racconti

Narrare il mistero: i racconti di Flannery O’Connor

Il volume Tutti i racconti di Flannery O’Connor mi ha accompagnato per sei mesi. Doveva essere una lettura estiva, e in effetti ho cominciato durante le vacanze questo meraviglioso viaggio di scoperta di una delle più grandi autrici di sempre.

Ma la lettura è stata interrotta da altre cose più urgenti, il libro è stato travolto da un’onda inaspettata sulle coste croate e, soprattutto, ognuno dei trentuno racconti che compone la raccolta (davvero mirabile per completezza, un po’ meno per la traduzione non sempre eccellente delle pur esperte Marisa Caramella e Ida Ombroni, che si lasciano sfuggire – tanto per fare un esempio – un’improbabile “arpa” per rendere il sostantivo “harp”, che sta per armonica a bocca) è denso e folgorante al tempo stesso.

La O’Connor racconta gli Stati Uniti meridionali degli anni ’50: una sorta di Paese nel Paese, dove la schiavitù tutto sommato è tollerata, sebbene si inizino a percepire i primi segni di cambiamento. Un Paese nel Paese agricolo, con pochi conglomerati urbani, che ha come controcampo quella New York vista sempre come un posto caotico, lontano, pericoloso, crudele e soprattutto senza dio.

Insieme, infatti, a campi, vacche e braccianti afroamericani, in ogni pagina di questi racconti c’è la religione a dominare la trama e i personaggi che la popolano. Molto spesso l’autrice mette a confronto la fede con la razionalità, creando una specie di ragionamento per assurdo: molti dei caratteri che troviamo nelle storie hanno infatti le migliori intenzioni nei confronti del mondo o di qualcun altro, ma sono lontani dalla religione, bollata spesso come una credenza dalla quale stare alla larga o, quanto meno, da osservare con sospetto.

Eppure, sebbene la O’Connor non faccia sconti sugli atteggiamenti bigotti o estremamente ortodossi degli uomini e delle donne di fede, ci mostra quanto e come la ragione possa fallire, e con essa le buone maniere, la rispettosità, l’0nore.

Ogni volta che si conclude la lettura di un racconto della raccolta si rimane davvero colpiti dalla violenza improvvisa che hanno alcune chiusure, resa ancor di più tale dalla maestria che la scrittrice ha nel portarci all’interno della storia. Raramente ho visto usare le parole (spesso declinate in fiammeggianti similitudini) in maniera così efficace: basta pochissimo e ci pare di conoscere volti, luoghi, sapori e odori.

Possiamo percepire la pigrizia e l’indolenza di alcuni personaggi, avvicinarci maggiormente ad altri, vivere con loro negli ambienti spartani ma rispettabili in cui questi agiscono. Nel giro di un paio di pagine abitiamo quelle case e riconosciamo i loro abitanti. Contemporaneamente a questa penetrazione si pone il problema dell’identificazione: come si diceva, la O’Connor non fa sconti a nessuno, ma sa che il suo lettore è tendenzialmente lontano dalle posizioni religiose.

A fatica, quindi, prendiamo le parti di chi “ragiona col proprio cervello” e proseguiamo nella lettura, fino alla conclusione, appunto, che la maggior parte delle volte è spiazzante. Dopo l’ultima parola rimaniamo immobili, talvolta agghiacciati, a riflettere su quello che abbiamo letto, ma soprattutto su quello che credevamo di avere compreso e che invece non abbiamo neanche intuito e ci viene il dubbio che esista qualcosa davvero al di là di ogni possibile comprensione.

“Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero. Naturalmente, può essere che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può anche essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza.” (dall'”Introduzione” di Marisa Caramella, in Flannery O’Connor, Tutti i racconti, Milano, Bompiani, 2009, p. VII)

Attraverso passaggi da Malazeni

Continua il “tour” (uh!) di “L’ultimo battito”, il racconto scritto per una serata a Modena di un po’ di tempo fa, musicato da Egle Sommacal e, infine, inserito in Attraverso passaggi, un annuario di Malicuvata.

Questa sera intorno alle 18 lo presentiamo, insieme agli altri racconti del volume, da Malazeni, in via Mascarella 84/d, qui a Bologna.

Come al solito, se vi va, passate. Se no, trovate tutto il meritevole volume in download gratuito sul sito di Malicuvata.

Però ci divertiamo di più se passate e scaricate il libro.

