida. Capita che io e i miei vicini ci affacciamo alle finestre, quando le urla si fanno talmente forti da rendere roche le voci e da bruciare le gole. Tuttavia spesso non vediamo da dove vengono, queste grida, nascoste dai portici, e aspettiamo, con apprensione e tenerezza, che vengano soffocate da un bacio riappacificatore e che tutto torni quieto, dopo qualche bisbiglio.

Di |2007-07-30T19:24:00+02:0030 Luglio 2007|Categorie: I Me Mine, I've Just Seen A Face|Tag: , , , , , , |5 Commenti

We do need (a classic) education

Arrivo dopo la puzza, come si usa dire, ma penso che molti dei lettori di questo blog non siano così attenti (giustamente) a tutti gruppi che si presentano ogni giorno sulla strabiliante scena dell’indie italiano e non solo, e che vengono continuamente accolti come the next big thing, definiti “miglior gruppo di sempre”, per essere (giustamente) dimenticati una manciata di mesi dopo. Quindi rilancio parole che già in molti hanno speso, immaginando che trovare qua un post su un gruppo che non ha ancora fatto uscire un proprio disco possa avere un “valore aggiunto”, vista il mio noto scetticismo sulla cosiddetta “scena indie”. Ovviamente, se mi considerate un idiota (giustamente), il disco avrà un “valore sottratto”. Rischio.

A classic education, rispetto alla stragrande maggioranza dei nuovi gruppi italiani “indipendenti”, è altra cosa. Come era capitato per gli altri beniamini Settlefish, ho avuto la fortuna di avere i pezzi di questo gruppo direttamente dalle mani di uno dei componenti della band (anni fa, quando sentii il demo del primo disco dei Settlefish si trattava di un cd masterizzato, qualche mese fa, quando ho sentito i pezzi di A classic education, era una cartella con degli mp3: segno dei tempi). E sono rimasto sbalordito dalla bellezza dei pezzi, degli arrangiamenti, dell’uso di tastiere e archi (per cui ho sempre avuto un debole), per l’approccio pop e colto al tempo stesso, per il godimento che i singoli membri hanno nel suonare, godimento che traspariva in maniera evidente dall’ascolto delle tracce.
A classic education, prima di tutto, ascolta musica, ama la musica senza pregiudizi, e ama suonarla. In questo periodo di superficialità e ignoranza musicale non è poco, anzi, è una delle cose che fa la differenza.
E tutto questo l’ho ritrovato live, quando A classic education ha aperto per i Modest Mouse, all’Estragon, lunedì scorso. (Saranno stati i suoni, confusi e impastati per metà concerto, ma non mi sono goduto tantissimo la band di Isaac Brock, non quanto il breve set che li ha anticipati, comunque: per il concerto dei Modest Mouse sono perfettamente d’accordo con quello che dice Enzo: sono rimasto affascinato da Johnny Marr, dalla sua scioltezza sul palco. Chi suona da trent’anni si vede, e per fortuna).

Insomma, A classic education ha tutte le carte per fare il botto, come tante altre band. Ma, a differenza di altre, ha ottime possibilità di rimanere in alto. E il fatto che, al terzo concerto si siano esibiti a Londra e che presto divideranno il palco con i Wilco è solo una prova che deriva dalla forza della loro musica. Il che, per una band è importante, smettiamola di dimenticarcelo.

A classic education: sito
A classic education: MySpace
(ascoltate i pezzi!)

Intervista agli A classic education: intervista su Polaroid Blog

P.S. Se proprio domani non avete niente da fare, venite al Toga Party del Biografilm Festival. Io e FedeMC vi faremo ballare il rocchenrol come se foste ad una festa dei Delta. Insomma, come compiere 29 anni e non sentirli.

Sapere elettronico

Credo che tutti i negozi che vendono materiale elettronico, quei posti in via d’estinzione in cui si può comprare dallo stereo alla presa tedesca, dalla videocassetta al televisore al plasma, abbiano qualcosa in comune. Più precisamente credo che chi gestisce questi negozi sia un tipo ben definibile.