Libri di passaggio

Mi sono reso conto, cercando il post a tal proposito, che sono passati quasi tre anni da quando ho scritto del primo libro di Kevin Canty che mi sia passato sottomano, Tenersi la mano nel sonno. Rileggendo quelle parole ho percepito nuovamente la reale emozione che quel libro mi aveva dato. Dei racconti brevi e perfetti, come amo leggere e come raramente si trovano.
Appena ho saputo dell’uscita, sempre per minimum fax, della nuova raccolta, mi sono precipitato a comprarla: ma ho concluso la lettura di Dove sono andati a finire i soldi solo ieri. Tra quando ho comprato il libro e quando l’ho finito, ho scoperto che Canty scrive anche romanzi. E che è il fratello di Brendan, il batterista dei Fugazi.
Il secondo elemento mi ha fatto sorridere, il primo, invece, mi è tornato in mente leggendo la nuova raccolta: il romanziere Canty si percepisce nell’arco di lettura. Mi spiego.
Gli uomini protagonisti di tutti i racconti vivono situazioni diverse, oltre ad essere descritti con tratti differenti. Sono però quasi tutti sopra i quaranta e si trovano nei guai: o meglio, noi li conosciamo quando si rendono conto della situazione difficile in cui si trovano. Li incontriamo mentre riaffiora il pensiero di un tradimento che si credeva sepolto, quando una difficoltà diviene un problema concreto e potenzialmente cronico, quando le cose si turbano all’improvviso, ma prevedibilmente, se uno ci avesse pensato.
Lo stile di Canty lega i personaggi, tanto da pensare che prima o poi questi si incontrino, magari per uscire dai momenti che le parole dell’autore rendono in maniera talvolta angosciante, ma sempre lucida e precisa. Si spera che si incontrino e che stiano bene, ma la maggior parte delle volte i finali delle storie che compongono la raccolta mi hanno fatto pensare a un’unica cosa. Che se fossi stato lì, con l’uomo che la maestria di Canty mi aveva fatto conoscere così bene in una manciata di pagine, sarebbe stato mettergli una mano sulla spalla e dirgli guardandolo negli occhi “Mi dispiace, davvero.”, trattenendomi dal pronunciare un’altra ovvietà: il rassicurarlo che, prima o poi, tutto sarebbe andato bene.
C’è qualcos’altro che, però, lega i racconti tra loro: l’attenzione che Canty ha per la descrizione dei paesaggi, quasi mai metropolitani. Dalle nevi della foresta boreale ai deserti del sud degli Stati Uniti, gli elementi naturali giocano un ruolo fondamentale anche in questo libro: tant’è che, in uno dei racconti più belli, dove questa dimensione è più assente, ti viene da pensare che il bambino figlio del protagonista, che ha iniziato a morsicare estranei e compagni di classe, sia un animaletto da curare, che segue un istinto insopprimibile ma che non può convivere con la società. Non è una caso che il racconto si intitoli “Non c’è posto per te a questo mondo”.
Una raccolta di racconti, dove si passa da uno all’altro senza interruzione: forse meno intensi di Tenersi la mano nel sonno, ma che dimostrano ancora una volta l’eccellente livello di Canty e che sembrano proiettare il lettore verso un romanzo che non esiste, o che forse, semplicemente, non ho ancora letto. La cosa buffa è che l’inizio del libro è affidato al racconto che dà il titolo alla raccolta: un vero e proprio trait d’union (o così mi voglio immaginare) tra la raccolta precedente e questa: sul sito di minimum fax si può scaricare per intero, qua.

Di |2011-04-08T08:00:00+02:008 Aprile 2011|Categorie: Paperback Writer|Tag: , , , |2 Commenti

Presentare libri di Gianluca Morozzi

Questa indicata dal titolo è una delle attività che ho fatto più di frequente (a parte quelle quotidiane) nella mia vita. Ho iniziato, se non sbaglio, con diverse date di Blackout e continuo stasera. La domanda (corretta) che voi piccoli lettori vi state facendo è: ma quale dei tanti libri di Morozzi usciti negli ultimi mesi il nostro presenterà? Avrei avuto l’imbarazzo della scelta, ma in effetti si tratta dell’ultimo-ultimo Spargere il sale, una raccolta di racconti pensata come una raccolta di b-side, inediti e rarità (e sono sicuro che il paragone verrà apprezzato, conoscendo Gianluca).

Insomma, l’appuntamento è, per chi è a Bologna, alla Feltrinelli di Via dei Mille dalle 21. Con me e Gianluca ci saranno due guest-star: Freak Antoni e Dandy Bestia degli Skiantos. Accorretevicisi.

Tornare a leggere e a scrivere

È un po’ che non si parla, da queste parti, della mia scrittura e di conseguenza delle mie eventuali letture in giro per il mondo. Be’, si ricomincia. I giovini della Casa Lettrice Malicuvata, infatti, hanno scelto un mio racconto per il loro prossimo Annuario (ne vedete la copertina in anteprima, ma non è ancora pronto fisicamente). Per presentarlo, domani da Zammù, in via Saragozza 32/a, a Bologna, dalle 2130 in poi c’è Circus delire: attraverso passaggi di periferie, con letture da Racconti di periferie (l’antologia di Malicuvata del 2010) e Attraverso passaggi (di cui vi ho parlato sopra).

Insomma, siateci domani. Insieme a me Simone Rossi, Dario Falconi, Alfio Génitron, Marta Casarini, Elena Marinelli, Chiara Reali.

"Solo lo scrittore"

Esattamente cinque anni fa scrivevo di Lunar Park: era una svolta nella carriera di Bret Easton Ellis, ma nel senso di una sterzata che ti fa pensare “E ora?”. L'”ora” è uscito qualche mese fa, ma sono riuscito a leggere Imperial Bedrooms solo oggi: talvolta le influenze – intese come malanni stagionali – servono a qualcosa. Guardando il libro pare che la risposta alla domanda “E ora?” sia contenuta nella fascetta: “Meno di zero venticinque anni dopo”, recita, richiamando il romanzo d’esordio dell’allora ventunenne Ellis. E lo stesso autore ha definito questo ultimo romanzo un sequel. Ma possiamo essere certi delle dichiarazioni di uno dei più grandi (e manifestatamente pazzi) tra gli autori americani contemporanei? Certo, tanto quanto ci si può fidare della veridicità delle battute che fa pronunciare ai suoi personaggi.

Ci sono, nel nuovo romanzo, gli stessi protagonisti del primo: Clay, il narratore, è un mediocre sceneggiatore. Trent ha sposato Blair, Rip è completamente rifatto e predilige ragazze barely legal, Julian continua a pensare che soldi e sesso vadano a braccetto, sebbene si sia ripulito. Il panorama è la Los Angeles del mondo del cinema, tra residence di lusso, feste di produttori e provini. E già sfumano, o quantomeno non sono più così fondamentali, i legami con Meno di zero: si rafforzano, invece, quelli con Lunar Park, soprattutto nel momento in cui Clay parla dello scrittore del romanzo che, venticinque anni prima, vedeva lui e i suoi amici al centro dell’intreccio. Ecco che ritorna la molteplicità di strati del libro uscito cinque anni fa. Ma allora, cosa c’è sotto Imperial Bedrooms? Prima di tutto c’è la volontà di proseguire un discorso importante nella bibliografia di Ellis, ben evidente anche in Glamorama: la riflessione intorno alla paranoia. Attraverso le descrizioni dei deliri (“in contesto di lucidità e con capacità cognitive integre”, come dice la definizione del termine) dei protagonisti degli ultimi tre romanzi, Ellis fa emergere il vero tratto distintivo dell’inconscio collettivo americano. Anzi, lo rende quasi esplicito in un passaggio in cui descrive un comportamento di Rain, la ragazza di cui Clay a suo modo si invaghisce.

(…) noto come la guardano i colleghi, e anche parecchi altri uomini che vagano per i negozi, e anche lei se ne accorge e cammina svelta, tirandomi per mano, mentre fa finta di parlare del più e del meno al telefono, una forma di autodifesa, un modo per combattere quegli sguardi facendo finta che non esistono. Quegli sguardi sono il triste e continuo promemoria della vita di ogni bella ragazza di questa città (…) (pp. 48-49)