A Gorizia, da ragazzino, frequentavo un posto del genere, vicino casa. Mentre io andavo lì per comprare caterve di musicassette vergini, altri clienti trattavano su testine al platino, termostabilizzatori ionici e raggi laser. Era un negozio che, nel magazzino, aveva probabilmente tutti i pezzi per costruire uno Shuttle, a saperli montare.
Il gestore di questo negozio si chiamava Furio, e lo era di nome e di fatto. Perdeva la pazienza se uno esitava nella scelta, gli metteva le mani alla gola se osava dubitare della qualità della sua merce o del prezzo che aveva. Capite bene che Furio mi faceva aspettare ore, dall’altra parte del bancone, quella vicina alle cassette, per darmi cinque Sony HF da 60, mentre lui si intratteneva mostrando componenti che, per quanto mi riguarda, potevano andare bene in una lavatrice o in un reattore nucleare. Capite bene quanto poco potessi soddisfare l’incazzoso (questo era uno dei soprannomi di Furio), chiedendogli semplicemente di aderire alla sua personalità di negoziante (chiedo, ottengo, pago), cosa che, giustamente, fa andare in bestia chiunque, soprattutto se ha un negozio. La situazione migliorò leggermente quando passai dalle semplice HF alle musicassette con nastro al cromo e guida in ceramica, ma lui si stufò presto comunque, appena prima di quando finirono i miei risparmi, accumulati a suon di paghette.

Ho trovato un negozio del genere a Bologna, in centro, a pochi passi da casa. È un posto piccolo e stipatissimo di cose, compresi i genitori del gestore, piazzati perennemente su due sedie, ai due lati di un espositore, che credo in origine fosse rotante, ma che immagino l’ultimo scampolo di buon cuore del negoziante abbia fermato, per non rendere troppo aspro il contrasto con i suoi vecchi.
Caratteristica del gestore è che possono esserci cinquecento clienti in attesa, lui comunque vorrà finire la spiegazione dettagliata delle caratteristiche tecniche dell’oggetto che sta vendendo, e che venderà sicuramente, prendendo per sfinimento l’acquirente con dettagli che annoierebbero anche chi, l’oggetto, l’ha progettato.
Ogni volta che entro in quel negozio, quindi, vengo preso da sentimenti contrastanti: da un lato l’ansia di rischiare di perdere un’ora della mia vita assistendo ad una lezione della Scuola Radio Elettra, dall’altro con la consapevolezza che il tipo ne sa, i prezzi sono buoni, e quindi ogni volta potrebbe scapparci la dritta o l’affare.

Una volta ci sono entrato, con fare baldanzoso, sicuro di me, e ho detto: “Vorrei una spazzolina in fibra di carbonio per pulire i vinili.” (Anni di attesa dall’incazzoso mi hanno formato, almeno un po’.) Il gestore è rimasto un po’ spiazzato, mi ha preso la spazzolina, e lì ho commesso un errore gravissimo: ho chiesto quanto costasse. Assurdo. Il vero compratore professionista chiede e paga. Il prezzo, in un negozio, è un dettaglio marginale. “Nove e novanta”, mi ha detto, con un’espressione che significava qualcosa come “Ti rendi conto? Te la do a nove e novanta! No, se vuoi discutere di questo prezzo, fai pure, eh, voglio proprio vedere se la trovi a meno.” Ho ovviamente pagato senza batter ciglio, ho fatto per uscire, quando il negoziante mi ha chiamato. “Sai come si usa?”, mi ha chiesto. Ora, voi che faccia avreste fatto? Ecco, proprio quella, quella che indica un momento di smarrimento tale che dubitereste anche del vostro nome di battesimo. Al che lui, pietosamente, mi ha dato il prezioso consiglio di non toccare le setole (di carbonio) con le dita, se no si ungono. E io che pensavo di dare alla spazzolina una ripassata in padella, per migliorarne le qualità.

Ultimamente, invece, ci sono andato per comprare dei cd e dvd vergini. Ovviamente ho sbagliato ancora, insistendo stupidamente per sapere il prezzo della merce. Ma questo non ha semplicemente fatto scaturire la solita espressione di sfida e pietà al tempo stesso. Coadiuvato da un’altra cliente, sicuramente una complice, il negoziante mi ha iniziato a fare un discorso sulla “politica dei prezzi in Italia” (sic). La sua conclusione è stata semplice: in Italia i prezzi sono falsi (arisic). Ma esiste un modo per uscire da questa sorta di Matrix del commercio, il gestore del negozio di elettronica me l’ha detto, e io voglio condividere le sue parole. “Sai come faccio io? Vado a fare la spesa in Germania: perdo una giornata, ma risparmio anche cinquecento euro.”
Quindi, donne e uomini che mi leggete, se il vostro partner o la vostra partner esce di casa dicendo “Vado a comprare le sigarette” e poi non si fa vedere per ore, state tranquilli: non siete capitati in una brutta situazione da film. Accendete Isoradio: sicuramente ci sono code sul Brennero, in entrambi i sensi di marcia.

Dead Again

Nella foto i conduttori della Notte dei Morti Viventi 2005 tornano a casa nelle prime ore del mattino

Come già successo l’anno scorso, questa notte sarà La Notte dei Morti Viventi. Chiudiamo quindi la Campagna Abbonamenti della radio con una diretta lunga dodici ore, a partire dalle 2230 di stasera. Il tema di quest’anno è la magia: parleremo di incantesimi, astrologia, esoterismo, manovre economiche, musica maggica, film maggici. Come al solito l’invito è quello di chiamare in diretta, partecipare ai quiz, vincere dei premi, mandare mail e sms, e magari anche passare in radio a spruzzarci di acqua santa.

Adesso, invece, vado al Sesto Senso, dove c’è l’aperitivo di fine Campagna Abbonamenti. Mi tratterrò, per evitare che “La Notte dei Morti Viventi” si trasformi per me in una diretta di un paio d’ore scarse.

Mai avrei creduto di…

Stilare una lista dei migliori dischi dell’anno. Un po’ perché non credo di avere la competenza necessaria per farlo: non sono sempre così attento alle ultime uscite. Un po’ perché mi stanno sulle palle le liste. Comunque, stavolta l’ho fatto, per questioni di partecipazione. Mi sono messo e ho visto che, nel 2006, mi sono passati per le mani e per le orecchie poco più di una quarantina di dischi. Sulle prime ho pensato “Sono veramente pochissimi: sicuramente molti molti di meno di quelli che hanno ascoltato colleghi radiofonici e blogganti vari”. Ma poi ho fatto un calcolo: quaranta dischi in dodici mesi fanno un disco ogni nove giorni. Poco meno di un disco nuovo, inedito, mai sentito prima alla settimana. E come si fa?  L’ho sempre pensato: la bulimia musicale è tremenda, il rincorrere sempre e comunque il nuovo, abbindolati da varie copertine e home page che parlano ad ogni uscita di capolavori e di gruppi stratosferici, il consumare nella maniera più tremenda la musica è male. Si rischiano di prendere fischi per fiaschi, e arrivare a pensare che, facendo un parallelo letterario, l’Iliade l’abbia scritta Baricco. Signori: gli anni che vanno dai ’50 ai ’70 sono la nostra antica Grecia. I classici vanno studiati. (Bum. Ah, per inciso, se volete vedere la lista, è sul forum di Città del Capo – Radio Metropolitana, più precisamente qua.)

Andare a vedere un concerto dei Living Colour nel 2006, anzi, quasi 2007 – sempre a proposito di musica vecchia. E quindi domani li vedrò con la formazione originale. Che vi devo dire? Secondo me sono molto sottovalutati, sono stati un’ottima band a cavallo degli anni ’80 e ’90. Un periodo tremendo, stretti tra il metal e il grunge. Però Stain, nonostante non sia il loro lavoro migliore, non mi stanca mai (e se domani dovessero fare “Nothingness” in versione acustica, i miei singhiozzi copriranno la loro musica).

Suonare questo pomeriggio con Jon Spencer e gli Heavy Trash. Sì, ho un po’ barato, “suonare” non è la parola esatta. Ma insomma, quando qualcuno nei dischi batte le mani è accreditato, sotto la voce “handclapping”, no?

Dieci anni e un mese circa

Un post come questo che si rinvia, si rinvia e si rinvia ancora, ha una caratteristica: il suo titolo si allunga e cambia, se uno volesse essere preciso, ogni istante.
Se l’avessi scritto un paio di settimane fa, sarebbe stato “Dieci anni”, e forse per correttezza avrei dovuto aggiungere “più o meno”. Già, perché non ricordo esattamente quando mi sono trasferito a Bologna. Era l’ottobre del 1996, di questo ne sono certo. Potrei risalire alla prima lezione all’università, ma in fondo sono passati quattro anni (meno un mese circa) da quando mi sono laureato: l’università è finita, la mia permanenza a Bologna, no.
Non ricordo bene quel mese, perché è stato difficile, difficilissimo, ed esaltante allo stesso tempo. Avrei vissuto e fatto l’università a Bologna, che ai miei occhi era un po’ come fare l’università a Disneyland, senza avere però pupazzi enormi come docenti: poi ho avuto di fronte solo pupazzi normali, per la maggior parte.
Abbandonavo la cittadina del nordest senza rimorso alcuno, a parte quello di allontanarmi dalla mia ragazza di allora: lei si era fermata a Venezia, io avevo esagerato di un altro paio di centinaia di chilometri, ed ecco, ero a Bologna.
Quell’ottobre di dieci anni fa mi ha visto conoscere i primi di una decina abbondante di coinquilini che avrei avuto. Mi ha visto stare ore al telefono, e segnare poi gli scatti su un quadernino: un gesto che adesso sembra assurdo, ma allora era – o meglio: avrebbe dovuto essere – l’ultimo vero atto della chiamata. E sulla carta il numero degli scatti era proporzionale all’intensità della telefonata: tanti scatti significavano comunque qualcosa di forte: un litigio o una serie infinita di “mi manchi” declinati in ogni modo.  E talvolta ho pensato che, sommando quei numeri, avrei ottenuto qualcos’altro oltre alla cifra da pagare a fine mese.
In quell’ottobre di dieci anni fa giravo per Bologna perdendomi, ritrovandomi, iniziando a conoscere delle persone che mi accompagnano tutt’ora.
Una sera, tornando a casa dall’università, uno dei primi giorni di lezione, guardai il cielo, da via Rizzoli, verso le torri, e pensai a quanto era bello, a quanto era bella questa città. E a me in mezzo a tutto questo.