Essere al centro dell’attenzione, sempre e comunque: una condizione nella quale gli Stati Uniti, spesso per la loro stessa volontà, hanno vissuto da secoli. Questo porta a vulnerabilità, soprattutto quando si scopre di non essere invicibili, e che attacchi come quello di Pearl Harbor possono essere replicati in forma anche più distruttiva e subdola. Scatta immediatamente, quindi, la mancanza di fiducia (un’altra parola ricorrente in filigrana nelle pagine di Ellis) e, di conseguenza, un comportamento velatamente o esplicitamente paranoico, che dà luogo alla paura costante. In Imperial Bedrooms il protagonista è spesso fisicamente impaurito: gli tremano le mani, si piscia addosso, gli manca il respiro. Ma il suo primo istinto è quello di non sapere, di costringersi a fare finta di niente, o meglio di continuare a credere che le cose vadano come dovrebbero andare. E di annegarsi in droga e alcol per trovare una dimensione confortevole: un comportamento che, in effetti, lega i personaggi dello scrittore americano da venticinque anni a questa parte. “We know who you’re with and where you are”, recita “Imperial Bedroom”, di Elvis Costello (sua è anche una canzone che si intitola “Less Than Zero”). Quindi, Imperial Bedrooms è l’ennesimo trattato sulla paranoia di un Paese sull’orlo del collasso. O no?
Secondo un altro dei personaggi del romanzo, le persone si rivolgono a Clay perché “è uno che aiuta gli altri”. Che “gli altri” siano sempre delle giovanissime attrici, attraenti e disponibili, fa logicamente pensare che alla fine Clay pensi fondamentalmente ai fatti suoi. Un concetto che si esplicita anche alla fine del libro: “Le persone mi fanno paura”, dice il protagonista, concludendo il romanzo su una parola di cui abbiamo sottolineato l’importanza. Ma attenzione: Clay è uno sceneggiatore alle prese con i provini per un film che ha scritto e di cui sarà il produttore: il titolo è The Listeners. Torniamo al vero Bret Easton Ellis: due anni fa è uscito The Informers, un film tratto dalla raccolta di racconti omonima (tradotta in italiano con il demenziale titolo Acqua dal sole). Dopo avere lavorato con passione alla sceneggiatura, Ellis si è visto stravolgere il progetto da un cambio di regista: il risultato pare che sia catastrofico. Allora, forse, Imperial Bedrooms è molto più “egocentrico” di quanto potesse sembrare: esattamente come Ellis ha tentato di scrivere la sua storia per poi vederla danneggiata dalla produzione, Clay cerca disperatamente di seguire uno schema nella sua vita, di mantenere un ordine o quanto meno una logica degli eventi plausibile, mentre tutti gli altri personaggi rimaneggiano e rimodellano la trama di cui fa parte. Ellis, scontrandosi con il mondo del cinema, scopre che il suo ruolo è subordinato ad altri, nonostante sia lui, lo scrittore, a fornire la materia prima della narrazione, sia essa pur svolta per immagini. Ma gli altri, tutti gli altri, contano di più.

– Voglio stare con te, – dico.
– Non succederà mai, – dice, voltandosi dall’altra parte.
– Per favore, smettila di piangere.
– Non faceva parte dei piani.
– Perché no? – chiedo. Premo due dita su entrambi i lati della bocca e costringo le sue labbra a sorridere.
– Perché tu sei solo lo scrittore.
(p. 134)

Forse Ellis sta solo raccontando nuovamente se stesso, o ci sta solo dicendo che non ha fatto altro, oppure è davvero un fedele cantore del collasso degli Stati Uniti. O forse ci sta solo prendendo in giro, con buona probabilità di riuscirci. In fondo, noi siamo solo i lettori.
La traduzione del romanzo, edito da Einaudi, è di Giuseppe Culicchia.

Donne sole e cani

Devo ringraziare Matteo per avere comprato e letto Ragioni per vivere di Amy Hempel, un volume edito qualche mese fa da Mondadori che contiene le quattro raccolte di racconti brevi pubblicate dall’autrice americana tra il 1985 e il 2005. Nella sua defunta rubrica su “Linus”, “Shorts”, Bianchi parlava in maniera entusiasta di questa scrittrice, pressocché sconosciuta qui in Italia, al punto di convincermi a comprare il libro senza neanche leggerne la quarta di copertina.