Adesso, dieci anni dopo, Bologna è diventata il luogo dove vivo, mangio, lavoro, abito. Ma ogni tanto, per fortuna, continuo a guardare il cielo e a perdermi.

Di |2006-10-31T21:34:00+01:0031 Ottobre 2006|Categorie: I Me Mine|Tag: , , , , , |10 Commenti

Quadri e quadretti: Pearl Jam – Palamalaguti, Bologna, 14 settembre 2006

La cassetta su cui avevo registrato Ten, il primo disco dei Pearl Jam, è una Sony HF 60, infilata in una custodia di un’altra cassetta: quelle della Sony sono trasparenti, mentre quella è nera, di plastica. I titoli delle canzoni sono scritti con un pennarello nero su un foglio tratto da un quaderno a quadretti. Credo di avere quella cassetta dal 1992, più o meno l’anno in cui comprai la mia prima camicia a quadri, di flanella, di quelle che si vedevano addosso ai vari gruppi grunge dell’epoca. L’anno dopo, credo, iniziai a lasciarmi crescere i capelli (“capelli lunghi non porto più, ma suono la chitarra”: scusate, è che quell’altro concerto…), che all’inizio avevano più o meno la lunghezza di quelli di Eddie Vedder all’epoca.
Lo dicevo sempre: se potessi scegliere che voce avere, vorrei poter cantare come il cantante dei Pearl Jam. Chiamatemi scemo.
Ma intanto, i Pearl Jam, non li avevo ancora visti dal vivo. Continuavo a registrare cassettine con live, e poi a comprare o masterizzare dei bootleg ufficiali, e a cantare guardando lo stereo. Non come Eddie Vedder.

Sono passati quattordici anni, e finalmente ce l’ho fatta a vedere i Pearl Jam in concerto, nonostante un’attesa sfiancante (per molti versi) sotto la pioggia, che ho preso tutta addosso: vi pare che un quindicenne ad un concerto si porti l’ombrello? Il quindicenne, completamente bagnato, nonostante quella cassetta e quella camicia siano nella casa natale, ormai, a scambiarsi quadri e quadretti, ha potuto cantare a squarciagola le canzoni di quella cassetta. “Even Flow”. “Porch”. “Why Go”.
“Black” (e i suoi cieli di altri, che all’epoca erano così platonici, adesso, invece, sono così concreti, reali e distanti in maniera quasi rassicurante, anche se la tinta rimane presente. Un pezzo che è la parte disperata e riflessiva della mia adolescenza*, e non solo. E anche di molti altri, mi sa, a sentire come la cantava il pubblico di ieri).

“Alive”.

Nonostante tutto.

La scaletta di ieri, tratta da www.pearl-jam.it: Elderly Woman Behind a Counter in a Small Town, Do The Evolution, Animal, Severed Hand, Given To Fly, World Wide Suicide, Save You, Even Flow, I Am Mine, Marker In The Sand, Green Disease, Daughter / (It’s OK), Alone, Whipping, Present Tense, Comatose, Porch
bis 1: Black, Better Man, Life Wasted, Alive
bis 2: Bu$hleaguer, Why Go, Baba O’Riley, Indifference

No, per dire. Che concerto meraviglioso.

* “Smells Like Teen Spirit”, invece, è la parte disperata e violenta della mia adolescenza. Oh, mi verrete mica a dire che avete avuto un’adolescenza felice? Per contratto la felicità innocente e pura finisce con la prima presa per il culo in prima media.

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