Cominciamo da un dato importante: la Hempel si è formata ai corsi di Gordon Lish, proprio lui, l’uomo che contribuì al lancio di Raymond Carver, di cui abbiamo già parlato. La missione minimalista dell’editor è evidente nel taglio dei racconti della raccolta: alcuni di essi sono brevissimi, davvero di poche righe, ma ci sono anche esempi di testi lunghi. Non è una lettura facile, però: la concentrazione degli scritti ha fatto sì che davvero ogni parola, ogni frase, ogni periodo siano densissimi, e due righe davvero possono chiudere, racchiudere e contenere il senso di un intero racconto (e tutto ciò che è stato scritto prima del finale). Non solo: la Hempel ama entrare nella testa dei suoi personaggi, e non è dolce nell’introdurre il lettore ad essi. Li sbatte là, con tutte le loro insicurezze, il loro passato, la loro storia, sfidando continuamente la capacità d’attenzione e la concentrazione di chi si avventura nelle sue storie.
Come capita spesso negli scrittori americani, i luoghi naturali e urbanizzati sono importantissimi: è raro che le storie della Hempel siano ambientate in grandi città, mentre sovente siamo in mezzo a una delle milioni di cittadine “pompa di benzina più mall più zona residenziale” che, di fatto, costituiscono gli Stati Uniti. Ma il dato più ricorrente in questi testi è che parlano quasi sempre di donne sole. Donne anziane che scrivono dall’ospizio lunghe lettere ad artisti che hanno speso con loro una manciata di minuti, donne che hanno subito uno stupro ma forse senza la dose di violenza necessaria per considerarlo tale, donne che scappano da qualcosa o qualcuno e decidono, semplicemente, di non fermarsi più. Altro punto notevole è che spessissimo queste donne hanno a che fare con animali, per lo più cani: evidentemente la Hempel deve amare molto i quadrupedi, perché racconta alla perfezione non solo i modi che i cani hanno di comportarsi, ma, soprattutto, la relazione quasi simbiotica che si crea con i padroni. Capite poi che, mettendo in scena donne sole, il cane diventa spesso (ed esplicitamente) un simbolo di indipendenza per la donna e, allo stesso tempo, un sostituto della figura maschile, di cui spesso di percepisce l’assenza.
Ripeto: non è un libro facile, ma è denso e intenso come pochi. Non è perfetto, e in realtà nei vent’anni che separano la prima raccolta dall’ultima la Hempel cambia poco, ma ci sono cose come “Nel cimitero dov’è sepolto Al Jolson” (che potete leggere qua in inglese) che ti fanno capire come scrivere un racconto breve così sia una prova di bravura estrema e quasi soprannaturale. Un po’ come fare delle figure a corpo libero in uno sgabuzzino, risultando comunque armonici e aggraziati.

Ogni volta che vedi una bella donna, ricorda che qualcuno è stanco di lei, dicono gli uomini. E io so dove vanno, queste donne, con la loro stanca bellezza che qualcuno non desidera, queste donne che devono vivere come i pini bianchi dell’alta Sierra, lì prima di Cristo, nutriti chissà come dal vento di montagna.
Si dedicano agli animali, giorno dopo giorno, accarezzandoli dentro una gabbia e dicendo: “Come sta il cucciolo della mamma? Si sente solo il cucciolo della mamma?”
Le donne se ne vanno alla fine della giornata, fermandosi a domandare a un guardiano: “Andranno a stare in un bel posto?”. E tornano dopo un giorno o due, chinandosi a osservare un gatto con un occhio solo e chiedendo, come se intendessero adottarlo: “Come faccio a presentare un nuovo gatto al mio cane?”
Ma le adozioni sono rare: la cosa importante è che, quando si lasciano alla spalle le tenere creature che non le lascerebbero mai, le donne abbiano qualcuno da lasciare, sempre che abbiano donato loro il cuore.
(Amy Hempel, “Nel rifugio per animali”, in Ragioni per vivere, Mondadori, Milano, 2009, p. 148, trad. di Silvia Pareschi)

Era una nota buia e tempestosa…

Inutile negare che devo molto a Matteo B. Bianchi, una delle pochissime persone che ho conosciuto nel mondo editoriale che non fosse uno stronzo. Ho presentato spesso i suoi libri e lui ha introdotto con passione la presentazione milanese de La guerra in cucina, qualche mese fa. Ma soprattutto Matteo, qualche anno fa, ha scelto un mio racconto per la sua rubrica su Linus “Laboratorio esordienti”, ed è stato un onore essere pubblicati  grazie a lui su una delle riviste più importanti del panorama editoriale italiano, di cui io sono affezionato lettore fin da quando ero piccino. Oltre a quello spazio, Matteo curava anche una piccola rubrica di novità letterarie “altre” rispetto a quelle recensite dal grande vecchio Piero Gelli. Si chiamava “Shorts”, ed era davvero un bell’osservatorio sui giovani autori, e non solo.
Perché declino tutto al passato? Perché dal numero di maggio, Matteo non ha più i suoi spazi. Perché non  li ha più? Leggetelo sul suo blog.
È uno schifo, e lo sarebbe anche se non avessi mai neanche letto una riga di Matteo. Ma, conoscendolo, perdonatemi, sono ancora più incazzato.

Ti racconto una storia

Tutti i racconti di Ali Smith potrebbero cominciare così, con un’interpellazione al lettore quasi sgraziata, che qualcuno potrebbe trovare superflua: uno sguardo in macchina proibito dalla grammatica del cinema, e sicuramente usato in maniera ruffiana da qualche scrittore. E invece i racconti che compongono La prima persona, ultima raccolta dell’autrice scozzese, sono puri e semplici come una chiacchierata. Creando un momento completamente surreale in un banale supermercato, o discutendo con la se stessa quattordicenne nella cucina di casa, l’io narrante di queste short stories affascina proprio per il modo che ha di raccontare. Ogni tanto si incontrano delle persone che rendono interessante il più banale degli accadimenti: ecco, Ali Smith, nella vita di tutti i giorni, è sicuramente una tipa del genere. Quando prende la penna, però, il taglio che dà al vituperato e, allo stesso tempo, celebrato quotidiano è illuminante.Illuminante nel senso proprio del termine: dalle righe di questo libro scaturisce la luce, o forse le parole riescono a rifrangerla in maniera tale che il lettore veda le parole e le cose di tutti i giorni in un modo completamente diverso, provando una specie di epifania pagina dopo pagina. Ci siamo tutti, in questi racconti: siamo noi l’operaio che rimane bloccato in un’intercapedine, viene licenziato e cerca un lavoro identico al precedente. Siamo noi quelli che rispondiamo male alla persona che ci ama, e ce ne pentiamo subito dopo per ripetere lo stesso errore. Siamo noi che, in letti e stagioni diverse, abbiamo la sensazione di vivere e rivivere le stesse esperienze, salvo poi non riuscire a farne tesoro e quindi commettere gli stessi sbagli.La Smith, in questo, è davvero eccellente, ma non si limita a rileggere il quotidiano. Il primo racconto della raccolta, per esempio, intitolato non a caso “Vero racconto breve” è un vero e proprio saggio sull’arte e sulla bellezza del racconto: ma di questo ci si accorge solo alla fine, quando l’occhio scorre oltre l’ultima parola del testo e si ferma, per un attimo, sulla pagina bianca che la segue. Fino a un minuto prima il lettore crede di assistere ad una serie di conversazioni tra l’autrice e una sua amica, o origlia con lei le conversazioni in un bar. Poi, si rende conto che è tutto lì, che la cosa più bella di chi narra è il fatto stesso che lo faccia, e ascoltare le parole scritte è pura gioia. Quindi non serve altro se non rispondere “Sì, dai”, quando, tra un racconto e quello successivo, si sente distintamente una voce che dice “Ti racconto una storia”.

Completamente notte adesso fuori casa mia e soltanto le sei di sera. Tutti i lampioni sono accesi. Tutte le macchine nella città oltre questa via stanno andando a casa o allontanandosi da casa, facendo il rumore che fa il traffico in lontananza. Più vicino a casa, nel giardino pubblico non illuminato, sotto un cielo che promette ghiaccio, qualcuno a noi invisibile passa in bici su uno dei sentieri, e grida a squarciagola. Ti amo. Difficile dire se è un uomo o una donna, poi nel buio grida quello che sembra un nome, lo grida nell’aria stellata sopra tutte quelle migliaia di morti antichi, e poi di nuovo le parole ti amo, e poi di nuovo il nome.
La me stessa quattordicenne guarda verso la finestra e lo faccio anch’io.
Hai sentito? diciamo all’unisono.
(Ali Smith, La prima persona, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 113. Traduzione di Federica Aceto.)

Di |2010-03-01T08:20:00+01:001 Marzo 2010|Categorie: Paperback Writer|Tag: , , , , |0 Commenti

Riportando la guerra a casa

Con la presentazione di La guerra in cucina che terrò domani alle 16 alla Libreria Ubik di Gorizia, si conclude, almeno per ora, il primo breve tour di promozione del libro. Ed è bello che si concluda nella mia città natale, dove, in realtà, diversi racconti che compongono il libro sono stati pensati (molti) e ambientati (qualcuno).
Ovviamente, se qualcuno di voi ha contatti con librerie, circoli vari, associazioni e simili, in una delle vostre città, non esiti a contattarmi: vorrei fare girare il libro ancora un po’. E attendo sempre le vostre mail, per capire, nel caso l’abbiate letto, se vi è piaciuto o no.

Update
: l’articolo de Il Piccolo di oggi. Però.

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